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La libertà è una danza
Il racconto che dà il titolo all’intera collana di testi scritti da Murakami è quello che ha colpito di più il mio interesse non solo per il titolo, dietro il quale si celano molteplici significati ma soprattutto per la trama in cui si intrecciano temi tanto visionari quanto perversamente realistici ed attuali, di proposito somministrati al lettore senza alcuna pillola edulcorante che ne attenui l’impatto quasi folle.
I racconti sono sei, sullo sfondo dei quali si prospetta un unico tema comune: il terremoto avvenuto in Giappone, a Kobe, nel 1995, che funge da telone unificante dietro il quale le varie scenette narrative prendono lentamente piede, ospitate da un palcoscenico fin troppo spesso fantastico ed irreale, a volte persino eccessivamente colorato e burlesco.
I protagonisti sono uomini e donne comuni, al limite della banalità, con vite alienate e spesso solitarie, il più delle volte taciturni ed in cerca di un motivo qualsiasi per cambiare la loro vita.
“La forma del fuoco è libera. E siccome è libera chi la guarda può vederci qualunque cosa. Se lei guardando il fuoco prova una sensazione di pace, è perché la sensazione di pace che ha dentro ci si riflette.”
E’ così che attraverso una scatola magica o un fuoco sulla spiaggia che i personaggi riconoscono dentro di sé la flebile speranza della trasformazione, che si attua sempre agganciando una forma superiore di auto-conoscimento, una maturazione interiore che coincide con la tanto agognata liberazione della propria natura.
Yoshiya, il giovane protagonista di Tutti i figli di Dio danzano è l’emblema della volontà dell’individuo di uscire dallo stato di oppressione e staticità che coincide con una condizione di oscurità, che come una coda lunga e buia lo insegue, obbligandolo a portarsela ovunque. Cresce senza sapere chi è il padre e con la convinzione inculcatagli dalla madre, di essere figlio di Dio e come tale figlio del mondo stesso. Certezza che si trascina dietro fino a quando comprende che non è importante l’identità del padre, quanto liberarsi da quell’inappetenza vitale derivata dal senso di sconforto e di alienazione propri di una condizione di sentirsi privi di un posto nel mondo.
Anche Katagiri, protagonista del penultimo racconto, deve fare i conti con un’esistenza priva di slancio, tristemente annebbiata, nella quale piomba all’improvviso nientemeno che un ranocchio gigante, che lo aiuterà a distruggere il Gran Lombrico, altra ennesima incarnazione del deterioramento e dell’odio dentro cui le vite dei personaggi sono intrappolate. I protagonisti murakamiani hanno vite inconsistenti, ma ciò che dà forza al loro mondo è l’apparizione reale o sognante di strani esseri o cose che illuminano quel buio in cui tutto è attanagliato, proprio come se fosse stato fino ad allora tutto freddo e distrutto da un terremoto. C’è sempre una via d’uscita alla passività della vita, a volte una porta secondaria, che ci permette di allontanarci lentamente, senza mai scappare ma affrontando a viso aperto le nostre incertezze. Che sia attraverso una metafora o una visione, ogni nostra paura può essere abbattuta in nome di ciò di cui abbiamo bisogno, sia esso amore, felicità o comprensione. Sono tutte facce della stessa medaglia perché chi è realmente libero è sempre un figlio di Dio che danza agli occhi del mondo.
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