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L'impossibilità di agire
Con Kafka ci avventuriamo nei meandri dell’alienazione mentale, remissiva al controllo di un vettore, istituzione, o più specificatamente della collettività; anch’essa alienata da altri connotati esterni.
Il Processo, libro postumo dello scrittore praghese, pubblicato nel 1925, si presenta come un’esemplificazione della solitudine sofferta dall’individuo nei confronti della burocrazia.Joseph K., alterego di Kafka e protagonista della vicenda, percorsa da dialoghi che sfociano in una narrazione da teatro dell’assurdo, è processato e poi condannato per una colpa non commessa, ignota al tribunale stesso.Egli stesso cercherà di far luce nei confronti dell’accusa, vagando da stanze chiuse a luoghi vorticosi, da aprassia ideativa a impossibilità della confutazione giudiziaria.
Lo stile del libro è volutamente straniante, reso mediante la ricerca di un linguaggio spersonalizzante.Ecco che allora i personaggi divengono totalmente scarnificati, incapaci di un’espansione affettiva, i quali possono essere riconducibili alla cinematografia di David Lynch.Un buco nero circondato da una parete di specchio, dentro il quale diventa difficile lasciare spazio all’emozione, cancellata da un supplizio che crea spazi claustrofobici, labirinti della mente e soprattutto un evidentissimo spaesamento del proprio diritto di difesa nei confronti della società accusatrice.
Einaudi ci propone l’edizione tradotta da Primo Levi, quando il libro sembra offrirsi come un’allegoria alle dolorose sevizie inflitte agli ebrei durante il secondo periodo bellico che trascinò il mondo nel novecento.
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Prova con "Inland Empire", poi ne discutiamo.
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