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I fatti e le ' verità '
Questo bel romanzo del grande scrittore ungherese è suddiviso in quattro monologhi; è però interessante sapere che è stato scritto in tre momenti storici molto diversi: le prime due parti sono state pubblicate nel 1941; il terzo monologo viene aggiunto nel '49; l'opera completa, con la revisione di quest'ultimo e l'aggiunta dell' Epilogo finale, compare nel 1980.
Vediamo che i diversi momenti storici sono rispecchiati e filtrati dalla sensibilità e dal vissuto dell'autore, nei differenti momenti narrativi.
I primi tre lunghi capitoli si rifanno sostanzialmente alla medesima storia, raccontata dal diverso punto di vista dei tre protagonisti. L'Epilogo è affidato ad un quarto personaggio, che compare già precedentemente.
Il fatto centrale consiste nelle vicende di un giovane uomo della ricca borghesia di Budapest, sposato con una donna colta e bellissima, il quale mantiene vivo, benché inizialmente in modo che non trapela, un forte sentimento per la governante della casa natìa.
Il primo monologo è della moglie, ormai separata, del nostro protagonista, ora rasserenata ma segnata da profonde ferite.
A raccontare, nel secondo capitolo, è il marito, che fa entrare prepotentemente in scena Judit, l'ex governante, già comparsa precedentemente, che qui assume un ruolo non secondario, con un approfondimento psicologico notevole: diventata ricca, "voleva sempre qualcos'altro", comprava di tutto ("solo gli affamati si scagliano con la stessa foga su una tavola imbandita"), ma non era mai appagata ("aveva capito che ogni tentativo di riscatto individuale è inutile").
Con il terzo monologo, quello di Judit stessa, si è ormai nel dopoguerra; l'Ungheria è diventata comunista filosovietica.
Lei, fuggita a Roma, ricorda sia la vita privata precedente, sia il culmine della guerra, la devastazione e i caos socio-politico della patria lontana. Qui l'autore (anch'egli scelse la fuga in Occidente) sembra quasi identificarsi nel descrivere orrore e disfatta, tanto le immagini sono vivide e realistiche.
Molto interessante l'approfondimento psicologico del personaggio: "Ero anch'io una bambina malata di nervi (...). Anche noi abbiamo dei segreti, non solo i ricchi"; "Il motivo principale per cui odiavo i ricchi è che riuscivo a portargli via soltanto i soldi. Il resto (...) non me l'hanno voluto dare" : allude alla signorilità, alla cultura.
A proposito di questa, ha però captato (e qui pare attingere dall'autore stesso) che " la cultura è quando una persona...o un popolo...sono pieni di una gioia immensa!(...) in giro ci sono solo esperti, che però non sanno dare quella gioia che è la cultura". Lo scrittore pare aprire ad un sottile umorismo: "Ormai i libri sono così tanti che sembra non esserci quasi spazio per il pensiero".
Infine, l'Epilogo è situato nella New York dello sfrenato consumismo. L'autore, attraverso l'ultimo monologo, sembra infondere al personaggio anche un po' del proprio atteggiamento critico, sia nei riferimenti agli orrori del comunismo ungherese, sia verso l'opulenza soverchiante americana. Con sarcasmo fa dire, alla poco accorta voce narrante, che pure chi non è ricco si sente un signore perché i borghesi vogliono vendergli di tutto, e sostenere che il proletariato abbia vinto in questo modo!
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Commenti
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Grazie Emilio!
Pia
decifrare la realtà.
complimenti per la bella analisi di questo libro.
Ho molto apprezzato "Le braci" di questo autore e grazie alla tua recensione credo leggerò anche questo.
Saluti
Riccardo.
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Pia