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Gli anni perduti
Recensione impegnativa, come pure la lettura: è la storia (in parte autobiografica) di due ragazzini nell'America degli anni '70, del loro lungo e doloroso cammino per diventare uomini, mentre attorno a loro il paese cambia , con l'amicizia, la fantasia, la parte migliore di loro stessi a cercare di riempire i vuoti di quello che manca .
Lethem è meticoloso e attento, il suo non è un quadro d'insieme ma una fotografia precisa nei dettagli della vita in un sobborgo di Brooklyn dal 1977 in poi. Ovvio che non essendo americani certe sfumature , un certo lirismo poetico nel citare musica, abitudini, usi e costumi possa non essere colto appieno, ma in fondo tanta America di quegli anni è arrivata anche da noi in Italia, magari di riflesso , oppure solo qualche mese dopo, solo la percezione probabilmente rimarrà diversa.
E' un bellissimo ritorno all'infanzia , ai primi amici, alle prime regole non scritte che entrano a fare parte della tua vita, Dylan è un ragazzino bianco in un ghetto di neri , perchè i suoi genitori erano degli originali hippie che volevano dimostrare quanto fosse possibile convivere con le difficoltà dell'integrazione bianchi e neri. Peccato che la mamma di Dylan abbandoni la partita alle prime battute fuggendo e lasciando solo il piccolo Dylan con un padre pittore stravagante, Abraham. Egli nel suo essere artista disilluso e introverso riesce però ad essere concreto nel crescere il figlio. Dylan è in un ghetto ma fatica a comprenderlo, ha un grande amico, Mingus, che è nero, più pronto di Dylan ad affrontare il mondo e lo aiuta a superare le barriere di questa sorta di razzismo all'incontrario di cui è vittima un bambino bianco in un degradato quartiere di neri. Il papà di Mingus è un ex stella della musica soul , vincitore di 2 dischi d'oro, un artista però in declino perchè incapace di raffrontarsi con i cambiamenti della società attorno a lui, incapace di scendere a compromessi, ma al contrario del padre di Dylan, anche incapace di scindere il suo senso di non realizzazione come artista dalla vita di tutti i giorni, lui trascinerà Mingus nel suo vortice di dolore e disperazione.
Lethem parla del rapporto tra genitori e figli , della difficoltà di capirsi e dei silenzi che fanno più rumore delle parole, a qualunque età.
C'è tanta America di quegli anni : il razzismo, la violenza nei ghetti,la droga , la musica che evolve verso nuovi generi dal soul al r&b al punk poi la disco music e così via; i tags visti come espressione di una propria identità, i fumetti Marvel, nei cui supereroi di cartone i ragazzi si identificano per sfuggire ai momenti di dura realtà, per immaginare di poter diventare qualcuno di diverso che protegga i più deboli in una sorta di riflesso dei loro desideri: essere difesi e protetti dalle angherie dei più grandi, ma anche dalla solitudine di non sentirsi accettati, non più piccoli in un mondo di grandi .
Proprio da uno dei fumetti prende spunto il titolo, "La fortezza della solitudine": è quel regno irreale e isolato in cui si rifugia Superman per riflettere e fare esperimenti, che permette di allontanarsi dagli altri in una sorta di dimensione privata irrangiungibile, il luogo dove si rifugerà da grandicello Dylan, lontano dal dolore dei ricordi, da quello che poteva essere e non è stato, dagli amici perduti .
Non è un libro superficiale e semplice, l'inizio è confuso , pieno di nozioni, nomi, cose, ma è un ulteriore merito di Lethem perchè in fondo ritrae perfettamente il senso di smarrimento del piccolo Dylan in un quartiere immenso dove ogni cosa è nuova, dove ogni gesto e ogni parola ha una ragione e un senso e va misurata.
La parte relativa all'adolecsenza dei due ragazzi è davvero bellissima, mi sono ritrovato a fare un parallelo con la mia , a ricordare luoghi, musica, persone, gesti che credevo perduti in quella macchina che avanza implacabile che è il tempo.
Il tempo, in fondo è l'assoluto protagonista di questa storia, il tempo che che cambia la società, la musica, i fumetti, la politica, le automobili, le aspirazioni, ma non riesce a cambiare le persone in quello che sono veramente. Dylan ritroverà Mingus vent'anni dopo , e capirà che quello che credeva perduto in fondo lo ha sempre accompagnato in questa vita che gli sembra di non avere vissuto appieno, in tutte le cose che non ha saputo cambiare, in quello a cui lui ha rinunciato per vigliaccheria o per vergogna o solo perchè fuggire faceva meno male, .
Per qualche ora ritornerà bambino con gli stessi sogni irrealizzabili, la stessa infantile illusione che per ogni ferita ci sia una cura mentre alcune volte noi siamo la ferita .
Libro impegnativo, a tratti duro, va centellinato, ascoltato, respirato, chiudendo gli occhi e immaginandoci con i pantaloncini corti e le ginocchia sbucciate, assolutamente stupendo.