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La piaga del latifondo
L’Alentejo, che vorrebbe dire al di là del Tejo, meglio conosciuto da noi come Tago, si trova a est di Lisbona ed è una terra destinata esclusivamente all’agricoltura.
Non sono trascorsi molti anni da quando l’immagine di questi territori propri dell’Europa del Sud richiamava subito alla mente i grandi latifondi, poco coltivati e con metodi quasi primitivi da miseri braccianti, sottopagati e in balia del potere dei padroni.
Una terra chiamata Alentejo (il titolo originale è Levantado do Chao) è stato scritto da José Saramago nel 1980 e racconta la storia secolare di una famiglia di braccianti in quel territorio.
Sono quattro generazioni della famiglia Mau-Tempo (Maltempo, un nome quanto mai emblematico) che vengono a comporre questa saga contadina, il cui elemento d’unione è la miseria più nera, in un periodo che va dalla fine della monarchia, attraversa gli anni neri del regime di Salazar e si conclude con la luce della rivoluzione dei Garofani (25 aprile 1974).
Nel corso di questo lungo periodo, mentre in Europa avvengono sconvolgimenti che incidono profondamente sulla storia, in questo remoto angolo, quasi dimenticato da Dio si passa dalla dura e inclemente battaglia per sopravvivere alle lotte per ottenere una condizione di vita almeno dignitosa.
Sì, perché quello che manca a questi miseri contadini è la dignità dell’essere umano, è la speranza in un futuro diverso. In balia dei latifondisti, sfruttati con orari di lavoro propri degli schiavi, aggrappati a una religione che diventa ulteriore mortificazione, vista la connivenza fra il clero e i padroni, si nasce, si vive e si muore in un’inedia provocata dai patimenti, dalle fatiche, dalle ingiustizie e dalla penuria di alimenti.
E’ inevitabile, dato l’argomento, che la mente corra subito allo splendido I Malavoglia di Giovanni Verga, il cui verismo fece conoscere realtà per convenienza sempre sottaciute.
In Saramago è evidente la formazione marxista che distingue la sua opera da quella di Verga, quest’ultima non ideologica e pertanto assai più cruda ed immediata.
Però, se anche si avverte nelle righe il pensiero politico dell’autore portoghese, resta un’immagine indelebile di un mondo arcaico e di torti, dove solo un elemento pare non partecipe, pur assumendo di fatto la caratteristica di personaggio principale: il paesaggio.
Infatti il romanzo inizia con “ La cosa più importante sulla terra è il paesaggio…” e le descrizioni di Saramago sono veramente splendide, tanto che sembra di vedere le pianure, i sughereti, i temporali improvvisi, perfino i rilievi.
Se non bastasse questa eccelsa capacità dell’autore, del tutto particolare è la forma della scrittura utilizzata, uno stile personale, una specie di scrittura orale che inserisce il parlato nel racconto, senza che vi siano pause o addirittura, spesso, punteggiatura.
In tal modo viene a essere vivacizzata la narrazione, necessariamente lenta altrimenti per l’assenza di eventi determinanti, e l’impressione che se ne ricava è che Josè Saramago esca dalle pagine e lì davanti a noi prosegua nel suo racconto, con una voce dal tono a volte acceso, ma più spesso ironico, una sorta di amico che ci partecipa le sue riflessioni su un mondo alla rovescia.
Una terra chiamata Alentejo è un autentico capolavoro.