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Il miglior Roth sta altrove
Alexander Portnoy non è poi questo gran simpatico. All’inizio sì, con il racconto di un’infanzia e una giovinezza oppressi da una madre asfissiante di cui è succube come succube è il marito, gran lavoratore ma uomo insoddisfatto che somatizza lo stress in un’epocale stitichezza. Insomma, la classica famiglia ebrea piccolo-borghese che abbiamo conosciuto tante volte, ma raccontata con lingua sciolta e brillante. Il ragazzo non può far altro che ribellarsi, affiancando il fascino per le idee socialiste a quello per l’autoerotismo: l’impegno e il suo pisello saranno gli interessi della sua vita, con il primo che però resta sullo sfondo mentre il secondo è perennemente in primo piano. E allora il lettore può cominciare a scocciarsi: perché non bastano la scrittura scintillante, la bravura nell’interpolare gli argomenti saltando nel tempo e nello spazio senza far avvertire le cesure, la descrizione allo stesso tempo sferzante e affettuosa del microcosmo da cui proviene il protagonista per arrivare a pagina duecento senza sbuffare e pensare ‘di nuovo?’. La domanda, non ci sarebbe bisogno di sottolinearlo, riguarda spesso il sesso: forse quando il libro uscì, nella seconda metà degli anni Sessanta, la quantità e la varietà dei rapporti poteva anche avere un senso, ma oggi che abbiamo letto e visto di tutto – inclusi film sull’ossessione sessuale come il bel ‘Shame’ di Steve McQueen – finiscono per appesantire il libro facendo pensare che la vicenda avrebbe avuto un migliore equilibrio nella dimensione del racconto lungo. In ogni caso – e a prescindere dalla carriera – a Portnoy interessa solo quello e, sia colpa del rapporto con la madre oppure no, risulta anaffettivo nei confronti delll’altro sesso finendo per maltrattare le donne con cui si accompagna e svicolando ogni volta che si può profilare qualcosa oltre al rapporto fisico: a farne le spese in maggior misura, quella per la quale utilizza solo il nomignolo di Scimmia (vicenda che è costata all’autore qualche accusa di maschilismo forse non del tutto infondata). E sul lettino dello psicanalista che ne farà un caso clinico, il protagonista ci finisce solo quando gli capita di far cilecca nella terra degli avi: l’improvvisata trasferta israeliana mette Portnoy di fronte alle sue inadeguatezze, non solo fisiche, ingarbugliandolo ancor di più nei problemi che derivano dalla sua educazione ebreo-americana. Il contrasto tra ciò che le convenzioni sociali impongono e ciò che si desidera davvero essere è infatti un altro dei temi del libro, ma Portnoy non sempre pare riuscire a vedere le proprie responsabilità personali, utilizzando sovente quelle sociali come scusa per i propri problemi. Ne esce così il ritratto di un uomo che è mediocre malgrado le buone qualità in un libro che regala meno di quanto prometta nelle prime pagine: in molti passaggi ci si diverte e si ride anche di gusto, diverse sono le pagine molto belle, ma il risultato complessivo non è all’altezza facendo pensare che, malgrado la fama del titolo, il miglior Roth stia altrove.