Dettagli Recensione
Un western nuvoloso
Sono evidentemente uno dei pochi a non aver avuto il piacere di leggere “Stoner”, apparentemente molto promettente ed invitante. Sono stato però catturato da questo “Butcher’s Crossing”, così invitante nel suo confezionamento estetico così curato. Mi sono perciò lasciato trascinare, facendo una piccola eccezione alla mia tabella di marcia letteraria. Il risultato è stato sufficientemente soddisfacente da far nascere l’intenzione di approfondire con il precedente lavoro di questo signor John Williams. Per il momento quello che ho trovato è stato una sorta di western letterario, primo libro di questo genere che mi sia capitato di leggere. Un western non particolarmente luminoso, in cui il sole allo zenith così caratteristico e stereotipico si presenta solo a tratti ad imperlare la fronte dei quattro protagonisti. Una tipologia di western più montano, più crudo nei confronti della natura piuttosto che verso gli uomini. Una vicenda atipica rispetto ai soliti cliché dei duelli tra pistolero, in quei villaggi deserti in cui solo le tipiche sfere di sterpi sfidano rotolando la canicola del mezzodì. Ad essere sincero mi ritengo un po’ ingannato dal sunto della trama presentato in copertina: vi si prometteva un viaggio, quello di Andrews il protagonista principale, alla scoperta delle realtà più selvagge del continente americano, verso metà Ottocento. Una fuga, più che un viaggio, di questo ventenne di Boston che abbandona lo stretto rigore mentale e sociale di Harvard per perdersi volontariamente in uno dei più sperduti villaggi dell’Ovest, alla ricerca di un contatto con un’esistenza diametralmente differente. Andrews, con i propri risparmi di ex ragazzo abbiente finanzia questa spedizione in extremis per una caccia al bisonte, il cui mercato di pelli già saturo rischia di crollare. Trova ed ingaggia una sorta di vecchio “lupo di mare” (in questo caso “di terra”), espertissimo nella caccia, per condurre la spedizione in luoghi segreti, ultimi habitat depositari delle poche mandrie rimaste. Andrews, il cacciatore Miller, l’amico mutilato Charley Hoge e l’ingaggiato squoiatore tedesco Fred Schneider partono quindi per questa ultima grande caccia, spinti dal profitto, da una sommessa e non ammessa sete di morte e da un contrastante desiderio di comunione con un ambiente ostile e sublime. A fare da sfondo alle vicende è una scenografia imponente e solitaria, che vede pianure sconfinate, cotte dalla luce e dal calore accecante, che salgono per trasformarsi poi nelle fredde catene montuose del Colorado, dal clima rigido, incerto e crudele. Queste scenografie fungono da quinte per un massacro senza precedenti, una sorta di piccola estinzione raccontata con distaccata crudezza, francamente un po’ vuota, ma utile ai fini del racconto. L’ecatombe procede fino al peggioramento del tempo meteorologico, che costringerà i “quattro dell’Ave Maria” a rimanere molto più del previsto sui passi montani così tempestosi, in una forzata convivenza che metterà a nudo ambizioni, debolezze e trivialità. A tutto questo si aggiunga un flirt che il protagonista instaura, prima a distanza e poi in concreto, con la prostituta di Butcher’s Crossing, il villaggio fantasma di partenza. A grandi linee questa è la trama, purtroppo poco aiutata da uno stile linguistico piacevole ma a tratti un po’ vacuo e ripetitivo. Il quale, tra l’altro, poco indaga e poco evidenzia questo Andrews ventenne, bisognoso di sconvolgimenti emotivi e assetato di cultura empirica. Tutto sommato è un romanzo che si legge volentieri, piacevole nel suo carattere leggermente flemmatico e vagamente Zen. Peccato solo per la poca introspezione di questo personaggio, che avrebbe potuto essere il simbolo della fuga da una società fin troppo ricca di convenzioni come quella americana del XIX secolo. Un viaggiatore “beat” ante litteram in cerca di qualcosa di più stimolante in cui trovare la propria ragion d’essere. Non credo di aver compreso fino in fondo né il messaggio di questo libro, escludendo quello troppo banale della provocazione filoambientalistica del “salviamo le specie”, né se effettivamente il protagonista sia riuscito a sconvolgere sufficientemente il proprio animo. Fino a che qualcuno non mi illuminerà la via dell’interpretazione mi resterà probabilmente questo dubbio, ma senza rimpianti e con la soddisfacente sensazione di aver messo metaforicamente piede per qualche tempo in paesaggi incontaminati, benché intrisi del sangue di bestie innocenti, vittime del neonato capitalismo, così volubile e spietato.
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