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il generale nel suo labirinto di G. G. Marquez
Il generale nel suo labirinto non è forse tra le opere più note di Gabriel Garcia Marquez, ma non per questo deve essere considerata un’opera minore.
Qui certamente il “realismo magico” che caratterizza i grandi romanzi di questo autore è condizionato dal genere biografico, che lascia meno spazio alla narrazione fantastica e immaginifica. Ciononostante, Marquez, in un esperimento geniale, non si dilunga in una cronaca noiosa dei fatti storici e politici che caratterizzarono la vita di Simon Bolivar -che allega peraltro in appendice a chiarimento del lettore e a sostegno degli eventi da lui narrati - ma descrive piuttosto le ansie, i sentimenti, le delusioni e le disperate speranze di un uomo giunto al declino del suo successo e al tramonto della sua vita. Questa scelta ha permesso a Marquez di dare spazio alla sua creatività, regalandoci pagine di grande intensità descrittiva capaci di generare le grandi emozioni a cui sono abituati i suoi lettori.
La prima parte del romanzo risente, a mio avviso, della cultura e della tradizione spagnola, in particolare dell’influenza del romanzo picaresco, da Lazarillo de Tormes al Don Chisciotte di Cervantes, dove una satira sottile e dissacrante ci presenta un Bolivar ormai ammalato e fiaccato nello spirito e nel fisico, non più a cavallo del suo storico Palomo Bianco ma di una “mula spelacchiata dalle gualdrappe di stuoie”, seguito sempre dal suo fedele Josè Palacios, una sorta di Sancho Panza. E le esperienze a cui va incontro ne diminuiscono gradatamente il prestigio e l’autorità.
Certamente, però, non era intenzione di Marquez creare un personaggio comico o grottesco, perché il suo atteggiamento nei confronti del “suo” protagonista cambia nel corso della narrazione. L’autore distingue nello stesso Bolivar l’uomo eccessivamente ambizioso che aveva perseguito il sogno di unità dei popoli latinoamericani e aveva paragonato se stesso a Napoleone, vede in lui annidato il pericolo della dittatura, causa di sventure nella storia delle nazioni e in questa prospettiva si serve di una satira sottile e intelligente. Laddove Bolivar è invece descritto come il Libertador, che ha liberato i popoli dalla dominazione spagnola, il rispetto per l’uomo e per il personaggio si fa indiscutibile. Bolivar, dunque, eroe dimezzato. La passione descrittiva di Marquez aumenta via via che si dilunga sulle debolezze fisiche dell’uomo, ridotto ormai ad un mucchio di ossa, rimpicciolito nella statura, avvilito dal degrado del suo corpo, consapevole “del fetore e del calore del suo fiato”, ben lungi dal soldato in uniforme che aveva sedotto centinaia di donne: un degrado ancora più mortificante in chi spende una vita basandola su principi di integrità, forza fisica e coraggio.
Abbandonato e tradito da molti che gli erano stati accanto, la sofferenza di Bolivar è alleviata però dalla fedeltà estrema di Josè Palacios, la cui descrizione acquista sempre maggiore dignità nel corso della narrazione e dalla devozione assoluta di Manuela che, pure distante, lo amerà oltre la morte.
La consapevolezza di Bolivar di essere giunto alla fine dei suoi giorni, lo porrà di fronte all’ignoto con il dubbio angoscioso “Come farò a uscire da questo labirinto?” , il labirinto della vita di ciascun essere umano.
Con la solita maestria nell’uso dello spazio e del tempo, che non conoscono alcuna unità, Marquez affida la descrizione ad una prosa carica di suggestioni, capace di evocare suoni, odori, profumi. Amplifica i personaggi, a volte fino allo spasimo, quasi come fa Botero con i suoi dipinti e le sue sculture, come se fosse proprio di questi magnifici artisti colombiani esprimersi attraverso l’iperbole.
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