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V. come...
V. Chi è V.? Che cos’è? Quale entità superumana, collettiva, trascendente l’individualismo sociale del singolo essere umano rappresenta agli occhi dell’autore? E a quelli del lettore? Non me lo chiedo tanto per amore di dialettica, per tentare, scopiazzando le altre innumerevoli recensioni, di darmi un tono da saccente intellettualoide forbito nel parlare tanto quanto nel ragionare (purtroppo o per fortuna sono ben lungi dall’essere così), quanto perché sono fermamente convinto che la comprensione della prima opera di Pynchon, e dunque anche la sua valutazione, debbano per forza di cose passare per la comprensione del significato dell’opera e il medesimo significato a sua volta può essere intuito soltanto avendo una chiara visione di quelli che sono gli elementi principali dello scritto. In questo caso l’elemento portante, non tanto il protagonista, poiché questo o questi sono due o tre uomini, tutt’al più una banda (quella dei morbosi) o un modo di vivere rappresentativo di un epoca storica (quello dei giovani ribelli del dopo guerra che portano il peso di qualcosa che non hanno vissuto e lo rielaborano sfogandone la violenza implicita con atti ingiustificati e Hollywoodianamente iconici), dunque l’elemento portante, il filo conduttore attorno a cui ruota la vicenda è questa fantomatica, tentacolare ed enciclopedica presenza che è conosciuta come V.
Dunque è lecito riproporre l’interrogativo che migliaia di lettori, critici e letterati, si sono posti nell’arco degli ultimi cinquant’anni, da quando è stata pubblicata codesta opera: chi è V.? O per meglio dire, che cos’è?
Be V. è senza alcun dubbio il titolo del libro, questo l’ho capito e anche abbastanza in fretta a dirla tutta. Dopo qualche pagina comunque viene il dubbio che V. sia anche qualcos’altro: il modo in cui terminano i titoli di tutti i capitoli, qui ammetto di averci messo un po’ di più, ma intorno a pagina cento sono sicuro di esserci arrivato. Il problema vero è che arrivati appunto a pagina cento si ha la certezza che V. rappresenti qualcos’altro ancora, ma se chiara è la certezza sicuramente non si può dire altrettanto del significato di suddetta certezza.
L’interrogativo quindi rimane: chi è V.? Dov’è? E cosa vuole? Proseguendo la lettura la questione non si semplifica anzi, tempo di arrivare a pagina duecento e Pynchon ci presenta V. come tre o quattro donne diverse tra cui una possibile madre di uno dei protagonisti, o almeno l’amante del padre, ce la presenta come due o tre città differenti sparse qua e la per il globo, tra le quali anche l’inventata città di Veissù che forse non è poi così inventata, ma semplicemente uno pseudonimo di un luogo vero, il nome in codice di forse addirittura una nazione in cui si svolge un complotto, che prende parte a un complotto, che complotta lei stessa, la nazione, contro… non si capisce bene cosa, e per qualche motivo non se ne deve parlare e coloro che ne parlano gli succede Dio solo sa cosa, perché appunto non se ne deve parlare e non si deve sapere. Ma nessun timore, tempo un'altra decina di pagine e V. ritorna a essere l’amante del padre di uno dei protagonisti misteriosamente scomparso (il padre) durante un altro complotto, solo che questa volta il padre è un desaparecido di una città che appunto, forse, probabilmente, iniziava per “v” oppure il complotto è avvenuto proprio in una città dalla medesima iniziale, ad opera di cittadini ribelli del Venezuela, che guarda caso è uno stato che incomincia anche lui per “v.”
Ma ancora niente paura perché poi torna sempre il solito protagonista che cerca disperatamente quella donna di nome V. senza neanche sapere lui perché, solo perché sente che deve, solo perché intuisce, neanche lui sa come, che è legata alla sua storia, alla sua vita o a quella di suo padre e quale luogo migliore per cercarla se non a Malta, a La Valletta, che giusto per rimanere in tema, se qualcuno non ci fosse ancora arrivato, è una città che incomincia per V.? (Anche se a onor del vero inizierebbe con la L, ma non divaghiamo eccessivamente!)
Dunque cosa significa V.? Il, o la, V. del titolo? Forse io ne ho colto un altro significato, V. potrebbe essere anche interpretato come il numero romano cinque, V appunto, come cinque sono gli uomini crocifissi sul pettinino che si passano di mano eredi e discendenti, amanti di amori non corrisposti e progenie di amori che dunque forse erano corrisposti, ma solo per brevi istanti, solo per brevi situazioni, solo in luoghi, in città che rigorosamente iniziano tutte per “v”. Ma a ben pensarci forse il mio non è neppure un nuovo significato alla lettera V., forse non è neppure un significato, forse non è neppure tanto mio: qualcuno sicuramente avrà già interpretato il romanzo in questo modo, avrà sicuramente suggerito questa chiave di lettura, avrà sicuramente bene inteso il volere di Pynchon volto a…a che? A Cosa? E la domanda di nuovo è destinata a rimanere senza risposta perché, di nuovo, (e so che mi sto ripetendo, ma talvolta si ha la medesima sensazione leggendo il libro), perché di nuovo, arriva l’amico di quello che cerca V., e non è una comparsa di poche pagine, ma un altro vero e proprio protagonista, la cui storia si seguirà fino alla fine, che è legato, intrecciato anche lui a V. da…mah forse dal fatto che lui e quello che la cerca si sono ripassati la stessa donna un paio di volte.
E il quesito rimane insoluto ed anzi si tinge di tinte ancora più gialle, e dal chi è V.?, di prima si trasforma in “e mo cosa c’entra V.?” E la domanda è pertinente perché se il lettore aveva resistito in maniera stoica fino a questo punto ora irrimediabilmente sconfitto si perde nelle arzigogolate circonvoluzioni della storia, delle storie e di tutte le lori possibili interpretazioni.
Ma il ragionamento a livello subliminale continua e continuando a leggere, in sottofondo, a livello limbico continuiamo a trovare, tentare, creare e poi cestinare interpretazioni differenti con il rischio di partire per la tangente. Tipo si potrebbe leggere l’ormai ossessiva lettera come l’estremizzazione del concetto che non conta tanto la reale natura di una cosa quanto l’apparenza, o per meglio dire il significato che ognuno di noi attribuisce a quella cosa. Oppure si può leggere come la sintesi definitiva del concetto di femminilità, be questa è facile, è lo slogan scritto pure sul retro della copertina. Oppure potrebbe essere interpretata come la v di vittoria, la vittoria definitiva dell’oggetto sul creatore, dell’inanimato sull’animato, se ne parla anche durante il romanzo, è un’interessante riflessione/divagazione di uno dei protagonisti e dunque dell’autore stesso: vero siamo noi che creiamo gli oggetti, ma loro poi regolano il corso della nostra vita a seconda di come li sfruttiamo, a seconda dell’uso che ne facciamo, a seconda se li usiamo, li abbiamo, li capiamo, oppure no. In fondo è un po’ anche la solita vecchia diatriba che si sente ripetere in certi ambienti più o meno estremisti: una pistola, un’arma, è pericolosa? O meglio è qualcosa di sbagliato, cattivo, brutto? No, ci si sente rispondere da una parte, perché è un oggetto senza una volontà propria dunque non può avere queste qualità che sono prerogativa di un essere senziente, l’arma, e così gli altri oggetti, di per sé non hanno qualità positive o negative, dipende dall’uso che ne facciamo.
“E che uso ne vuoi fare di una pistola, ci spalmi la marmellata sul panino a colazione?”, ci sentiamo rispondere dall’altra parte, “d’accordo che non è cattiva, non vai in giro a redarguire un canne mozze perché s’è comportato male, però se non venisse neanche prodotto, e così tutte le altre armi, non andrebbero in mano a chi ne vuole fare un uso cattivo.” Resta poi da stabilire cosa sia l’uso cattivo, se l’uso buono relativo ad un oggetto è esclusivamente asservito alla sua funzione originaria allora ogni sparo di pistola è un buon uso, e ogni colpo che non centra il bersaglio è un cattivo uso, ma si sa bene che non è così e quindi si ritorna all’opinione dei pacifisti, che ogni uso è un uso cattivo, ricominciando un loop senza possibilità di risoluzione.
E come dicevo si parte per la tangente.
Tornando al libro comunque, e se V. significasse proprio questo, se fosse nient’altro che la semplificazione (si va be…) di questo concetto di dualismo uomo – materia, animato – inanimato. Se ne fa cenno nel romanzo, a questa dualità, chi è migliore? Qual è l’entità superiore? Chi regola chi? L’uomo regola la forma dell’oggetto, il suo utilizzo, o al contrario, l’oggetto, la sua forma, il suo utilizzo, regolano la vita dell’uomo? Non è un balzo sconsiderato questo, non è un’ipotesi astrusa, il viaggio di una mente sotto acido; basti pensare agli eccessi di oggi giorno, al bambino asiatico che vende i propri organi per avere un I-phone o alle scene di violenza davanti ai megastore americani all’inizio della stagione dei saldi e tutto per un televisore, una borsetta o Dio sa cosa. Assurdo, illogico, impensabile, ma purtroppo è realtà e in questo caso, chi regola chi e cosa regola cosa? L’uomo o la macchina?
Nel libro addirittura si arriva alla sublimazione del concetto, alla trasformazione totale, e questa è una delle pagine più belle: l’uomo che deluso, disilluso, ormai sociopatico vive la sua vita da spettatore esterno senza più avvertire emozioni, in preda solo al desiderio di stordirsi, di bere, di non pensare e proprio durante una di queste fasi, sotto forma di allucinazione, incontra l’oggetto inanimato che ha preso vita, il manichino da crash test che pensa, respira e vive una vita, dolorosa sì, ma per questo piena, completa, molto più intensa del suo custode, del reietto che vive ai margini della società per sua scelta. E la sublimazione si compie, l’oggetto diventa un meta-uomo che mantiene entrambe le sue nature ed assume una connotazione positiva, e l’uomo diventa meta-automa che mantiene anche lui entrambe le sue nature ma assume una degradante connotazione negativa. E dunque ecco un altro significato di V. , un significato autolesionistico, poiché alla luce di questa scoperta, della dualità di ogni vita in equilibrio tra uomo e oggetto, non conta più cosa sia la “v” ma conta cosa include, e cosa esclude, cosa contiene in se, le due nature: la donna simbolo di vita e la città degli uomini resi automi dall’obbiettivo, dimentichi o mai consapevoli dell’obbiettivo stesso, (proprio come gli oggetti di cui si servono), la città degli uomini senza volto, simbolo di distaccamento emotivo, di morte.
Forse la V. è la v di vita, quella dei protagonisti, quella dei ribelli, quella di quelli che sembrano ancora vivere, la banda dei morbosi, ma che portati all’eccesso per loro stessa natura poi tendono inconsapevolmente molto più alla morte, e dunque all’assenza di vita, o vitalità, di quanto addirittura riescano a rendersene conto.
Forse è la v di vita, e il punto dopo di essa significa che prima o poi finisce, significa tutto ciò che c’è attorno, gli oggetti inanimati, la storia dei nostri avi e del mondo, imprescindibilmente legate l’una all’altro come sono appunto la V e il punto. Potrebbe essere, infondo è un’altra interpretazione, abbastanza plausibile per giunta, giustificata da quanto si legge nel racconto, ma alla fine il dubbio rimane, la domanda iniziale sembra ancora non avere una risposta: alla fine, in sostanza che cos’è V.?
Provo a darne un’ulteriore interpretazione, l’ultima lo prometto: e se V. fosse solo un pretesto?
Se la V. del titolo non foss’altro che un abile stratagemma per tentare di legare, dare un significato, ad un’opera che ritrae in maniera disordinata, confusa, caotica la vita di un quattro o cinque persone. Se fosse solo un trucco per tenere l’attenzione del lettore ancorata ad un libro che annovera sì pagine di grandissima letteratura (leggasi l’incipit e il sopracitato passaggio con l’omino del crash test) ma che le affossa anche ingarbugliandole in una intricata serie di racconti, opinioni, punti di vista e salti geografico temporali tali da far perdere l’orientamento persino ad un Tom Tom?
Forse alla fine si svela chi è V. e che cos’è, o chi è stata e cosa è stata, ma il casino è tale e il disorientamento del lettore è così universale che anche quando lo si scopre non importa più nulla; Pynchon alla fine ci spiega chi è, ma sommersi dal mare di informazioni precedenti, quasi non gli si vuole credere. Possibile che sia tutto qui? No ci sta ingannando, in realtà V. è qualcos’altro è qualcosa di più.
Dunque alla fine chi è V.? Boh! Io non l’ho capito, letti e riletti diversi passaggi, capitoli, parti, non ci sono arrivato, forse è colpa mia, del resto si sa che non brillo per intelligenza, forse è colpa del momento, ero distratto, forse della troppo semplice spiegazione finale, ma se devo trovare per forza qualcuno a cui dare la colpa preferisco attribuirne la responsabilità a… V. stessa. Mi è molto più comodo pensarla così, tanto neanche lei, o lui, se esistesse ci capirebbe qualcosa, saprebbe chi è, cos’è e soprattutto dov’è.
E’ vero quel che dice DeLillo di Pynchon, che raggiunge vette letterarie inarrivabili ai più, o qualcosa del genere, è vero le raggiunge, il problema è che poi non si mantiene su queste vette, o per meglio dire, poiché pretendere una cosa del genere sarebbe troppo anche per Dante e Manzoni, il problema è che queste vette strabilianti, stupende, evocative, lucenti ecc. ecc. nascono sprofondante in gole di caos letterario (altrettanto irraggiungibili ai più) e dunque, per quanto le suddette vette siano superlative e splendenti, all’occhio del lettore che sta affogando nel mare dell’incomprensione, appaiono niente più che come delle piccole ancore di salvezza indispensabili per rifiatare tra un ondata di disorientamento e l’altra, indispensabili per raggiungere arrancando, un po’ in apnea, un po’ ad occhi chiusi, un po’ coi crampi la fine del libro.
Un romanzo enciclopedico, sì anche questa volta l’ultima di copertina ci ha azzeccato, ma proprio come un enciclopedia, che nessuno dotato di buon senso potrebbe mettersi a leggere dalla a alla z sperando di trovarci un filo logico, anche questo romanzo non ha un filo conduttore e tantomeno un significato.
Certo la poliedricità di punti di vista, di argomentazioni, la globalità narrativa dell’autore che non si limita alla singola vicenda ma che al contrario racchiude in un unico insieme diverse storie, opinioni, aneddoti ed epoche, potrebbe essere considerato da alcuni come un pregio più che come un difetto: l’insieme delle vite, delle storie, dei casi umani. l’insieme realtà. Ecco che per quest’ultima categoria di lettori mi sorge spontaneo un nuovo significato di V.: V. come il “vel” della teoria degli insiemi, quello di “out” e “vel”. Per tutti gli altri, se non vi ricordate cosa significa, terminata la lettura di V. andatevi a rileggere il libro di matematica della prima superiore…magari lo trovate anche più interessante.
Dicevo forse la poliedricità di V. se per alcuni non aiuta a chiarire il significato della storia e tanto meno la storia, per altri, i più masochisti, potrebbe essere invece considerato un pregio piuttosto che un difetto.
Ogni parere merita rispetto a prescindere da chi lo formuli a prescindere dalla fazione per cui vogliamo parteggiare. Parlando sempre di numeri, però, rileggendo ora la mi recensione, noto che la parola che ho usato di più dopo V. (e ci mancherebbe, ormai me la sogno pure di notte) è “forse.” Anzi a dire il vero vanno di pari passo, ad ogni V. qualche riga più in la troverete sempre un “forse.” Sarà un caso, sarà una coincidenza o sarà colpa di V.? Indovinate di quale fazione faccio parte io?...
Va bene, l’ammetto, mi sono lasciato prendere un po’ la mano, non è il caso di essere così sarcastici, è vero che molti punti sono incomprensibili e generano un senso di disorientamento globale, ma alcuni passaggi invece, i sopracitati e qualcun altro ancora, quei pochi, sono veramente degni di nota, anzi di più, proprio come dice DeLillo sono vette letterarie irraggiungibili, peccato siano solo così poche, e qui non lo dico cono sarcasmo. Peccato.
Vero in fondo si tratta solo della prima opera dell’autore, non si può pretendere più di tanto, eppure è così famosa, così rinomata, così consacrata nell’echelon dei grandi romanzi del novecento; era lecito aspettarsi qualcosa di più, qualcosa di almeno relativamente comprensibile o sensato. Peccato.
Le premesse c’erano, l’incipit è stupendo e alcuni passaggi (ma l'ho già detto e ridetto migliaia di volte)ma il resto… peccato.
Forse sono io che sono troppo presuntuoso e non avendolo capito, giudico male il libro, forse sono io che mi aspettavo troppo, ma le attese quando lo acquistai erano grandi, di nuovo, è vero che sapevo si trattava di un opera prima, che non potevo pretendere più di tanto e non era lecito aspirare al romanzo perfetto, ma almeno almeno a qualcosa di vagamente leggibile?
Peccato!
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Commenti
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Per caso tu hai letto Vizio di Forma? Si dice sia leggermente più lineare e chiaro e siccome vorrei concedergli un' altra chance. ..(Ora sto terminando l'Incanto del lotto 49 ma dopo la buona impressione iniziale siamo tornati nella follia più totale dal mio punto di vista.)
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Uno stile che si scorpora dal contenuto e diventa il tutto.
Quello che mi è rimasto è la sensazione di vertigine che ho provato nel leggerla, il rimanere senza fiato per la maestria con cui Pynchon riesce a portare il lettore a quelle vette di cui parli che sono un'esperienza unica...io continuo a dire che prima di leggerlo si deve capire come il romanzo ottocentesco è stato composto, altrimenti appare come una follia.