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jezabel di Irène Némirovsky
Jezabel apparso nel 1936, è un bellissimo romanzo che offre diversi piani di lettura: dal più evidente, che si basa sulla trama abbastanza semplice nella sua terrificante rappresentazione di una parte della società ricca e superficiale dei primi del novecento, a quello assai più complesso che riguarda la sfera dell’arte e il rapporto arte/società.
La protagonista Gladys Eysenach è una donna bellissima, ricchissima, amata e corteggiata, con alle spalle un’infanzia senza padre, appartenente ad “una società cosmopolita senza patria e senza legami”. La vita di Gladys è tutta incentrata sul culto di se stessa e della sua bellezza: la sua unica preoccupazione è quella di non invecchiare, o, quanto meno, di attenuare gli effetti devastanti del tempo sul suo corpo arrivando persino a nascondere, con subdoli espedienti, i suoi dati anagrafici.
Quest’ansia di giovinezza eterna le aliena l’affetto della figlia, che rimarrà vittima del suo egoismo e morirà mettendo al mondo un figlio che Gladys allontanerà perché imbarazzante testimonianza della sua reale età. L’inizio del romanzo, con la scena del processo e della deposizione di alcuni testimoni contro Gladys, accusata di aver ucciso un giovanissimo amante, è solo il pretesto per penetrare nel personaggio, nella sua vita, nelle sue ambizioni deluse, nei suoi egoismi palesi.
Siamo di fronte a un vero e proprio Narciso in panni femminili. D’altra parte il mito di Narciso ha attraversato la storia della letteratura sin dai tempi di Ovidio ed è stato anche ripreso da Andrè Gide e da Paul Valéry.
Il movimento ondeggiante dell’acqua in cui Narciso ammira la sua immagine, invaghendosene, è il simbolo della precarietà dell’amore fine a se stesso. In uno dei tre trattati sulla sessualità, Freud identifica il complesso del Narciso con una pulsione all’autoconservazione. Ed è in questa prospettiva che si può parlare di un attacco al concetto di arte fine a se stessa come lo troviamo per esempio nella prefazione di Oscar Wilde al Ritratto di Dorian Gray, un vero e proprio manifesto letterario. D’altra parte Gladys cos’è se non una Dorian Gray, in veste femminile e più moderna? La differenza tra il personaggio di Wilde e quello della Némirovsky, consiste nel fatto che al primo è consentito, grazie a uno scellerato patto col demonio, di vedere invecchiare la sua immagine solo nel suo ritratto, fino al momento finale in cui, presa coscienza della sua depravazione, Dorian infierirà sul ritratto e quindi su se stesso, assumendo l’aspetto del vecchio che è ormai diventato, mentre alla Gladys della Némirovsky tocca vedere, giorno dopo giorno con tragica e sofferta consapevolezza, gli effetti nefasti dell’età sul suo viso e sul suo corpo.
È giusto dunque che l’arte mantenga una purezza assoluta e non abbia alcuna funzione sociale o didascalica, che sia fine a se stessa, come teorizza Wilde, o che - piuttosto - non si adegui e rappresenti le problematiche, i drammi, le incongruenze della società contemporanea? Un nodo che i teorici e i critici forse non hanno ancora sciolto.
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Commenti
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Forse ti e' sfuggito senza badarci, non so. Magari potresti mettere un avviso di spoiler.
Ciao !
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