Dettagli Recensione
Quel qualcosa in più
"Indignazione", è difficile pensare ad un titolo più azzeccato ed è difficile pensare ad un termine più appropriato per descrivere, riassumere e spiegare (o spiegarci) quanto detto da Philip Roth in questo romanzo. E’ infatti quest’ultimo un inno all’indignazione. Ogni singola pagina è permeata da un sentimento di ribellione subliminale, di leggeri sospiri di sconforto che durante il viaggio di pochi mesi del protagonista si trasformano, in un calmo (ma pur sempre ricco di dramma) crescendo, in urla di rabbia contro l’illogicità di tutto quanto lo circonda.
Già, infatti, se non lo si fosse ancora capito in questo libro si parla di “indignazione.”
Ma contro chi? Contro cosa?
Difficile (eppure indispensabile) rispondere, poiche al pari dell’evoluzione geografica e cerebrale del protagonista anche il sentimento fondamentale del libro si evolve e migra posandosi su ogni aspetto della vita del vent’enne di cui Roth ci racconta la sorte.
Inizialmente ciò che lui prova è l’indignazione più classica e banale, quella contro il padre, il genitore oppressivo. Quella del giovane ormai adulto che comprende di doversi confrontare e scontrare con dei valori che non fa più suoi, che non riconosce più come tali. Senza un compromesso, come spesso accade, questo scontro porta ad una separazione. Ma la separazione dal guscio familiare invece di alleviare la pressione genera nel giovane uomo una nuova e sconfinata serie di soggetti e oggetti contro cui scagliare la propria rabbia. Quali sono questi soggetti? Semplice, la vita e ogni singolo, stupido, importante, facile, complesso problema/rapporto che quest’ultima comporta: il ragazzo va al college, abbandona la casa e se prima l’unica fonte di contrasto era quella genitoriale ora si trova al cospetto di centinaia di fonti, migliaia. Una per ogni singolo nuovo impulso che riceve dalla sua nuova esistenza. Prima i compagni di college, così diversi e così scoccianti, poi i clienti del primo lavoro così irriverenti e disturbanti, poi la prima ragazza così disinibita e pazza (e qui la narrazione pur mantenendosi di alto livello è pervasa di un’ironia che non si può esattamente definire “fine”, ma ciò non di meno azzeccatissima) ed infine i capi, i superiori, coloro che gli impongono una determinata condotta, un determinato modo di essere. Ma al ragazzo, ormai collegiale, questo non è sufficiente: contro tutti, specialmente contro chi è più forte di lui, non si può scagliare, non può combattere e sperare di vincere e allora fa l’unica cosa sensata: rivolge la sua attenzione alla causa scatenante, concentra la luce del suo riflettere sul motivo percui tutto ciò che ai suoi occhi c’è di più assurdo gli viene imposto senza un minimo di logica. E cos’è quel motivo, quella causa che determina la condotta dei suoi compagni, della sua simil-fidanzata, dei suoi professori? Il Sistema, con la S maiuscola, inteso come insieme delle norme, delle regole, delle consuetudini e della tradizione di quel college. E cosa c’è di più illogico della tradizione agli occhi di un giovane con il sangue del rivoluzionario e gli attributi di un bue? (Si noti che la citazione di un animale, ahi lui, castrato non è casuale).
Ecco dunque finalmente un oggetto inanimato, un entità non troppo concreta, contro cui scagliare la propria ira sicuri che tanto questo, per sua natura, non può rispondere per le rime. Ma il ragazzo, che in questa fase sembra più giovane di quando lascia il nido familiare carico di aspettative, fa male i suoi calcoli, poiché il sistema college, e per estensione il sistema sociale dell’America fine anni 50, sono sì un’entità astratta con connotazioni non perfettamente definite e delineate, ma sono anche termini inclusivi, che descrivono e racchiudono in un unico insieme delle persone reali che condividono e sposano le stesse idee e i medesimi valori. Il “sistema college” infatti è costituito dall’insieme degli individui che popolano il college, il sistema sociale invece è costituito niente meno che da la gran parte della popolazione americana; scontrarsi contro quei sistemi equivale scontrarsi contro i costumi, le credenze e i valori del tempo, scontrarsi contro tutte quelle cose equivale a scontrarsi contro un' intera società. E quando il rapporto di forze è cosí impari non si può vincere, al contrario invevce, se la disputa eccede il piano puramente intellettuale e il ragazzo fa il passo più lungo della gamba, non solo rischia di andare incontro a delle ripercussioni sia morali che fisiche ma rischia anche di essere respinto, marchiato come anormale e ripudiato da quella società che odia ma a cui in fondo persino lui appartiene.
Così pare accadere.
Finalmente si penserà dunque che il ragazzo abbia raggiunto il suo obiettivo: estraniarsi totalmente da quell’assurdo ambiente di pregiudizi, preconcetti e valori superficiali che costituiscono il suo mondo, ed elevarsi, finalmente libero, ponendosi come alternativa a tutto ciò che c’è di illogico, tradizionale e ignorante… Eppure non è così. Si scopre, lui scopre, che infondo, forse quel bisogno di combattere, di ribellarsi al sistema, nasce dal bisogno di essere accettato, di essere parte proprio di quel sistema che lui odia tanto.
Forse è così e forse no, è naturale che non sia sicuro, che abbia dei ripensamenti, è sempre difficile auto analizzarsi, specialmente a vent’anni, ma è del resto anche naturale che proprio per questi ripensamenti, proprio nel momento in cui è libero, ma solo e abbandonato, appena il sistema, la società, la tradizione del college, comunque la si voglia chiamare, gli ridà una possibilità permettendogli di rientrare nel caldo e sicuro insieme dei “normali”, appena l’illogica vita comune gli tende nuovamente la mano, lui, assetato di affetti e di contrasti, di superficiali piaceri e illogici sconforti, vi si aggrappi ardentemente.
E il presunto ribelle che finalmente aveva trovato il coraggio alla prima possibilità ritorna sui suoi passi facendosi fagocitare da tutto ciò contro cui aveva combattuto.
Be ognuno trova la sua strada, se a lui va bene così… Dunque finalmente felice? Destinato ad un normale, canonico, roseo, ancorché limitato, futuro?
Così parrebbe, ma la giustizia poetica è in agguato dietro l’angolo, ed è una giustizia quanto mai vendicativa.
E’ vero ora il ribelle è tornato in società, il pazzo ora è sano, ma qualche germe di indignazione l’ha pur sempre con sé. Senza giri di parole: sarà anche come gli altri ora, ma certe regole non le ha mai sopportate, ne mai le sopporterà. Fortuna che ora è parte del sistema sociale, della normalità e questa normalità è molto vasta; nella normalità sono contemplate moltissime casistiche, perfino estreme, perfino controproducenti, eppur tuttavia ancora normali, come per esempio quell’antico adagio che vuole che una volta trovata la legge sia “gabbato lo santo”. Ma il sistema è meschino e la società con i suoi pregiudizi è anche peggiore, con una mano da e con l’altra toglie il doppio: il giovane rientra al college, si affligge quotidianamente con tutte le regole e norme che vuole la tradizione, ma una cosa non l’ha mai potuta soffrire: la funzione domenicale in chiesa. Neppure tanto quella di per se stessa, ma la costrizione di parteciparvi. Fortunatamente il sottoinsieme studenti del sistema società col suo ampio spettro di casistiche “normali” prevede molteplici scappatoie. Cosa c’è di più naturale dunque per il ragazzo, ora semplice studente come gli altri, se non aderire alla normalità? Cosa c’è di più ingenuo e innocuo se non approfittare di una di quelle previste scappatoie? Nulla! Ma com’è detto è troppo ingenuo, innocuo e la giustizia morale, l’atroce arma delle maggioranze è pronta a colpire.
Il ragazzo si fa sostituire alla funzione in chiesa, viene beccato.
Il protagonista, ormai non più ragazzo, forse neppure uomo, ma solo essere atemporale, ha perso tutto, ora è completamente estromesso da ogni aspetto della vita comune, lui si è fidato in fine ed infine è stato ingannato. Ora è uno sconfitto perenne, non ha più nulla. Ed ecco, come una malattia latente che quando sembra sconfitta riappare più vigorosa di prima, ecco l’indignazione, la causa di tutto, ricomparire in tutta la sua deprecabile gloria. E il giovane si ritova traboccante odio ma senza un obbiettivo, un soggetto su cui riversarlo.
Anche qui il passo successivo è quanto mai ovvio: senza più nessuno, non può far altro che scagliare l'ira contro l’unica cosa che gli rimane: se stesso, o meglio il concetto di se stesso, l’idea che in quei pochi anni di vita s’è fatto del suo modo d’essere. E dunque ora, solo come un cane, riprende quel lamentoso adagio appena sospirato che lo accompagna lungo tutte le pagine del libro che può essere riassunto con il seguente ennesimo interrogativo: è più giusto indignarsi contro l’illogicità del mondo o è meglio indignarsi contro noi stessi che non possiamo fare a meno di notarla? (Anche qui il cambio di soggetto non è casuale, poiché è vero che il libro parla di un ragazzo, di un qualcun altro, ma le domande che il ragazzo si pone sono le stesse che l’autore ci pone.) E’ lecito dunque essere indignati (e chiunque, per lo meno una volta, per lo meno per una singola cosa lo è stato) o sarebbe più lecito tentare di guardare dentro noi stessi poiché questo sentimento come gli altri nasce esclusivamente da noi? E’ più giusto lamentarsi di qualcosa o cercare di migliorare noi stessi per migliorare poi il resto? Ed infine è più coraggioso urlare, ribellarsi, e gridare la propria rabbia o sopportare per una vita in silenzio tentando di adeguarsi continuamente e costantemente a qualcosa che sappiano essere ingiusto? Cos' è più difficile, cos'è più facile, cos'è più doloroso?
Il protagonista non ha alcuna risposta per noi, lui è solo un mezzo per farci pensare, è l’agnello sacrificale del mondo ideato da Roth, per nulla distante dal reale, lo strumento per farci riflettere sulla nostra natura, su quello che con il nostro intelletto abbiamo creato, su quello a cui ormai siamo abituati a definire consuetudine, fosse anche l’aberrazione di un uomo che costringe un altro, che ha diritto di vita e di morte su un altro, l’aberrazione di una parola inventata che stabilisce cosa è giusto e cosa non lo è, di un sentimento che detta la sorte di una persona predestinandola e in fondo fosse anche l'ironia di quell’assurdo gioco che è l’alternarsi della vita e la morte; cose così comuni e banali da non farci più caso ormai, così semplici da essere scontate, eppure così costrittive da non riuscire a contemplarne l'alternativa. Potere - debolezza, comando - esecuzione, volere - dovere, noi - gli altri, vita - morte, accettare - ribellarsi, cos' è più difficile, cos' è più facile, cos' è più doloroso?
Roth con questo suo romanzo sembra dirci: “signori questa è la vita, non c’è altra possibilità, se vi piace è così altrimenti siete liberi di andarvi ad ammazzare. Badate bene però che poi non vi rimarrà nulla se non la vostra indignazione, l’indignazione per voi stessi, per quanto siete stati stupidi e alla fine addirittura l’indignazione di essere indignati.”
Questo è il significato dell'opera, l'interpretazione dei suoi molteplici eppure unitari contenuti. Più che dei contenuti però mi preme parlare del modo di scrivere. (Per quanto mi renda conto di quanto possa essere assurda questa mia affermazione dopo che ho impiegato più di cento righe per esprimere i concetti a cui rimanda il romanzo!) Per pietà nei confronti di quei pochi, nonchè masochisti, lettori che si sono spinti fin qui tenterò comunque di essere conciso.
Leggendo i libri di Philip Roth, e soprattutto questo, ciò che mi sorprende ogni volta non sono tanto i contenuti, i pensieri, le discussioni interiori che nascono dalle sue parole, ma le parole stesse, o meglio, la scelta di queste, dal titolo all’ultimo termine dell’ultima pagina infatti non c’è mai nulla di più appropriato per descrivere, narrare, spiegare, raccontare quanto riportato nel libro. E’ realmente difficile pensare a uno stile narrativo migliore; i paragoni con altri scrittori a lui antecedenti si sprecano, l’avevo già accostato per un'altra sua opera ad Hemingway, altre volte a Steinbeck, ma in questo caso, a costo di peccare di sensazionalismo (o quant’altro vi paia) affermo che, ebbene sì, qui li supera! Da quei due grandi trae il realismo concreto e oggettivista con cui racconta la vita (per quanto l’autore stesso abbia affermato di essere stato influenzato da altri scrittori, come per esempio Saul Bellow), ma al contempo rielabora tutto aggiungendoci qualcosa di suo, qualcosa di indefinito che per certi aspetti può essere considerato il cosiddetto “messaggio”, la morale per intenderci, ma poi a ben rifletterci si capisce come anche questa definizione sia del tutto imprecisa ed inascrivibile a questo e agli altri suoi romanzi dal momento che, egli stesso, pone molte più domande di quante risposte trovi, dal momento che spesso alla fine lascia il lettore con un senso di compiutezza nell’incompiutezza, come a dire “sì la vicenda umana e la narrazione sono terminate, ora sta a voi stabilire cosa sia giusto e cosa no, cosa fare proprio di quello che vi ho raccontato e cosa no.” Ma se questo effetto non è dato semplicemente dal significato dell'opera non è neppure dato dalla trama o dai contenuti, in sé e di per loro piuttosto canonici, per non dire banali, e neppure dalla sublime accuratezza nel periodare. Tutto è appropriato, d'accordo, dai termini, al ritmo, alla lunghezza delle frasi, ma non è sufficiente, non basta: non sono tanto i singoli aspetti a rendere questo e molti altri suoi libri, particolari, piuttosto la somma di questi più qualcos'altro ancora, qualcosa di impalpabile, indefinibile.
Data questa sussurrata eppur concreta inspiegabilità fenomenologica non mi resta che affidarmi alle sensazioni e tentare di fare oggettivo ciò che in realtà probabilmente è niente più che una esperienza soggettiva. Ebbene: quando si leggono i libri di Phili Roth, a differenza di molti altri autori a lui assimilabili per fama, bravura o anche solo numero di copie vendute, non si ha mai l’impressione di buttar via il tempo.
Un po’ poco penserete, eppure no.
Riflettiamoci, quante persone quando leggono prendono la lettura sul serio, intendo come parte della loro esistenza, come strumento per la propria evoluzione personale, come metodo di catarsi sociale volto alla comprensione del reale? E quanti invece usano i libri semplicemente per rilassarsi dopo una giornata di lavoro, per staccare la mente alla sera o per ben disporsi l’animo alle fatiche della giornata, magari il mattino assolvendo alle proprie funzioni corporali?
Io il più delle volte sono colpevole di far parte del secondo gruppo, perfino leggendo dei mostri della letteratura come Hesse o Dostoevskij mi adeguo sempre al costume sociale dei secondi, ma malgrado sia innegabile che si riscontrino maggior spunti nei due sopracitati grandi che in un Ken Follett qualunque (non me ne voglia l’autore e tanto meno i suoi seguaci), persino la lettura di “quei due” la inserisco in quella fascia, in quel secondo ambito puramente intrattenitivo, che spesso si accorda alle quotidiane funzioni fisiologiche degli esseri umani a mo di passa tempo. (Forse è proprio questa la bellezza e l’assurdità della vita: i pensieri più profondi, le riflessioni più importanti avvengono spesso nei momenti più bassi che la natura umana ci ha riservato.)
Con Philip Roth invece no, leggendo i suoi libri, si ha la sensazione costante di fare qualcosa di importante, di non perdere tempo, di dedicarsi costruttivamente ad un’attività propedeutica alla propria crescita individuale. Sì, i libri di Roth trascendono il semplice intrattenimento e si rivolgono direttamente alla nostra coscienza e al nostro intelletto. Ed è questo il motivo che eleva l'autore sopra i suoi simili e lo fa diventare così quotidianamente importante. Tenterò di essere ancora meno comprensibile: nessuno come lui riesce a trarre dal proprio io i pensieri e a oggettivarli presentandoceli sulla carta stampata in modo che noi li si riesca ad interiorizzare, oggettivandoli, proprio mentre stiamo esteriorizzando e per questo rendere l’esperienza personale dell’esteriorizzazione qualcosa di concreto, oggettivo, e soprattutto importante. ...Chiaro, no?
Forse questa mia ultima valutazione potrà sembrare un tantino stramba, eccessiva e fuori luogo, però è concreta e pur traendo dal soggettivo diventa a suo modo oggettiva tanto quanto lo è l’esperienza comune di ogni persona definibile “regolare” tanto d’intelletto quanto di corpo.
Ma a costo di rasentare la scurrilitá, per amore di quella stessa limpida chiarezza, e di quell'intransigente devozione alla causa che non ammette scappatoie, attenuanti, ne tantomeno mezze misure, di cui Philip Roth si fa portavoce, nonchè maestro nei suoi romanzi, voglio essere ancora più specifico e rimarcare ancora di più quella singolare ed imprescindibile peculiarità del suo scrivere che lo rendono unico di fronte a qualunque altro autore del suo tempo: Philip Roth è l’unico scrittore che riesce a rendere importante perfino la cag… mattutina!
Sono propenso a credere che nell'infinito elenco di aggettivi e frasi utilizzate per lodare le capacità di Roth nessuno (direi anche giustamente) ne abbia mai parlato in questi termini. I suddetti termini potrebbero, e a ragione, infatti apparire eccessivi, fuori luogo, ma se la smania di nuovi elogi da rivolgere a uno scrittore è tale da riuscire a stressare una frase fino ad elevarne lo squallore a complimento, be... non occorre davvero aggiungere altro: si è difronte al migliore.