Dettagli Recensione
Un quartetto di voci
Màrai, che grande scrittore. Veramente molto notevole, non c’è che dire. In particolare, “La donna giusta” mi è stato consigliato da una persona che mi ha detto: “…non conosci Màrai se non hai letto questo…”. Ed effettivamente è così. Avevo provato un subitaneo colpo di fulmine dopo aver letto “Le braci”, continuato con vivissima soddisfazione leggendo “La sorella”. Ma, amandolo fin da subito, non mi ero ancora reso conto di cosa sapesse fare esattamente, di quanto sapesse essere incisivo. E’ proprio con questo romanzo che mi si sono aperti gli occhi sulla fulgida aura di verità e di conoscenza dell’animo umano che mette in mostra questo grande autore. Se nei libri precedentemente letti, alquanto fugaci rispetto a questo, avevo trovato concetti illuminanti, suddivisi in concetti scontati ma espressi meravigliosamente e concetti profondi che mi hanno fatto riflettere, qua ho trovato una miniera di considerazioni celate tra le voci di quattro differenti personaggi. Quattro voci che parlano solitarie, in un fluire sorprendentemente becketiano, e che rimembrano la loro storia per insegnarci qualcosa tramite la decadenza di uno status secolare. Allegoricamente, una sapienza, quella che ci viene donata, che come fenice nasce dalle ceneri del suo decadimento assieme a quello della borghesia. Sono infatti gli ultimi tizzoni di quest’ultima, tiepidi ancora per poco, che vengono raccontati impietosamente dalle voci di queste quattro figure, che trovano una collocazione precisa in una storia che non viene raccontata. Almeno non in modo ufficiale. Viene raccontata e si delinea nella nostra mente grazie alle quattro versioni separate, differenti, ufficiose, personali, monologiche, di Marika, la moglie, Peter, il marito, Judit, l’amante, e infine, nell’epilogo, dell’amante dell’amante. Tutti loro interpretano un ruolo nella vicenda, tutti vengono descritti da tutti, in un modo o nell’altro, e grazie a questa metodologia descrittiva acquisiscono incredibilmente maggiore veridicità, verosimiglianza e rilevanza psicologica di fronte ai nostri occhi. Sentire quattro campane invece che una è un metodo straordinariamente più efficace per far risaltare l’oggetto della discussione, la cui esistenza ci appare quindi più imparziale perché descritta da più parti differenti. Leggendo i quattro monologhi si acquisisce una conoscenza graduale e man mano più paritaria dell’accaduto (immaginato), in cui le lacune generali della prima voce vengono riempite dalle altre, in cui quello che sembra giusto, granitico e indiscutibile nel primo caso, viene confutato dalle opinioni discordanti e altrettanto meritevoli delle seguenti. Una sorta di storia che nega se stessa esistendo solo nelle personalissime versioni di chi l’ha vissuta. Un modo affascinante di narrare, che ha, inoltre, il merito di non essere solo un esercizio di stile ben riuscito, ma un concentrato critico e lucidissimo sulla morte di una classe sociale, assieme a usanze, convenzioni, ipocrisie, ingiustizie e pregiudizi. L’agonia di quella borghesia che non riesce più a reggersi in piedi, nonostante gli estenuanti sforzi degli ultimi eletti che tentano in tutti i modi di continuare a lottare, sacrificando coscientemente la spontaneità della vita per ingabbiarsi in sfarzi e grandure anacronistiche, per difendere ciò che rimane di una gloriosa appartenenza. Agonia che viene vissuta in modo diverso dai quattro personaggi, trovando più o meno rilevanza all’interno delle differenti narrazioni, e fungendo da “basso continuo” per una parallela e più evidente storia di sentimenti. Anzi, storia di non sentimenti. Quelli che mancano, quelli che Peter, ricco rampollo di industriali borghesi, non riesce ad avere per una moglie perfetta e amorevole. Quelli, repressi dalla ragione, che prova per la persona che ha nascosto nel suo portafogli un piccolo pezzetto di nastro viola. Quei sentimenti che la moglie Marika invece prova, pronta a sacrificare tutto per essere ricambiata. Quei sentimenti che sembra provare Judit prima di rivelare la vera se stessa. Due donne che gravitano attorno al loro cento di gravità emotivo, che è anche centro narrativo per raccontarci il ricco corollario di sentimenti che possiede l’uomo. Nell’epilogo poi, la voce dello spettatore di questa vicenda, esterno e portatore di esperienze crudeli e tangibili che donano un contesto reale alla storia, un contesto bellico come quello dei bombardamenti su Budapest e sull’Ungheria (dove si svolgono le vicende) avvenuti durante il secondo conflitto mondiale. La trama è intrecciata, godibile, intelligentemente progettata e utile a raggiungere il proprio fine all’interno di questo romanzo complesso che, come un prisma scompone la luce per mostrare lo spettro cromatico, scompone la storia per dare voce a personalità variegate, con le proprie ragioni, il proprio agire, le proprie ambizioni e il proprio vissuto, nella tensione ultima per il raggiungimento di uno scopo, che sia quello della libertà dalle ristrettezze morali, di un sentimento autentico che doni gioia alla vita o della scalata sociale verso un’identità, ormai solo una nostalgia, già morta e lasciata indietro dal progresso e dal cammino della storia.
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DannySanny hai veramente ragione, Màrai richiede una profonda dedizione, credo che meriti veramente una lettura attenta, forse un po' più lenta, ma quello che sa dare è veramente eccezionale, difficile rimanere a bocca asciutta..perciò continuo!
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