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L'uomo che guardava passare i treni
 
L'uomo che guardava passare i treni 2013-01-04 11:29:12 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    04 Gennaio, 2013
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L’altro Io

L’uomo che guardava passare i treni, scritto nel 1938, ha tutte le parvenze di un noir, anche se lo scopo di Simenon non era tanto quello di narrare una vicenda criminale, bensì di analizzare la psiche di un individuo, piccolo borghese, che a un certo punta della sua vita si ribella a un’esistenza calma e agiata, scoprendo in se stesso una personalità latente intollerante nei confronti di quel mondo in cui ha sempre vissuto.
La sua presa di posizione, il cambiamento radicale che la caratterizza, non è un frutto di un calcolo maturato lungamente, ma è un’improvvisa scelta quasi inconsapevole.
E così Kees Popinga, così si chiama il protagonista, abbandona per sempre quell’immagine di onesto, corretto, meticoloso impiegato e buon padre di famiglia per cercare di cancellare, in uno con il suo passato, anche quelle caratteristiche di appartenenza a un ceto borghese, fatte di consuetudini e apparenze anche stucchevoli.
In questa ribellione, che lo porterà anche all’omicidio, c’è una lunga fuga dal mondo in cui è sempre stato, che finisce però con il diventare anche una fuga da se stesso, da quell’inconscia personalità per anni celata e repressa da una parvenza di perbenismo a cui, altrettanto inconsapevolmente, si era abbandonato.
Entra talmente nel suo nuovo personaggio da trovare sempre nuove giustificazioni per il suo operato, per la sua furia criminale che tuttavia non traspare esteriormente se non nei momenti in cui i freni inibitori, totalmente rimossi, fanno sfociare il suo comportamento in una violenza accompagnata dalla cieca lucidità di un uomo che ricerca e trova considerazioni auto giustificatorie al punto di ritenersi un perseguitato dalla polizia.
Il suo è il delirio di un folle che solo in ultimo, ormai braccato, lascia spazio a qualche momento di lucidità, che se non gli porta un senso di colpa, pur tuttavia riscopre sprazzi di quella coscienza borghese, che gli sembra così lontana e irraggiungibile, ma di cui ha una vaga nostalgia, un ricordo di un mondo in cui tutto quadrava per il meglio, almeno in apparenza, mentre ora la sua condizione è quella di una bestia in fuga e senza speranza.
Popinga è tuttavia un fallito e anche la scorciatoia che cercherà di prendere per risolvere definitivamente il problema di una nuova esistenza, verso cui prima si sentiva fortemente attratto e che ora invece mostra tutti i suoi limiti, finirà miseramente e chiuderà così il suo ciclo vitale in una clinica psichiatrica, in cui, rassicurato dalle mura che impediscono un confronto con la realtà esterna, riuscirà a realizzare perfettamente se stesso, un mondo tutto suo, una specie di limbo in cui i medici non potranno capire nulla di lui, e, soprattutto, altrettanto lui di se stesso.
In fin dei conti, come tanti personaggi di Simenon, il protagonista è un uomo all’apparenza normale, fino a quando è inserito nel tessuto sociale in cui ha sempre vissuto, ma poi scatta qualche cosa, a volte anche un’inezia, e l’uomo si trasforma; non c’è nulla di più complesso della psiche umana, tanto che a nessuno di noi è dato il privilegio di conoscerci fino in fondo e Simenon non era dissimile da noi, anzi in lui erano presenti mediocrità e genialità, quest’ultima riservata alla sua corposa produzione letteraria. Del Simenon privato forse è meglio non parlare, non ricordare l’egoismo che lo caratterizzava, la sua ambiguità durante l’occupazione nazista,
il trattamento umiliante riservato alle sue amanti, una doppia personalità che peraltro non deve stupire, come se in noi esistessero due nature, ci fossero due io.
E Kees Popinga è il simbolo di questo doppio che poi Simenon riuscirà a delineare ancor più mirabilmente in un altro romanzo, I fantasmi del cappellaio.
Anche il titolo, del resto, ci offre nella sua sinteticità il vagheggiamento onirico del protagonista che cerca di immaginare come siano i passeggeri, figure indistinte dietro i finestrini, inconsapevoli attori della vita, e quelle carrozze che corrono sulle rotaie possono benissimo rappresentare per noi il confuso e convulso percorso dell’esistenza, ma per Popinga sono solo un sogno, una fuga da quella realtà che d’improvviso non può più accettare.
Mi sembra inutile dilungarmi ulteriormente, se non per un consiglio d’obbligo: leggetelo, non ve ne pentirete.

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