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Nemesi
 
Nemesi 2013-07-21 13:10:10 Todaoda
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Todaoda Opinione inserita da Todaoda    21 Luglio, 2013
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solo il titolo...

Sta tutto nel titolo: "Nemesi", intesa sia nell'accezione comune del termine come il nemico o per meglio dire tutto ciò che si contrappone per natura all'individuo e ai suoi intenti, sia più propriamente in senso etimologico come quella sorta di legge di natura che rimedia alla giustizia con l'ingiustizia tendendo ad un indispensabile equilibrio totale e sia infine nella connotazione originale, come la divinità greca incarnazione e personificazione della volontà comminatoria di giustizie ed ingiustizie.
Per prima si incontra quella "comune" intesa qui come la Polio. Il campione di essere umano, protagonista del romanzo, Mr. Cantor rappresenta l'individualità dell'uomo. L'obbiettivo dell'uomo (salvo strane eccezioni) è vivere, tendere alla vita e scansare la morte, la malattia di conseguenza, specie se mortale, è per definizione la naturale nemesi dell'uomo infatti essa è in contrasto con l'obbiettivo ultimo di tutti coloro che la contraggono, sopravvivere, dunque è la loro nemesi. Non è sufficiente però, se la Nemesi del titolo non evolvesse, se l'essenza stessa della malattia non rappresentasse qualcosa di più, definirla “nemesi” sarebbe inappropriato, se rimanesse confinata soltanto nella concezione medica sarebbe abbastanza parlare di "antagonista sociale", di "antitesi dell'uomo." Ovvero di semplice nemico. La nemesi del titolo invece no, in sé ha le potenzialità per aspirare a qualcosa di più, di più profondo e universale, la malattia per sua stessa natura evolve in quella forma etimologicamente più appropriata di legge di natura, di dispensatrice di equilibrio attraverso l'ingiustizia. Roth dunque attraverso Mr.Cantor, Bucky, si trova a riflettere, e in questo modo a fronteggiare, su un nuovo dualismo che non è più quello ingenuamente concreto del bene contro il male, ma delle cause genitrici di questi due poli opposti.
Se esiste questa sorta di legge naturale a cosa è dovuta e per tanto come agisce? E’ il frutto di un invincibile casualità a cui l’uomo col suo intelletto può solo porvi rimedio o è la diretta conseguenza di scelte precise, di decisioni oggettivamente specifiche prese dai singoli individui e che sommate tra di loro formano un ineluttabile quadro variopinto definito come destino? Le domande che ne scaturiscono sono la logica conseguenza al dilemma posto in questi termini: nel caso sia vero il principio di casualità ha ancora senso prendere delle decisioni, sforzarsi a priori per evitare un evento, nella fattispecie contenere l’epidemia di Polio? O è più utile concentrare le energie sul limitare i danni dopo che l’evento ha colpito? Ma ancora, ha senso prendere delle decisioni “post eventuali” se poi tanto il cieco caso ci infila di nuovo lo zampino stravolgendo (o magari assecondando) ogni tentativo umano? Dunque in generale ha ancora senso scegliere quando è tutto nelle mani del casualità?
Nel caso invece sia vera la seconda interpretazione, il principio che ogni scelta è causata, e a sua volta la causa di un'altra scelta, e così via in un eterno girotondo deterministico, come può Bucky Cantor, l’uomo, compiere la scelta giusta, come può da solo nel suo piccolo riuscire a considerare tutte le varianti, le possibilità, le opportunità, i pro e i contro, le connessioni, le conseguenze e prendere la decisione giusta, per se stesso e per tutti gli altri? Se il suo destino è legato a quello di chi ha intorno e per estensione a quello dell’intera umanità, appunto per quel gioco di causa – effetto globali, come può essere certo che un suo sì non corrisponda al no di un altro, che il suo positivo non sia il negativo di un altro, che il bene per lui non sia il male per gli altri e viceversa?
E’ il principio di casualità contro il determinismo, di caso contro causa e in mezzo a questa lotta c’è l’uomo.
Bucky Cantor non è solo la rappresentazione dell’uomo, è la esemplificazione dell’eroismo dell’essere umano, è la condensazione delle virtù che nel loro piccolo ogni uomo si attribuisce. Egli per sua stessa natura non vuole tendere al bene personale ma a quello universale, non a quello soggettivo ma a quello oggettivo. E’ l’eroe che combatte contro la sua nemesi e quella di tutti gli individui. Ma in un mondo così non possono esistere gli eroi: nel primo caso sono inutili poiché compiere delle scelte non ha importanza, nel secondo caso sono irrimediabilmente destinati a perdere per l’enorme complessità delle implicazioni di ogni singola scelta. Mr. Cantor che si confronta con la sua nemesi dunque non rappresenta più l’eroe, ma la distruzione dell’eroe, la distruzione dell’essere umano.
Ancora una volta la nemesi ha la meglio e ancora una volta non è sufficiente, nelle ceneri della battaglia il sopravvissuto, l’eroe sconfitto, non si arrende: sa che non ha vinto e non potrà mai vincere, ma almeno vuole capirne il perché. “D’accordo”, sembra dire, “ho perso, ma perché ho perso? Che la nemesi sia il caso o il determinato destino, che cosa l’ha creata?”
Qui si compie il passo successivo, l’evoluzione finale del titolo che liberatosi delle spoglie terrene assurge sublimando a entità divina, alla dea greca dispensatrice di bene e male. L’uomo non comprende le ragioni del suo fallimento, è incapace di comprenderle come è incapace di vincere e dunque si rifà al suo passato, alla sua educazione, a quello che gli è stato insegnato, a quello in cui ha sempre creduto e a cui si è sempre appoggiato per trovare conforto: il divino. Nel caso di Mr. Cantor esattamente Dio. Lui è un credente, gli hanno insegnato ha confidare in Dio, a pregarlo nel momento del bisogno, eppure Mr.Cantor ha perso, l’umanità ha perso, com’è possibile?
Bucky Cantor realizzato il suo destino sembra quasi alzare gli occhi al cielo e gridare: “padre, perché mi hai abbandonato?”
La risposta non tarda a venire, forse Bucky è sconfitto ma come in un sadico gioco del persecutore gli è riservata ancora la possibilità di scegliere, e così lui ragiona: non sono stato abbandonato, Dio è creatore di tutto, se è vero che esiste dunque ha creato questa epidemia, ha creato la Polio e la Nemesi stessa. E’ lui il dispensatore di giustizia, poiché lui ha creato la giustizia, è lui dispensatore di ingiustizie poiché è lui il creatore di ingiustizia. E la Nemesi di colpo assurge, in un gioco degli opposti essa stessa diventa Dio e Dio la Nemesi, e come in un riflesso di uno specchio magico in cui si inverte il principio della trinità cristiana, noi siamo testimoni dell’atto finale della nemesi, anzi ormai Nemesi con la N maiuscola, che prende posto accanto al Padre e diventa il mezzo di Dio, come prima lo era lo Spirito Santo, il mezzo che si scatena sul Figlio tradito, che è rappresentato da Mr.Cantor, e in cima a questa assurda piramide scorgiamo un Dio umanizzato (come quello dei greci appunto) che sorride sadico, ormai egli stesso dispensatore più di male che di bene.
Davvero è questo il destino dell’uomo, davvero la Nemesi vincerà sempre?
Forse, ma chi siamo noi per saperlo? In fondo al tunnel si intravede una luce, una speranza: non tutti quelli colpiti dalla polio sono destinati alla sofferenza eterna, non tutti gli afflitti sono degli sconfitti. Forse più che rimuginare sulle cause del fallimento degli obiettivi dell’ uomo contro il destino, dovremmo trovarne sempre di nuovi, nuovi spunti, fini, ideali a cui tendere e con essi dovremmo ravvivare costantemente la speranza. Forse nel cieco mare della casualità e nel profondo oceano della causalità il vincere sta proprio nel non darsi per vinti e barcamenandosi tra un insuccesso e l’altro trovare di che sorridere. Forse chi comprende questo ha già vinto, in barba alla polio, al caso, alla nemesi e a Dio stesso. Probabilmente sì, ma non Mr.Cantor lui è il figlio tradito, lui è l’eroe distrutto, egli se sopravvive è destinato solo ad una grigia vita di sopportazione.
Philip Roth con questo romanzo ci consegna una visione irrimediabilmente pessimistica della vita, contro la quale si possono scagliare folle di inguaribili ottimisti e ben pensanti filosofi della domenica. E’ naturale, quando la vicenda viene posta in termini così aulici si può sempre dire tutto e il contrario di tutto e ancora non essere soddisfatti. Si Roth ha ragione, no Roth ha torto, ma un fatto a prescindere dal suo modo di ragionare rimane inequivocabile: Philip Roth sa pensare e soprattutto sa scrivere, e scrivere bene! Il testo non sempre è scorrevole, la narrazione non sempre è fluida, delle volte è indispensabile rileggere dei passaggi, ma ha un tale impatto, una tale forza sensoriale (perché limitarsi a quella visiva sarebbe riduttivo) che quasi sembra poter definire tra le righe del romanzo “l’entità libro.”: un oggetto esemplare, somma degli sforzi cerebrali dell’autore, della sua cultura, della sua intelligenza, della sua penna e della sua realtà. Uno scrittore così è da tempo che non spuntava, all’incirca dal 1899, anno della nascita di Hemingway. Se per alcuni questo paragone è banale, o addirittura forzato, è a ben vedere in realtà assolutamente lecito poiché se i dettagli (come i mondi e i tempi) sono discordanti ad accomunarli ci pensa lo stile, la stessa viva e cruda forza nel descrivere il mondo, la stessa brama di concretezza, la stessa sete di reale e probabilmente la stessa intelligenza.

Ed infine le solite scuse: mi rendo conto di essermi concesso eccessivamente ai vaneggiamenti filosofici e di essermi altrettanto eccessivamente dilungato nelle possibili interpretazioni mistico/religiose pontificando su argomenti che il più delle volte non condivido senza essere sicuro di averli compresi. Tuttavia un centinaio di righe per interpretare un titolo così pregno di significati mi paiono addirittura poche…
- il titolo? - vi chiederete.
- già solo il titolo, poichè questa non è una recensione a “Nemesi” il romanzo, ma a “Nemesi” il titolo.
- E quella al romanzo allora?
- Ah per quella occorrerebbe un' enciclopedia!
Scherzi a parte è vero non tutto quello che ho detto è condivisibile, come non tutto quello che Roth ha scritto è condivisibile, ma quando per recensire un libro di circa 170 pagine mi rendo conto che me ne occorrerebbe uno altrettanto lungo, non posso che ammettere di trovarmi di fronte ad un vero e proprio capolavoro (e di non possedere per nulla il dono della concisione, ma questo è un altro discorso...)

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