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cecità di Josè Saramago
Credo che a buon diritto Cecità di Josè Saramago possa essere definito romanzo dell’assurdo, come lo fu La peste di Camus.
Iniziamo con l’analizzare il titolo: è significativa la scelta di un sostantivo astratto, che, nell’uso assoluto che ne fa l’autore, libero cioè da qualsiasi articolo che aggiunga una connotazione al termine, si impone, attraverso il suo significato,come una condizione propria a tutto il genere umano, una sorta di categoria dello spirito.
Immediatamente dopo un breve primo paragrafo scritto in uno stile tradizionale, Saramago stravolge ogni regola e comincia ad accorpare le frasi, dando ad esse solo delle pause logiche segnate dalle maiuscole, con una tecnica del tutto simile a quella del flusso di coscienza la cui massima espressione è il monologo di Molly Bloom nell’ultimo capitolo dell’Ulisse di Joyce. Nell’opera di Saramago il pensiero del singolo si fa tutt’uno col dialogo tra i personaggi, creando, attraverso l’espressione verbale, l’esatta idea del caos esistente nel mondo: d’altra parte i personaggi stessi non si distinguono per il loro nome, ma solo per alcune connotazioni fisiche o sociali. Così ci troviamo di fronte al medico, alla moglie del medico, al ragazzino dall’occhio strabico, alla ragazza dagli occhiali scuri e via dicendo. La perdita di identità è dunque uno dei temi fondamentali di questo romanzo: la vicenda descritta riguarda Ognuno, una sorta di Everyman della tradizione medievale, riguarda l’Uomo e non il singolo. Tutti dunque si trovano nella tragica condizione di cecità, ad eccezione della moglie del medico. E questo, a mio avviso, è un'altra scelta significativa dell’autore, perché solo a lei, a questa donna dotata di coraggio, di generosità e di senso di solidarietà verso il prossimo, è affidato il compito di dare testimonianza di ciò che ha visto e di ciò che è accaduto. La sua funzione non è diversa da quella che Melville attribuì a Ishmael nel suo Moby Dick: solo Ishmael potrà raccontare l’avventura tragica di Achab e della balena bianca e lasciare al lettore la libertà di coglierne il significato simbolico attraverso la forza della parola.
La cecità, dunque, che dilaga come un’epidemia, porta alla luce la parte bestiale e primitiva dell’uomo messo a nudo e privato di ogni condizionamento civile. Violenza e prevaricazione schiacciano i più deboli, abusi di ogni tipo si effettuano in un manicomio dismesso trasformato in lager. Non si può non rilevare, in questo contesto, il chiaro significato politico dell’opera.
Come nei convogli della morte e nei lager nazisti, l’uomo perde totalmente la sua dignità, si trova immerso nei suoi escrementi, che diventano quasi un’estensione del suo corpo. In queste condizioni l’orrore si sostituisce alla normalità, il fetore all’odore, l’atto sessuale diventa perversione e la diffidenza e l’odio si diffondono persino tra le stesse vittime, tra coloro cioè che condividono una sorte sciagurata e malvagia. In questa prospettiva il linguaggio che crea le scene dei ciechi che camminano in fila indiana avendo come riferimento strisce di stoffa che fungono da guida, suscita lo stesso raccapriccio e sconcerto che suscita l’immagine pittorica ne La parabola dei ciechi di Pieter Bruegel.
La cecità, d’altronde, è l’unica condizione, nel mondo di Saramago, per giungere alla conoscenza, proprio come lo fu la peste per gli abitanti di Orano nel romanzo di Camus. Non possiamo non ricordare, a questo punto, che nella tradizione classica, sono proprio i ciechi, quelli che “vedono” realmente: da Omero a Tiresia a Edipo. Si consideri l’interpretazione di Pier Paolo Pasolini del mito di Edipo: qui la cecità è espiazione e riscatto per l’uomo di ieri come per quello di oggi. L’Edipo di Pasolini nasce negli anni venti, vive nell’antica Tebe e muore nella Bologna degli anni sessanta. Nulla di più efficace per esprimere il concetto che questa condizione di morte in vita non appartiene a un’epoca ma è insita nel cuore degli uomini finché non siano essi stessi a prenderne coscienza e a superarla.