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La strada
Nessun colore, solo un accenno di bianco, il nero delle notti senza stelle e un’infinita serie di sfumature di grigio. Cenere ovunque che, prima ancora che giunga a terra, sporca la neve che cade da un cielo in cui il sole è sempre coperto dalle nubi. E’ un mondo morto quello in cui avanzano l’uomo e il bambino, padre e figlio diretti da qualche parte verso sud armati solo di una pistola con due colpi e un carrello della spesa in cui stanno tutti i loro averi: mangiano quel poco che ancora si trova e cercano di ripararsi in qualche modo dal freddo onnipresente e da precipitazioni sovente furiose. Nella desolazione attorno a loro, i pochi esseri umani sopravvissuti sono ormai regrediti a uno stato bestiale e a scaldare i protagonisti, più che i falò improvvisati che accendono con fatica, è il fuoco dell’amore reciproco, in cui trovano la forza di andare avanti anche se la loro impresa può apparire insensata. Leggere i romanzi di McCarthy non è di norma una passeggiata, ma questo è disperante in modo particolare e così per un bel po’ gli ho girato attorno: se è vero che ci sono poche tracce della violenza che contraddistingue le altre opere dell’autore di Providence, la sua Terra post-apocalittica (molto post, l’azione si svolge svariati anni dopo un’ecatombe non spiegata) si intrufola nell’animo del lettore spandendovi un’insidiosa angoscia. Eppure, malgrado l’ambientazione opprimente e con la sola, tenue fiammella di umana speranza che muove i personaggi, il libro sa coinvolegere con forza inaspettata grazie anche a una scrittura che procede per frasi brevi in una lingua ritmata che riesce a ricostruire un mondo con il minimo di parole possibili e a modellare dialoghi fondamentali anche quando paiono ai limiti dell’afasia. Se si esclude qualche paragone artisticheggiante che un po’ stride con l’estrema concretezza di gran parte della narrazione, lo scrittore dimostra ancora una volta di sapere come farsi seguire in un territorio di poca immediatezza: per raggiungere lo scopo, qui c’è la rinuncia ai capitoli e la scelta di un racconto spezzato in gruppi di poche frasi che scolpiscono un susseguirsi di scene dando vita a uno sviluppo quasi cinematografico. Così le pagine scorrono anche se, a ben guardare, nel libro ben poche cose succedono a parte il viaggio, sorta di icona statunitense in versione raggelata perché il grigiore uniforme rende il paesaggio sempre uguale: il vero fulcro è il rapporto tra padre e figlio (il volume è dedicato all’erede avuto dall’autore in tarda età) con il primo che, tormentato da qualche ricordo della vita di prima, cerca disperatamente di difendere il secondo, la cui innocenza va svanendo con il passare dei chilometri. Quando, dopo poco più di duecento pagine, il genitore non ce la farà più, il ragazzo sarà infine costretto a scegliere da solo in un finale di meravigliosa ambiguità.
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assolutamente da leggere
Immagina una 3° Guerra Mondiale, molto probabilmente nucleare...cosà resterà dopo tutto?
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