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Viaggio in fondo al coraggio
E’ un volumetto che si affaccia innocuo dagli scaffali delle librerie, tra i classici della letteratura. Valse al suo autore, nel lontano 1954, il Premio Nobel. Nell' edizione Oscar Mondadori, vi appare in copertina il volto di Ernest Hemingway: sguardo intenso, profondo, una delle immagini più note dell’autore. Solitamente consigliato dagli insegnanti di scuola media per avviare recalcitranti e inconsapevoli giovanissimi alla letteratura “alta”, è un libro che va letto due volte almeno nella vita. Forse lo si può anche avvicinare a quattordici anni, ma non so quanto del significato più profondo del testo possa arrivare ad un giovane ed inesperto lettore. Per questo credo che occorra, quantomeno, riprenderlo in mano tempo dopo, per poterne percepire pienamente il senso. E’ un libro che fa soffrire. La lettura, benché breve, è faticosa. Si arranca sulle pagine come si dovesse percorrere una salita ripida, che indolenzisce le gambe e lascia senza fiato.
La vicenda si svolge sulle coste cubane, in un tempo indefinito. L’anziano pescatore Santiago, dopo un lungo periodo trascorso in mare senza aver pescato nulla, decide, anche se ormai fiaccato nel fisico e nello spirito, di riprendere il mare in totale solitudine, privato anche della compagnia del giovane Manolin, che lo ha seguito in mare fin dalla più tenera età, che ha imparato da lui le tecniche di pesca, le correnti, le stelle, ma anche il coraggio, la pazienza, la perseveranza. Il ragazzo non può andare con Santiago, Santiago per i pescatori del porto è salao, spacciato, finito e la sua famiglia non lo lascia più andare con un pescatore che non può garantirgli un futuro. Il ragazzo però, è legato a Santiago da un affetto profondo e soffre per lui, per la miseria delle condizioni in cui si trova colui che è stato per lui più di un padre. Allora fa di tutto per alleviare la situazione del vecchio, gli procura da mangiare, lo accudisce, lo ascolta farneticare di una realtà che non gli appartiene più, con rispetto e complicità, resistendo alla tentazione della compassione. Le attenzioni e la preoccupazione del ragazzo, però, non impediscono a Santiago di avventurarsi di nuovo in mare, con limitatissime risorse e recuperando nelle profondità del suo essere le ultime forze. La vela rattoppata, la camicia rattoppata, sono il simbolo della sua sconfitta. Santiago si aggrappa al suo coraggio, ha solo sé stesso su cui investire, ma nemmeno la derisione dei marinai del porto scalfisce la fiducia nelle proprie possibilità. Il viaggio è dolore, fatica indicibile, fisica e spirituale. Visioni di gioventù, di leoni selvaggi su spiagge bianche, confortano o confondono la mente del pescatore, che nella allucinata solitudine rivede momenti lontani di viaggi in terre remote, che lo riportano ad un giovane sé stesso pieno di forza e vigore (quanto di più lontano dal presente). Visioni di vittorie sportive, il mito del grande Di Maggio che si affaccia alla mente di Santiago con il suo coraggio, l’indifferenza alla fatica, la determinazione; questi sono i pensieri a cui il vecchio può ricorrere per resistere. Le mani dolenti, la schiena spezzata dalla stanchezza, la fame così prepotente da rimanere sullo sfondo, perché il fisico non la percepisce più e Santiago che mangia pesce crudo perché deve farlo, per mantenere le ultime forze: tutto arriva al lettore nel fisico, la fatica di Santiago è la fatica del lettore. Mentre attraversa l’oceano per l’ultima volta, il pescatore si accosta ancora, con rispetto e timore alle forze della natura, che lo sopraffanno e lo schiacciano con la loro indomabile e cieca prepotenza, ma ad esse lui non si ribella, sente di far parte anche lui di un progetto, non è altro che un tassello, che svolge il suo compito in un disegno grandioso, del quale non sente la necessità di spiegare il senso. In questo Santiago mostra la sua saggezza, la mistica accettazione della vita: non c’è rabbia né astio nel suo atteggiamento, non c’è amarezza, solo infinita stanchezza. E’ andata così: il mare ha dato al pescatore, il mare toglie, attraverso le sue creature, ogni illusione di vittoria. Lui, come l’enorme pesce marlin che lotta fino alla fine con fierezza e coraggio, per sopravvivere e sfuggire al suo destino, come gli squali che per sfamarsi divorano il pescespada, decretando inconsapevolmente la sconfitta finale del pescatore, che torna al porto sfinito, trascinando sulla povera barca i resti di ciò che doveva rappresentare il suo riscatto come uomo di mare, non sono altro che personaggi di una scena che necessariamente deve finire così, dove ognuno recita il proprio ruolo e di cui la natura, algida e lontana, rispetto alle pene dell’uomo, è regista.
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A me questo libro è piaciuto davvero molto...
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