Dettagli Recensione
L' enciclopedia dei difetti della società
L’individuo lasciato a se stesso. Underworld di DeLillo narra della perdita di identità sociale dell’americano medio, e per estensione di chi suole definirsi occidentale, alla fine della guerra fredda, quando viene a mancare cioè quella che agli occhi della società democratica - capitalista è l’incarnazione di ogni male: il blocco sovietico, il comunismo.
In qualsiasi dicotomia, bene – male, vero – falso, giusto – sbagliato, se viene a mancare uno dei due termini, dei due estremi, anche l’altro perde di significato. L’U.R.S.S. crolla, il muro di Berlino viene abbattuto, l’America non si sente più in dovere di ergersi a paladina del bene e così gli stessi americani non si sentono più tanti piccoli eroi votati fin dalla nascita a combattere il male, per eredità nazionale ed elezione divina. Ora sono soli, singole unità dentro un oceano di possibilità, non più legati da quella comunione di intenti implicita dell’ essere occidentali, del risultare alla anagrafe come Mr. Smith o Mr. Johnson.
Nel libro si narra la trasformazione del singolo come riflesso della trasformazione collettiva e questa trasformazione per alcuni aspetti rappresenta una perdita di valori, per altri è l’acquisizione di nuovi: ci si lascia alle spalle la patria, il nazionalismo, il comune senso del dovere e si acquista l’individualità, il personale senso di giustizia, la soggettiva misura di ciò che è corretto e di ciò che non lo è. O almeno così dovrebbe essere se tutto andasse per il verso giusto, se gli esseri umani fossero animali razionali, logici, ma così non è e DeLillo lo sa bene: con l’inesorabile sfilacciarsi della grande coperta del nazionalismo, che nascondeva ogni problema alla luce di un obbiettivo comune tanto aulico quanto fittizio, tutti i vizi e le virtù proprie dei normali, banali, esseri umani emergono, sbocciano, risaltano.
La nascita dell’uomo medio e la scoperta delle sue origini, Underworld è la storia recente della America vissuta attraverso le vicende dei singoli americani,ognuno divisio dalle proprie pareti domestiche, ognuno portavoce del proprio pensiero e giudizio.
Il nemico malvagio dunque si è disgregato, e i paladini della giustizia, l’esercito del bene, rischiano di fare la stessa fine, ma se le singole componenti di un ingranaggio si guastano l’intero meccanismo si guasta.
La società occidentale si guasta? Questo non è accettabile, vorrebbe dire la fine della civiltà, dunque come fare per tenerla unita di fronte alla nuova crisi? Lo stato, la nazione, con la sua potenza, nella sua globalità, può fronteggiare solo problemi su vasta scala contrapponendo “bene” al “male”, violenza alla violenza, ma se il problema non può essere risolto in questi termini, se è molto più sottile, invisibile, interno? Come si può operare per risolverlo? Non certo con un’altra guerra, e allora cosa?
Underworld è la concezione che ha DeLillo degli ultimi cinquant’anni di storia americana ed è una concezione nostalgica e ironicamente pessimistica: l’uomo che finalmente è lasciato a se stesso ha una crisi d’identità. E per via di questa non riesce più ad aggregarsi ai suoi pari poiché non ne condivide i valori, poiché in primis non accetta i propri di valori, non li riconosce più come tali.
Che fare? Nei momenti di crisi di solito si fa affidamento a delle entità superiori, ai simboli, a quegli oggetti che rappresentano l’idealizzazione di ogni cosa in cui si crede. Per i cristiani è Dio, per i mussulmani è Allah e per gli americani disillusi è il baseball: lo sport tipicamente nazionale, l’unico valore rimasto a una società in disfacimento per mancanza di stimoli (così la vede l’autore): la guerra fredda è finita, lo spauracchio sovietico anche, cosa rimane per sentirsi tutti uniti? Per la difesa di quale valore ora si può combattere, morire? Il baseball. Ma lo sport, se da una parte unisce una nazione, dall’altra la divide profondamente. Nell’insieme baseball, ma così è per ogni sport, si creano tanti sottoinsiemi, tanti quanti sono le squadre della lega. Se poi si tratta di arraffare un cimelio dal valore economico, storico e affettivo inestimabile, i sottoinsiemi si suddividono ancora di più: in tante parti quante sono le persone interessate, quante sono le persone allo stadio, quante hanno sentito alla radio del fuori campo. E si è di nuovo soli.
L’uomo mosso da un intento puramente egoistico dimentica nuovamente, cosa vuol dire far parte della patria, della stessa nazione, della stessa città, della stessa squadra e lotta con il suo vicino, lo insegue, lo picchia, lo deruba. Questo è l’eterno dilemma dello sport che unisce e disgrega, che abbatte le mura domestiche per accomunare ma anche per dissociare, per stringere la mano al proprio vicino e al contempo graffiargliela, mordergliela e strappargli il simbolo la cui proprietà acquisita ri-eleva il possessore a status di eroe, di paladino del bene.
Homo homini lupus, l’individuo lasciato a se stesso che vuole comunque essere superiore agli altri, a scapito degli altri. Underworld è la storia del disfacimento subliminale, limbico, sotterraneo (da qui forse il titolo) della società americana alla luce dei fatti degli anni novanta, della perdita di identità per via della perdita di una nemesi, il tutto narrato attraverso “gli occhi” di coloro che hanno, vogliono, ricercano o sono casualmente venuti in contatto con la pallina da baseball, con quella pallina di quel fuoricampo, di quella partita in quel giorno che simbolicamente potrebbe sancire l’inizio della guerra fredda. Un oggetto specifico, di una specifica partita, di uno specifico momento storico, che dunque trascende il suo banale significato di oggetto ludico e, trasformato in icona, diventa il simbolo della nostalgia, il simbolo del ricordo di quando si era tutti uniti e si sapeva cosa si faceva, di quando si era una nazione, di quando una pallina scagliata sugli gli spalti rappresentava l’identità di un popolo.
Un tempo un saggio disse che le religioni (e con esse i loro simboli) hanno ammazzato molti più uomini di quanti ne abbiano salvati. Se ciò è vero lo stesso vale sicuramente anche per i simboli laici: il denaro, la falce e il martello, la svastica, una pallina da baseball etc. etc. Forse è così, ma se non ci fosse più niente per cui lottare, neppure una palla, un guantone o una scarpetta chiodata, cosa rimarrebbe all’uomo? Al pari della palla, così per tutte le altre icone religiose e non, forse siamo noi che creiamo i simboli, che gli diamo valore, per nutrire quella sete di violenza intrinseca nell’uomo, per sfogare quel bisogno di lottare per quello in cui crediamo, forse è la natura stessa dell’uomo che ci porta a trovare per forza un nemico, anche quando questo non c’è, anche quando questo è solo il compagno di bevute durante la partita.
Homo homini lupus.
Forse è proprio l’uomo il simbolo e non sopportando di riconoscersi come l’estremizzazione di ogni suo vizio, anzi come l’estremo stesso, ha bisogno di esternare i propri sentimenti investendo un oggetto inanimato di valori che di per sua stessa natura l’oggetto non ha, sia questa una banconota, una falce, un crocifisso o una pallina da baseball; poiché se non lo facesse non gli rimarrebbe nulla, non gli rimarrebbe più nulla in cui credere, per cui lottare…non gli rimarrebbe più neppure se stesso.
Homo homini lupus. L’individuo solo e alla ricerca di se stesso per continuare a illudersi, Underworld è la presa di coscienza dell’uomo che non riesce a ritrovarsi negli oggetti, nel valore che attribuisce a questi. E’ la disillusione ed è lo sguardo nostalgico al tempo perduto, a quando non si avevano dubbi ma solo certezze, magari sbagliate, false, ingiuste, ma pur sempre certezze.
Ora invece ci sono i computer (gli anni novanta rappresentano l’inizio del boom informatico) e tutto sembra più facile, a portata di mano, di mouse, tutto è collegato, iper-collegato, le possibilità di accedere alle informazioni sono praticamente illimitate e l’occhio critico con cui si osserva la storia diventa più oggettivo, equilibrato…e se con questa visione totale, universale, divina, si scoprisse che quello in cui si era creduto per una vita intera era sbagliato? Se si scoprisse che ci si era ingannati, che quei pochi valori rimasti, che coincidono spesso con l’intima morale di ogni essere umano, non sono nient’altro che un inganno, un’ utopia, cosa ci rimarrebbe se non la nebbia del dubbio? Negli anni cinquanta, sembra dirci DeLillo, l’uomo sapeva cosa voleva, magari era un’illusione, magari era un inganno, ma almeno era una certezza, ora invece ci sono i computer e la visione è molto più ampia; attenzione però perché se è troppo ampia si perdono i dettagli, si perdono i particolari, i singoli elementi costitutivi, gli uomini e la loro storia, la propria storia, la propria vicenda personale e non si riesce a definire più cosa è reale e cosa non lo è fino a che persino ogni singola parola, persino la parola, l’ultima, quella con cui si chiude il libro, la più bella, rimane il dubbio che in realtà non esista, che in realtà, al pari della pallina da baseball, sia nient’altro che un simbolo, un’ utopia.
Potrei come faccio di solito aggiungere qualcosa sullo stile dell’autore, che alterna accattivanti note noir ad altre impregnate di un tale eccessivo lirismo da riuscire a sublimare ed eternare l’immondizia di una discarica a cielo aperto (non è una metafora, lo fa realmente), potrei anche aggiungere qualcosa sul forte, e al tempo stesso solo presunto, simbolismo dell’opera, talvolta così perfetto da far rivivere la sensazione di un’epoca, il sapore di una decade, talvolta così pretenzioso che ci si può aspettare da un momento all’altro la descrizione di un cesso che trascende la storia moderna per la sua marmorea lucentezza (stavolta è una metafora), e potrei poi tornare di nuovo a parlare dello stile, talvolta così ispirato e totale da riassumere in una singola frase tutto il significato del libro e altre volte così prolisso e fine a se stesso da non riuscire a spiegare il significato della suddetta frase neanche in novecento pagine. Potrei, ma sarebbe come osservare un quadro analizzando ogni singola pennellata, ogni millimetro di colore: un lavoro inutile, fuorviante, un lavoro persino anacronistico se si vuole dar adito alla mia interpretazione del messaggio di DeLillo, poiché trascurerebbe il significato d’insieme dell’opera, il suo impatto globale, le necessità dell’uomo moderno. Dunque proprio alla luce di quest’interpretazione, in cui i dettagli si svalorizzano cadendo in secondo piano rispetto al risultato finale del libro, alla luce della capacità dell’autore di aver concepito una simile opera, ed esser riuscito a realizzarla in maniera unita, legata e soprattutto sensata, alla luce di tutto ciò, non mi addentrerò oltre nell’analisi dello stile e dei significati e mi limiterò a dire che non c’è miglior modo di classificare Underworld se non quello di definirlo il caposaldo della letteratura contemporanea.
…sempre partendo dal presupposto che la mia interpretazione del messaggio di DeLillo sia valida.