Dettagli Recensione
Una distopia reale.
Avete presente 1984 di Orwell?
Probabilmente sì, lo avrete letto e anche apprezzato.
Probabilmente non avete però immaginato che i meccanismi perversi di uno stato totalitario e feroce, come quello disegnato da Orwell, siano in realtà molto più concreti di quanto un romanzo possa mai suggerire.
Nel XXI secolo è sufficiente girare il mappamondo fino a fermarsi sulla Corea del Nord. Lì, in questo momento, l'incubo di Orwell è quotidianità.
E' la prima impressione che ho avuto dalla lettura de " Il signore degli Orfani", vincitore del premio Pulitzer 2013. Questo libro non è semplicemente un romanzo, un racconto fantasioso e metaforico su di una astratta dittatura del futuro.
Questo libro vuole essere anche un documentario, un racconto realistico, frutto di ricerche, dei racconti di sopravvissuti e disertori, di un viaggio pericoloso in quel paese oscuro al resto del mondo per raccontare un po' di verità.
L'autore, un celebre giornalista statunitense che si è appassionato ai misteri del regime nordcoreano, ha voluto fondere le fonti di informazioni a sua disposizione in un unico racconto, al fine di proiettare il lettore nelle feroci dinamiche di uno stato che tutto vuole e tutto controlla, privando anche il più innocente delle creature della propria dignità.
Ed è infatti dall' infanzia di un piccolo coreano che viene a svilupparsi l'intreccio. Pak Jun Do viene cresciuto in un orfanotrofio, il padre lo dirige ma non può né vuole riconoscerlo, la madre è stata costretta ad abbandonare la famiglia per le più perverse politiche nazionali.
Vive di stenti, di lavoro e di fatica. Cresce vedendo gli altri bambini morire e subire i più indicibili soprusi fin quando non è abbastanza grande per andarsene, iniziando una vita che non sarà altro che lo specchio della sua infanzia. Lui, come tutti gli altri suoi connazionali, non ha futuro proprio perché non ha libertà. E' orfano della libertà.
Sono i pochi al potere a decidere per lui, tracciando un sentiero lastricato di falsa propaganda ed ipocrisia, di fame e di bugie a cui nessuno crede ma che tutti danno per vere, fino a rendere l'uomo un automa, un perfetto cittadino nordcoreano ma un pessimo essere umano.
Le pagine si susseguono amare e a volte poco digeribili, Johnson non ha paura di proiettare il suo protagonista in una serie di eventi raccapriccianti, forse troppo numerosi per accadere tutti ad un'unica persona. Il suo scopo non è però quello di rendere Pak Jun Do un uomo reale, bensì di renderlo sintesi e simbolo delle condizioni di un'intera nazione.
La scrittura è a tratti ruvida e pesante, manca di quella leggerezza o di quel gusto poetico che di solito cerco in un libro. Sotto questo aspetto non l'ho apprezzata , anche se devo ammettere che è più adatta al tenore delle situazioni rappresentate.
Quanto al contenuto, la lettura mi è piaciuta, non posso non ammetterlo. E' stata terribilmente affascinante e sconcertante allo stesso tempo.
Poter visitare tramite gli occhi di Pak jun Do le strade della capitale nordcoreana, le sue abitazioni ed abitudini, le sue perversioni, i suoi campi di concentramento e di tortura fa molto riflettere. E' mai possibile che nel 2014 ancora esistano luoghi del genere? E' mai possibile che Orwell sia stato profeta inconsapevole della più dura dittatura esistente?
Chiusa l'ultima pagina ho capito una cosa: la libertà è tanto più dolce quanto è amara conquistarla.