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Davita nel tempo
"Vecchi a mezzanotte" è un libro che rappresenta l'ideale continuazione del bellissimo romanzo "L'arpa di Davita". Vengono qui focalizzati tre distinti momenti della vita adulta della protagonista: diciottenne studentessa e insegnante di Inglese; trentenne assistente universitaria; sessantenne scrittrice apprezzata e di successo.
Il primo episodio è situato nel 1947 e rispecchia storicamente l'approdo negli USA di ebrei scampati alle persecuzioni naziste.
Qui Davita impartisce lezioni al diciassettenne Noah, unico sopravvissuto della famiglia e del proprio villaggio, "che non sa ancora che cosa gli piace", frase che nella sua semplicità apre uno spiraglio sul baratro che ha alle spalle. Egli si è salvato perché possiede una peculiarità che interessava ai tedeschi. Il suo blocco emotivo racchiude in sé la scioccante immagine della sinagoga del villaggio in fiamme, con l'anziano Custode dell'Arca che "si lancia verso il fuoco e le nubi. (...) La sinagoga gli crollò addosso, e non lo vedemmo più". La misurata e definitiva espressione mi ricorda la grandezza letteraria di alcune celebri 'chiusure' dello stile di Dante: "... più non vi leggemmo avante" (Francesca) ; "... infin che il mar fu sovra noi richiuso" (Ulisse).
Il secondo episodio si svolge alla fine degli anni '50; mostra Davita che accompagna un fuoruscito dall'URSS a tenere un ciclo di conferenze presso l'Università sul tema "La psiche sovietica". In un successivo incontro lo convince a dire qualcosa sulla sua esperienza in Unione Sovietica: riceve un lungo resoconto agghiacciante, che ci fa capire come la letteratura sappia entrare nella Storia e rappresentare sconvolgenti 'vissuti', che freddi dati e statistiche non possono offrirci.
Il nostro personaggio conduceva interrogatori, con annessi 'strumenti di persuasione' e torture, per estorcere le 'confessioni' volute. Per analogia, come non ricordare quel piccolo grande libro, di A. Manzoni, che è "Storia della colonna infame"?
Potok, da grandissimo scrittore qual è, non ama soffermarsi sul sensazionalismo di scene raccapriccianti; il suo stile misurato, però, ancor più ci fa intravedere la portata di drammi, tragedie e terrore che hanno segnato il potere sovietico, soprattutto con Stalin. Ci fa scendere 'a occhi aperti' nei meandri dell'orrore, e implicitamente riflettere sulla disumanità di dittature e totalitarismi, mostrandoci la devastazione non solo di chi subisce, ma anche in chi gestisce tale sistema di atrocità.
Nell'ultima parte, ci troviamo fra due prestigiose dimore d'epoca, con giardini contigui. In una abita, con la moglie malata, un noto 'sociologo della guerra' in procinto di scrivere le proprie memorie, lautamente remunerate; nell'altra è venuta a vivere Davita Chandal, scrittrice affermata, sempre alla ricerca di qualche storia che accenda la sua fantasia creativa.
Intorno alberi, boschi che lei immagina percorsi da un ariete. L'ambientazione è spesso notturna: ci si scorge dalle finestre illuminate. Fuori, le lucciole, "... in volo radente, rilucevano sul prato buio,trasformandolo in cielo stellato".
Tra un caffè doppio e una ciambella, in casa di lei, Davita insegna al professore, con metodo quasi freudianao, ad appropriarsi del passato. Qui ci addentriamo nell'alveo del processo creativo letterario e delle sue 'tecniche' : mentre lui dà forma con le parole al proprio rimosso, quelle stesse parole daranno spunto alla scrittrice per la creazione di una nuova opera.
Nell'aria notturna aleggia la parola tedesca "varum", "perché?", domanda emersa dalla profondità dei ricordi dell'uomo : quando, combattente nella Seconda Guerra Mondiale, si trovò al cospetto dei prigionieri di un lager nazista: " Perché ci avete messo tanto ad arrivare? ".
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Dopo questa recensione ho preso due decisioni: leggere Potok (credo che inizierò da L'arpa di Davita) e stendere una WishList, perchè dopo qualche mese che frequento questo sito i miei propositi di lettura si stanno un po' ingarbugliando...
Buona lettura, Mario.
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