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Gabriel Garcia Marquez: cent'anni di gratitudine
Uno dei miei più grandi successi in ambito di ripescaggio di libri abbandonati. A remare contro la buona riuscita del mio primo approccio a questo libro furono probabilmente la tenera età e conseguentemente una coscienza letteraria ancora troppo poco matura per poter affrontare un’opera dal carattere così eclettico come “Cent’anni di solitudine”. Questo romanzo, ingiustamente dimenticato e abbandonato alle polveri della libreria, ha ripreso immediato fulgore in un pomeriggio di astinenza, combinata ad assenza di libri in cui seppellirmi. Inutile dire che con un capolavoro di tale portata nelle mani e una decina di anni di più sulle spalle, con le conseguenti, formative e non, letture, il successo è stato strepitoso. Non mi capitava da tempo di leggere un libro del genere, il quale più spontaneo appellativo con cui definirlo non è altro se non “bello”. Bello veramente, poiché ricchissimo di immagini belle, visive, quasi pittoriche. Un romanzo che lusinga gli occhi della mente, quelli che oltre alla trama, ai personaggi e ai rudimenti strutturali che sostengono la narrazione, apprezzano anche un’estetica inusuale e sublime. Un viaggio nell’immaginario surreale e tremendamente ricco di poesia di un grandissimo scrittore, considerato il più grande ancora in vita. Il capolavoro di Marquez è un romanzo che il più delle volte non prevede giudizi intermedi. O lo si detesta profondamente, e con esso tutto l’importante corpus delle opere dell’autore e di una conseguente generazione di scrittori sudamericani, o lo si ama alla follia e si porta per sempre in se stessi una parte di quei mondi così reali e irreali allo stesso tempo che solo la penna di Marquez può evocare.
Una trama assolutamente indescrivibile. Delineabile solamente con l’affermazione: una saga familiare. La storia intricatissima dei Buendìa, famiglia assolutamente fuori dal comune, con discendenti ancora più stravaganti che conducono, in una narrazione che sorvola numerosi decenni, sebbene in un’epoca non precisamente circostanziata, vite bizzarre. Incontreranno successo, gloria, degrado, gioia, disperazione, rinascita, estinzione. Una dinastia prolifica di personaggi con lo stesso nome, ereditato dai visionari capostipiti, che si differenziano per le proprie scelte, per i propri caratteri, per le proprie ambizioni, così diverse e inconciliabili. Personaggi che vanno, che vengono, che tornano nella casa che sempre può accoglierli. In quell’ameno paesino, Macondo, fondato dai loro stessi avi. Una interminabile saga familiare che vede come unico centro di gravità, granitico, irremovibile, a tratti contemporaneamente rassicurante e inquietante, la figura della matrona Ursula, che col tempo diventerà la centenaria anima di questa famiglia ormai decaduta ed estinta, l’unica depositaria di quelle fondamentali memorie in cui sempre vivranno tutti i componenti della famiglia Buendìa.
Una storia lunga un secolo, in cui gli ambienti si mantengono sempre uguali a se stessi. In cui Macondo, un assolato villaggio contornato di paludi, nel bel mezzo di qualche imprecisato territorio del sudamerica, racchiude un piccolo universo incommensurabilmente poetico, opulento di colori e di visioni. Un piccolo mondo, umido e colorato, tracciato con immortale maestria della mente di Marquez, che ci regala delle atmosfere esotiche e assolutamente indimenticabili.
Non ci si scorda, infatti, dei personaggi descritti in questo libro. Sono troppo ben congegnati, troppo peculiari, troppo irreali e umani, pieni di volontà e di forza per potersene scordare appena chiuso “Cent’anni di solitudine”. Il lettore legge delle loro vicende e li vede svolgere la propria vita come un filo, li vede fare i conti con le conseguenze delle proprie decisioni, li vede trasformati dagli anni. E dopo averli conosciuti così bene, dopo averli seguiti per un secolo tra miserie e ricchezze si sente parte di loro. Ci si sente parte di quella grande casa nel bel mezzo di Macondo, ci si sente parte della luce calda delle ultime ore del giorno trascorse sotto quel portico, respirando gli odori della sera, a fianco di Remedios che lavora al telaio e di Ursula che scopa il pavimento con cipiglio severo. Si vede passare quel garzone tremendamente innamorato di una delle ragazze Buendìa, con il suo immancabile seguito di farfalle gialle al suo passaggio, e ci si chiede, con una nota di gratitudine, quale altro autore avrebbe potuto donare al suo pubblico qualcosa di così commovente come questo romanzo.
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