Dettagli Recensione
Ma lui si è capito?
Una narrazione netta, pulita ed uno stile sincero, sobrio e tuttavia profondo fanno di questo libro un capolavoro... mancato. Mancato ineluttabilmente e desolatamente, poiché se dal lato tecnico/stilistico Murakami fa sfoggio di tutta la sua classe riuscendo con maestria a mischiare la consuetudine con la desuetudine, il realismo con l'onirismo e in definitiva il fisico con il metafisico, conferendo una solida credibilità ad un personaggio che schematicamente ridotto ai minimi termini sarebbe improbabile quasi quanto un fantozziano puffo pervertito, se da un lato riesce in tutto ciò, dall'altro lato, quello contenutistico, fallisce miseramente. L' affascinante vena letteraria dell’autore infatti si esaurisce dopo pochi capitoli relegando lo spunto e l'ispirata innovazione a pochi sparuti paragrafi (per lo più riconducibili alla realistica cronistoria del Giappone durante gli ultimi mesi della seconda guerra mondiale.) Il piattume che circonda quei brevi fogli purtroppo è epidemico e neppure gli svolazzi fantastico/fantasiosi (da veggente telefonica o cartomante televisiva) servono a risollevare una trama che sprofonda sempre più nel ridicolo e nel fumoso iperbolico.
Eppure il libro è solido! Eppure avvince! Pagine e pagine di insulsi contenuti, eppure diletta! Come è possibile? A cosa è riconducibile questo stridente paradosso? Sì, la parte storica è interessante ma slegata e povera, gli spunti filosofici sono adeguatamente profondi e per certi aspetti anche peculiari, ma pur sempre fini a loro stessi e "già conosciuti", dunque come è possibile?
L'unica teoria che si può chiamare in causa a supporto di una plausibile spiegazione di questo contrasto fenomenico è ancora quella, la sola e la solita: l'abilità tecnica dell'autore (anche se in questo caso più che di tecnica si dovrebbe parlare d’ arte) che, pur con qualche caduta di stile e pericoloso capitombolo di ridondanza, riesce a creare un testo perfettamente bilanciato in tutte le sue componenti, in equilibrio costante tra il concreto cronico e l’acuto astratto, tra il reale e il metaforico, tanto che tutte le ottocento e più pagine sembrano quasi un pretesto, un pretesto per poter dire qualcosa di diverso, di nuovo.
Un'unica grande parabola per poter svelare ai lettori una profonda verità altrimenti inenarrabile, questa è l’impressione che si ha fin dal principio leggendo l’Uccello che girava le viti del mondo, questa è la sensazione: che tutto sia metaforico, scritto con un preciso obiettivo, con un intendimento finalistico di grande importanza che verrà svelato solo al concludersi della vicenda. Ma qual è dunque questo obiettivo? Qual è la profonda verità che l’autore esorta a scoprire conducendoci per mano fino alla conclusione dello scritto? Qual è l’insegnamento che soggiace a questa apparente metafora di ottocento pagine?
Non è chiaro, forse è volutamente incomprensibile in modo che ognuno possa trarne… be quello che vuole, forse è involontariamente fumoso poiché ad un certo punto neppure lui si ricordava più quello che voleva dire, ma in conclusione una cosa di tutto il libro rimane: “L’uccello che girava le viti del mondo” è un sorprendente esercizio di stile da parte di uno scrittore dal potenziale incommensurabile ma dalla vena creativa, in questo romanzo, totalmente esaurita.
Murakami come al solito ha scritto un libro in maniera stupefacente, ma si è reso conto di quello che ha scritto?