Dettagli Recensione
"...e morirono felici e contenti".
Su questo romanzo sono state scritte tante di quelle recensioni che inizialmente ho pensato fosse abbastanza superfluo aggiungerne un’altra. Se poi ci ho ripensato è perché la loro stragrande maggioranza era perfettamente in linea (poetico, stupendo, emozionante, commovente, imperdibile, uno stile di scrittura fluido e affascinante, ecc.), mentre a me, lo dico subito, non è piaciuto. E credo che in questi casi anche una voce dissonante possa rendersi utile.
Ho letto questo testo in poche ore, ma non perché particolarmente coinvolto dalla storia: a metà lettura, la parte rimanente mi appariva già piuttosto scontata, con gravi timori di successive lungaggini e stucchevolezze, poi riscontrate, che mi avrebbero accompagnato stancamente alla parola fine di tanto strazio (d’amore). Tanto valeva, dunque, liberarmene quanto prima.
Se questo racconto, anziché in località sperduta della già poco nota Birmania, fosse stato ambientato che so, 50 km a sud di Copenaghen, probabilmente – questo è il mio opinabile pensiero - non staremmo neanche qui a parlarne. Poiché, però, da recensioni lette, il maggiore impatto ottenuto da questo testo sarebbe la straordinaria prova d’amore (a prescindere da razza e confini) dei due protagonisti, potrei anche non tener conto della localizzazione della storia. Che in realtà è, sempre a mio modesto avviso, l’unico aspetto interessante di essa.
L’autore voleva descrivere “un amore per la vita”; un amore che non trova fine o pause neppure a distanze temporali e spaziali apparentemente (ma solo apparentemente, a quanto pare) incolmabili. L’obiettivo non era certamente dei più scontati. Perché se tanti hanno vissuto “il grande amore”, poi la vita scorre e di quello rimane solo un caro ricordo, amorevolmente conservato, di sicuro, ma un ricordo. In realtà, di quel grande amore, a distanza di tanto tempo, non si saprebbe neppure più misurare l’effettiva entità.
La circostanza che tale rapporto venga ricondotto a due giovani affetti da gravi menomazioni fisiche non mi pare possa incidere positivamente sulla solidità e longevità di esso. Incrementa solo la componente commotiva (e narrativa, ovviamente) del racconto. Racconto che inizia come un giallo a New York (capofamiglia che scompare all’improvviso senza lasciare tracce di sé) e si trasforma in fiaba nel sud – est asiatico. E uso il termine fiaba perché di essa vi sono veramente tutti gli ingredienti: dai poteri extrasensoriali del protagonista maschile, che danno titolo al romanzo, a certi passaggi, riferiti alla protagonista femminile, che riecheggiano favole dell’infanzia (…”Dopo la guerra giunsero scapoli da tutto lo stato di Shan…addirittura da Rangoon e da Mandalay, tanto si era diffusa la fama della sua bellezza”; “C’erano uomini che avrebbero voluto morire nella speranza di reincarnarsi in un maiale, in una gallina, in un cane, pur di diventare uno dei suoi animali domestici”…). E si potrebbe andare avanti.
Personalmente non ho riscontrato neppure l’indicato stile di scrittura fluido e affascinante. La storia è appesantita da lunghe e spesso ripetitive descrizioni di circostanze e sensazioni e il comportamento della giovane e normalmente sbrigativa avvocatessa, che se ne sta ore e ore e giorni ad ascoltare il racconto cinquantenario di un vecchio sconosciuto prima di ottenere risposta all’unico interrogativo di suo interesse (che fine ha fatto il padre), non appare molto compatibile con la realtà. Come piuttosto irreale, d’altra parte, risulta tutto il resto di questo romanzo, con l’eccezione del ritratto concreto del povero e sperduto paesino birmano dove la gente si nutre male, invecchia presto, muore per nulla e nel quale, aggiungo io, le favole trovano poco spazio d’esistenza.
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Saluti e Auguri