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Il senso di una fine
 
Il senso di una fine 2013-06-11 11:01:09 catcarlo
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
catcarlo Opinione inserita da catcarlo    11 Giugno, 2013
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Premesse non sviluppate

‘Proprio non ci arrivi’ continua a ripetere e a scrivere Veronica a Tony nella seconda parte del libro. Beh, non ha tutti i torti il protagonista maschile e voce narrante del romanzo. E’ vero, è un uomo qualsiasi (non ‘qualunque’), un vero ‘common man’ che, come la maggior parte degli esseri umani, ha barattato i sogni di gioventù per una lunga vita tranquilla ed è diventato un vecchio brontolone incapace di apprezzare quanto l'esistenza ha saputo regalargli, come un buon lavoro, una bella moglie che rimane amica anche da ex, una figlia senza particolari problemi. In più non è un mostro di simpatia, con quel suo egocentrismo che lo aiuta a rimbalzare i momenti di difficoltà, ma che lo porta a mettere sempre se stesso al centro della scena dimenticandosi del prossimo – i contraccolpi stanno nella mancanza di amicizie e in rapporti familiari comunque labili - tanto da ingigantire anche le conseguenze di una cattiveria perpetrata quarant'anni prima, atto odioso ma certo non un crimine contro l'umanità. Questo però non significa che Tony possa arrivare in qualche modo a dedurre l’astruso susseguirsi di eventi, descritto nelle ultime pagine del romanzo, che finisce per suggellare un finale in calando. Molto più efficace la prima parte, quella ambientata ai tempi di scuola e università, con una bella descrizione dei meccanismi mentali dell'adolescenza maschile in cui Tony si dibatte tra la passione per la più benestante Veronica e il fascino esercitato su di lui dall'intelligenza acuta dell'amico Adrian. Il buon passo si mantiene anche quando, oramai in pensione, il narratore viene di nuovo raggiunto da un passato che rimette in movimento i ricordi impolverati: col passare delle pagine, però, la storia inizia ad annodarsi su se stessa, creando più di una perplessità pressappoco da quando Tony prende a baloccarsi con il concetto di rimorso. E questo malgrado la scrittura continui a scorrere come sempre, brillante e venata da un sottile e ben dosato senso dell’umorismo, grazie anche alla traduzione accurata di Susanna Basso: l'alternanza tra toni alti e momenti più colloquiali funziona (se l'insistenza sulla ‘violazione’ pare un po’ campata in aria, il ritornello del ‘filosoficamente tautologico’ è assai efficace) e al ritmo contribuisce la capacità di inserire a tempo nella narrazione lettere, e-mail e altri sistemi di comunicazione a distanza. Così, alla fine di queste centocinquanta pagine – sì, malgrado tutto quanto descritto sopra il libro è smilzo – il lettore resta un po’ deluso per le premesse tradite e si domanda se il Man Booker Prize vinto da Barnes per questo volume non sia stato dato un po’ anche alla carriera: è come se lo scrittore inglese, partito dalla riflessione sul tempo che passa e, soprattutto, sulla capacità della mente di falsare i ricordi (considerazione sottolineata più volte nella prima parte), non sia poi riuscito a costruirvi intorno una storia all'altezza dell'affascinante spunto di partenza.

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Commenti

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Ho l'impressione che nessun premio letterario è come il Pulitzer. Quello sbaglia difficilmente.
Straquoto Mario. Il Pulitzer fa sempre strike, difficile che sbagli un colpo! Hanno fatto la storia della letteratura contemporanea.
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