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Ho visto Ramallah
Murid al-Barghuthi, uno dei piu’ apprezzabili poeti arabi contemporanei, nasce a Deir Ghassana, in Cisgiordania, nel 1944. All’età di sette anni si sposta insieme alla sua famiglia a Ramallah e nel 1963 si trasferisce in Egitto per frequentare il corso universitario di Letteratura Inglese. Qui, nel 1967, a pochi mesi dalla laurea, con lo scoppio della “Guerra dei sei giorni” e la conseguente chiusura delle frontiere nei territori occupati dagli israeliani, vede segnare il suo destino di esule che lo accomunerà alle migliaia di palestinesi che non potranno fare più ritorno alla loro terra. Vivrà così l’intenso dolore della “certezza dell’esilio” e della “incertezza del ritorno” in patria, che avverrà dopo trent’anni, al seguito di una serie di traversie che dall’Egitto lo porteranno a Budapest in Ungheria e poi di nuovo in Egitto costringendolo a ricorrenti separazioni anche dal suo nuovo nucleo familiare.
Questo libro riproduce, aggrappandosi tenacemente a estremi e forti baluardi di poesia, la storia di un intero popolo, la storia di un esilio collettivo e la storia delle nuove generazioni di palestinesi nate fuori dal proprio territorio, che si sono ritrovate “obbligate ad amare” un paese a loro sconosciuto, lontano, impossibile da raggiungere, occupato e presidiato da un altro popolo che ne limita ogni libertà fisica e di pensiero. Un paese che spesso viene ridotto ad essere un ciondolo d’oro, appeso al collo delle donne esiliate, a mantenerne il ricordo.
La “Gurbha”, l’esilio, viene vissuta come una malattia incurabile, con la percezione di sentirsi stranieri ovunque, di sentirsi estranei persino a se stessi, alle proprie memorie, al proprio passato sradicato, fino all’abitudine, perpetuata nella quotidianità, di un vivere le situazioni più atipiche, privi di ogni stupore e permeati incessantemente di un senso di assoluta precarietà e d’impossibilità di una pianificazione futura.
E’ la storia del “non senso di un ritorno” all’affannosa ricerca di una identità perduta, di un desiderio di confini entro i quali sentirsi liberi, di famiglie separate per sempre che si rincorrono per il mondo e vivono i sentimenti, le gioie e i dolori attraverso il filo di un telefono che diventa strumento indispensabile per la comunicazione e la cognizione delle alterne vicende della vita di ognuno di essi.
Con le splendide descrizioni, non già della Gerusalemme conosciuta dal mondo, ma della vera Gerusalemme, quella appartenente intimamente al suo popolo e di tutto un paese a cui l’occupante ha impedito di evolvere e crescere sospendendolo in una remota staticità, Murid al- Barghuthi solleva, da tutta questa polvere di dolore, interrogativi di fondamentale importanza, domandandosi che cosa, oltre alle ferite fisicamente inferte dall’invasore, abbia potuto strappare ogni colore alle anime rendendole così grigie e rassegnate al martirio.
Domande che, scaturendo dall’interiorità più profonda, aspirerebbero a risposte che ora non ci sono e probabilmente mai ci saranno.