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I morti hanno diritto a soggiornare ovunque, in Eu
"Gli stranieri oramai privi di una patria avvertono l'antica tensione della loro esistenza solo quando attendono la posta del mattino. In quei momenti riprendono a sperare.[...] Sanno che la patria non è solo un'entità reperibile su una carta geografica, ma un intreccio di esperienze, come l'amore. Chi è uscito per una volta da questo intreccio di esperienze cercherà invano di tornare a chi o a che cosa amava: non trova più una patria, né un'amante, ma uno Stato, o una donna che nel frattempo si è ingrassato"
Sándor Márai ha scritto questo romanzo nel 1957 durante i pochi anni di permanenza a Posillipo, dove approdò dopo che nel 1948, decise come molti altri di abbandonare la sua patria, l’Ungheria, oramai sotto pieno controllo della dittatura bolscevica.
Questo libro quindi si trasforma in una sorta di “testamento spirituale”, che racchiude in sé le riflessioni e le motivazioni che spinsero lo scrittore a vivere il resto della sua vita, nella condizione di esule, fino al gesto stremo (qui già annunciato in modo inquietante), del suo suicidio vissuto come l’unico modo per trovare pace in una terra in grado di accoglierlo in maniera definitiva:
"I morti hanno diritto a soggiornare ovunque, in Europa. Un permesso di soggiorno illimitato[…] a tempo indeterminato."
Ritroviamo così un uomo in viaggio fuori e dentro di sé, un profugo che come tanti, nella sosta tra un paese e un altro è costretto di volta in volta a spogliarsi della patria, della cittadinanza, del proprio nome, fino a cancellare il proprio passato. A ogni sosta in una nuova città si vede costretto a strapparsi uno strato di pelle che lo porteranno alla perdita della propria stessa identità.
Senza più una patria, senza più la propria vita scandita dal tempo dei progetti, l’esistenza si riduce ad un viaggio continuo in cui il corpo privato del suo stesso essere si lascia trasportare dove capita , ma dentro nella valigia c’è sempre posto per la speranza; la speranza di trovare conforto in una seconda patria.
E Márai la ritrova a Napoli una città ancora a misura d’uomo. Qui tra la gente comune lo scrittore vive con la sensazione che ogni persona conosciuta sia ancora un uomo con la propria individualità. Per questo la prima parte del libro ruota intorno a questa umanità, fatta di gente che si arrabatta per vivere, ma non elemosina, piuttosto mercanteggia su tutto pure con i santi ai quali di volta in volta, si chiede una grazia.
Gente che vive nella miseria eppure continua a fare figli, perché la povertà si affronta meglio in compagnia.
Gente che a sua volta ha perso qualsiasi speranza e non gli rimane che aggrapparsi ad un miracolo. Eppure queste persone non vivranno mai l’amara esperienza di essere spodestate anche degli accenti che caratterizzano il proprio nome e cognome, tutti loro infatti, non solo hanno un nome proprio, ma spesso, anche un soprannome che li caratterizza, e li distingue dagli altri in maniera indissolubile. Ecco allora: Peppino il domatore, il barone, il dottor Moscati ….!!!
Ecco allora che anche lo scrittore attraverso i suoi libri,testimonianza tangibile del proprio vissuto, ha riconquistato i suoi accenti sul nome e sul cognome:
Sándor Márai.