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I giardini dei dissidenti
 
I giardini dei dissidenti 2014-05-01 06:39:59 Maso
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
Maso Opinione inserita da Maso    01 Mag, 2014
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Valchirie di carne, Valhalla di carta

Uno strano e criptico incontro quello avvenuto con l’ultimo nato in casa Lethem, autore finora non frequentato dal sottoscritto e destinato a trovare un oblìo non meglio identificato all’interno della massa informe dei volumi con cui divido l’esistenza. Monsieur Lapalisse arrossirebbe di fronte ad una preventiva considerazione tanto facile quanto poco illuminante: siamo di fronte all’America, e con essa siamo di fronte ai suoi retaggi letterari più consueti e, francamente, più triti. Ciò che risulta chiaro fin da subito è la netta collocazione di questo romanzo all’interno della più compiuta tradizione della letteratura newyorchese/nordamericana, quella dei veterani sotto le insegne di DeLillo e quella seguente del Delfino, Johnatan Franzen (newyorchese solo d’adozione). Stile e modus operandi sono tipici di questo novecentesco folklore, tutti i crismi sono al loro posto e non vi è nulla a livello linguistico che possa considerarsi estraneo allo standard stellestriscie. Lessico forbito e tagliente. Frecce appuntite di nazionalistica autocritica sibilano negli interstizi del sarcasmo e della sdrammatizzazione. Una piccola dose di nobiltà di pensiero, qualche spoglia filosofica ammantata nel cinismo dei personaggi, lievito, vanillina, 180° per 45 minuti. Tutto può essere banalizzato, naturalmente, e ridotto ai minimi termini. Ma è altrettanto naturale l’inquadramento all’interno di una griglia di topoi, in cui l’abilità e la sensibilità narrativa non risiedono, a parer mio, nel loro sconvolgimento o nella loro negazione, ma nell’inventiva e nell’acume con cui possono essere combinati per creare qualcosa di sempre nuovo. Se la chimica ci insegna che nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, allora forse è altrettanto vero che il cliché va tollerato nella misura in cui è immagine, èikon, di una reinterpretazione di se stesso verso un fine, telos agognato, che è quello dell’originalità, della distinzione e dei palmizi oscillanti.
Per entrare ora nello specifico ed esaminare uno dei sovracitati topoi che tanto caratterizzano i giovani virgulti del panorama letterario, è impossibile astenersi da un apprezzamento sincero per la fortunata gestione e caratterizzazione dei personaggi. Ne “I giardini dei dissidenti” avviene ciò che dovrebbe sempre avvenire, a parer mio, in ogni denso prodotto cartaceo che si rispetti. I figuranti che occupano la scena hanno da dire qualcosa, hanno da mostrare, hanno da pensare e da dimostrare di saperlo fare. Non si fanno pregare e non sono avari, né tanto meno timidi. Rose Angrush Zimmer e la figlia Miriam sono, nel senso più calzante del termine, due primedonne. Sono loro, fulgide virago dei due versanti del Novecento, che attraggono tutti i fari della nostra attenzione. Loro, le valchirie che cavalcano l’esistenza come Europa in groppa al toro. E loro, questo toro libidinoso lo tengono per le corna, per nulla intimorite. Rose, privata di un marito mandato in esilio dal proprio partito, è la potenza, l’inflessibilità caratteriale portata alle estreme conseguenze. Una non-madre, comunista impegnata, ipocrita, contraddittoria, erudita e granitica. Mille aggettivi per un personaggio che merita e che si colloca a metà tra l’erona sofoclea, l’attivista disinibita immolata al più sfrenato sciovinismo e la madre superiora di un circolo di atei. E come lei Miriam. Come lei sprezzante e tremendamente, incorreggibilmente, imperdonabilmente, snobisticamente newyorkese. Miriam che non si scompone se Rose, in uno dei propri parossistici, barocchi proseliti, le infila la testa nel forno. Miriam che fugge da casa per la salvaguardia della propria condizione psichica e si ritrova a vivere appieno quei lustri di struggente libertà e lirismo che furono gli anni ’60. E allora, noi con lei, frughiamo McDougal Street e la Bowery alla ricerca di cugini impegnati in rivoluzioni, numismatica e scacchistica, facciamo conoscenza di un grasso ragazzino di colore tanto disilluso da capire di non doverlo essere affatto, che in un altro tempo sarà l’illuminato professore che racconterà la storia di Rose e Miriam al figlio di quest’ultima, nato dall’amore condiviso con il “chitarrista” Tommy Gogan.
Un mosaico in cui le tessere coincidono, sebbene disposte in squarci temporali che riassumono i passaggi salienti della storia americana recente. Ma la miscela di ingredienti che compone la malta, il legante di queste tessere, è troppo liquida e non fa presa. Si pretende di tenere tutto insieme ad incastro, a secco, in un contesto che rimane di carta e non di immagini. New York, per quanto mi riguarda, è assente in queste pagine scritte da Lethem. Rimane fatta di parole. La luce e lo spettro ottico che genera le immagini resta cieco e sordo, e una città che rappresenta un microcosmo resta un assembramento linguistico e verboso di strade, vie, quartieri, boulevard senza spessore, senza alcuna proiezione verosimile nella mente di chi a New York non ha mai messo piede. In questo senso credo che possa essere considerato un romanzo fortemente autoreferenziale, dedicato ad una limitata, ahinoi, quantità di lettori che sono i soli a poter godere appieno di tutto quello che viene passato sotto silenzio, che viene dato per scontato e risaputo di un mondo a sé stante con cui non tutti hanno familiarità. In un rapporto inversamente proporzionale, la munificenza con cui i personaggi donano sè stessi a nostro beneficio è guastata dalla cupidigia con cui si dà, o non si dà, la città che non dorme mai. In definitiva, troppo Sheeler e troppo poco Ruscha. Una Beat Generation bypassata senza quasi sfiorarla. Un tentativo di evitare la maniera, la peste di ogni artista che voglia definirsi tale, che, a parer mio, sfocia in un successo pallido e privo invece di quegli aspetti della poetica statunitense che, sebbene meno pregnanti a livello politico, sono stati fondanti nella formazione della classe intellettuale del Nuovo Continente. Forse, e qui si va nel puro contesto ipotetico, una piccola pecca di presunzione nel tentativo di mostrare l’abilità con cui i personaggi, se ben costruiti, non necessitino di una ribalta per essere credibili e inerenti ad un contesto. Non spetta a me la parola decisiva. Eccettuando gli scrittori di alto lignaggio, mi ritrovo invece ad essere della “scuola del contesto”, il quale, se altrettanto ben costruito, è capace di dare frutti parimenti nettarini.
Tirando le somme, siamo senza dubbio di fronte ad un romanzo sostanzialmente godibile, che pecca però di anemia e che rimane troppo poco verace da intaccare con risolutezza quella pellicola di distacco, critico e visuale, tra il lettore e l’autore. Un romanzo che non merita né bocciatura né indifferenza, ma che, invece di valorizzare sé stesso, conferma inesorabilmente, almeno per il sottoscritto, la superiorità totale di altri più pregiati prodotti di quella medesima scuola del narrare formatasi oltreoceano. E se il confronto non rientra nelle ortodossie dell’opinabilità, e mi esimo dal citazionismo per evitare il tedio (FranzenFranzenFranzen), definirei senza dubbio soddisfacente la condizione di aporia che mi porta a non dover bombardare il mio Olimpo e allo stesso tempo a metterlo in allarme. I nembi oscuri di Lethem si addensano in un orizzonte futuro, ipotetici ambasciatori di uno scroscio potente.

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