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Esemplare
Uomini e topi, Of Mice and Men, è universalmente riconosciuto come uno dei più grandi racconti della letteratura d’oltre oceano, come l’emblema di un’epoca e di un filone letterario, al pari solo di alcuni grandi capolavori quali per esempio, Furore (sempre dello stesso Steinbeck), Il Vecchio e il Mare o (seppur diametralmente opposto) Il Grande Gatsby, ed è facile capire il perché: con i suoi temi, gli aspri paesaggi rurali, i sanguigni protagonisti dai sentimenti forti e puri, i risvolti psicologici profondi ma immediati, il romanzo di Steinbeck racconta di un’epoca, quella della Grande Crisi e della Depressione, in cui l’America ha vissuto alcuni dei suoi più grandi stravolgimenti sociali e civili, ma racconta anche di uomini, rudi e coriacei, la cui unica colpa pare quella di essere vittime del Sistema, la cui unica virtù è la forza delle loro ambizioni, ovvie quanto può essere il desiderio di sopravvivere eppure così difficilmente raggiungibili in un mondo tanto crudele e violento, come era quello segnato dalla povertà delle campagne americane tra le due Guerre.
Il simbolo di un epoca dunque, e di un filone letterario, ma Of Mice and Men è ancora di più, scritto da Steinbeck col suo stile impareggiabile, che con una parola riesce a raccontare una generazione, con una frase a disegnare un paese, con un dialogo a caratterizzare una società, Uomini e Topi è l’emblema anche dello spirito dell’uomo, della sua fibra coriacea che ogni giorno gli permette di sudare per ore nei campi a rincorrere il sogno di quando potrà finalmente ritirarsi a vita agiata, e della sua umanità, del suo spirito di fratellanza che gli consente di chiamare “amico” proprio colui senza il quale magari riuscirebbe a perseguire il suo agognato obbiettivo, proprio quell’ostacolo insormontabile che si frappone costantemente al raggiungimento del suo sogno: Lennie, il gigante stupido, la creatura perfetta, grande, forte, infaticabile eppure, come per uno scherzo della provvidenza, privo di intelligenza e di coscienza. Ed è proprio in lui che Steinbeck, sempre con un occhio alle interazioni umane, alle dinamiche sociali, crea la figura più bella e più drammatica: Lennie, il condannato alla nascita, l’eterno sciagurato; poiché un uomo simile nel mondo crudele della Depressione sarà sempre fuoriposto, sarà sempre disgraziato, come coloro che mossi dalla sua innocenza o da uno spiccato senso del dovere si legheranno a lui pur sapendo che forse, oggi, forse domani, forse il giorno dopo ancora, dovranno patire la sofferenza del suo abbandono, il dolore della sua dipartita. E tra questi più di tutti ovviamente George, ovvero il suo illegale tutore, colui che proprio per via della sua grande lealtà è costretto ad accudirlo malgrado gli sia costantemente d’intralcio, malgrado rappresenti l’unico ostacolo ai suoi sogni di ricchezza.
Lennie e George, i fratelli non fratelli uno legato all’altro dalla sventura eppure anche da sentimenti puri e introvabili in un mondo privo di valori se non quello del denaro, se non quello del colore della pelle e dell’estrazione sociale. E alla dipartita di uno dei due la trasformazione: la depressione economica che diventa anche depressione psicologica, e l’evoluzione finale del simbolismo del racconto che, in una sorta di gioco di scatole cinesi al contrario, sfrutta la tragedia del singolo per diventare tragedia universale e, agli occhi dell’osservatore neutrale, mero spettatore della vicenda, tragedia dell’incomprensione. “Ma cosa hanno da dirsi quei due uomini, ora?” “Cosa li lega ora?” Si chiede Steinbeck per bocca dello spettatore, quasi terzo incomodo, mentre osserva gli attori del dramma andarsene assieme facendosi forza l’un l’altro. “Cosa li lega ora?”
“Qualcosa che è accaduto” è la naturale risposta, nonché il titolo originario dell’opera, qualcosa che è accaduto in un mondo troppo crudele per concedere degli errori, per concedere ai deboli una pur minima possibilità, qualcosa che è accaduto e che nonostante tutto bisogna superare per poter continuare ad andare avanti, per poter illudersi di realizzare un giorno il sogno, qualcosa che è accaduto, infine, a cui ci si può ribellare soltanto facendo affidamento nuovamente a quella cosa che proprio sembrava venuta meno per colpa della Crisi: la fratellanza umana e l’amicizia.
Tutto questo e Uomini e Topi di Steinbeck un libro, profondo e drammatico, ma anche semplice e sincero, un libro che, narrando di una vicenda comune eppure singolare, specifica eppure universale, con la sua cruda autenticità getta in faccia al lettore le linee guida di tutto un filone letterario, il filone del neo-realismo americano. Questo è, un libro oggi come all’ora di grande attualità, un libro imprescindibile per chiunque voglia definirsi amante della letteratura, un libro che più di ogni altro andrebbe letto in lingua originale per meglio apprezzarne i dialoghi, e gli uomini che si fanno attori di quei dialoghi, per meglio apprezzare quel mondo e lo stile con cui viene rappresentato da uno scrittore dotato della stessa cultura dei più grandi, ma a differenza di molti di loro anche dell’umiltà necessaria per camuffare la sua accurata penna con i panni grezzi e logori del bracciante.
Tutto questo è uomini è topi, un romanzo che in meno di cento pagine rappresenta l’uomo e la sua storia, un racconto che potrebbe essere descritto con innumerevoli superlativi assoluti ma che anche nella più arzigogolata associazione linguistica rimarrebbe pur sempre un grande esempio d’onestà intellettuale e di eleganza.
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Daniela
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