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La venticinquesima ora
 
La venticinquesima ora 2011-09-06 15:58:22 ahab
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
ahab Opinione inserita da ahab    06 Settembre, 2011
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romanzo premonitore

Meglio il libro o il film? Alla risposta (ma spesso anche alla stessa domanda) mi sottraggo, poiché le considero opere non paragonabili. Ma qui stiamo parlando del libro e allora ignoriamo il film, eccetto per quella identificazione di volti dei personaggi e di luoghi che l’immagine cinematografica impone alla nostra fantasia.
Il libro.
Monty è un uomo alquanto giovane, pusher, spavaldo, frequentatore di locali alla moda come di bande criminali. È ricco, ma la sua ricchezza ha un’origine sporca, dalla quale lui, pur cosciente e godendone, pensa di affrancarsi. Quando decide di farlo, però, è tardi. Nel corso di un’irruzione della polizia in casa sua, dovuta a una soffiata, lo scoprono in possesso di un quantitativo tale di droga da decretarne l’arresto e la condanna ad almeno sette anni di carcere. Monty dovrà scontare questa pena, ma sa che non ne uscirà bene, forse non uscirà affatto, sarà così alto il prezzo che dovrà pagare in carcere, tra umiliazioni e soprusi di ogni genere, da convincersi che ne uscirà diverso. Una persona con ferita difficilmente rimarginabili.
La messa a fuoco del libro è sulle 24 ore che precedono il suo ingresso in carcere, le ore in cui maggiore è la consapevolezza di ciò che lo attende.
Queste ore le passerà in compagnia di due amici, Slattery, un agente di borsa senza scrupoli, il cui unico dio è il denaro, e Jakob Elinsky, un professore di letteratura insoddisfatto del suo lavoro ma ancor più della sua stessa vita. Ma soprattutto in compagnia di Naturelle, la sua incantevole donna portoricana, per la quale nutre l’unico amore che abbia mai provato.
Ambientata in una New York – città emblema dell’America – dove le luci sono ingannevoli, spesso artificiali, ma dove ciò che fa ancora più paura sono le ombre delle cose non fatte, degli occhi chiusi, di ciò che poteva essere ma non è stato. È una chiave di lettura, personale, ovviamente, che offre al romanzo di Benioff sfaccettature che vanno ben al di là della semplice storia di Monty.
Il profilo tracciato, quindi, dell’America è crudo, spietato, avido (“il potere ti aiuta a far soldi e i soldi danno potere…”), ma allo stesso tempo carico di amori spezzati e di sogni infranti. O che rischiano di infrangersi. Monty diventa l’America stessa, con le sue paure per il futuro, con la sua rabbia per ciò che aveva e non avrà più, con il suo rimorso per non essersi accorta prima “dove” era diretta. Un baratro, probabilmente.
Il libro è stato scritto prima dell’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre, prima della paurosa crisi che ha fatto e sta facendo precipitare gli Stati Uniti nell’incubo della disoccupazione e dei fallimenti. Ma l’aspetto tristemente premonitore del libro è che denuncia proprio la sordità della nazione a tutto questo. Monty è così indignato per questa sordità che arriva persino a vedere tutte le colpe del mondo nella sua città e a desiderarne anche il peggio, per lei, pur di risvegliarla dal suo torpore (passaggio inquietante: “che venga un terremoto e butti giù i grattacieli: che il fuoco divampi incontrastato; che bruci, bruci, bruci…”: i grattacieli, poi, sono venuti giù realmente…).
Ma dov’è l’anima dell’America? Non saprei. A me piace vederla nelle prime pagine, nella figura di un cane che, ferito e quasi moribondo dopo essere stato torturato, Monty soccorre e lo tiene con sé. Di questo cane si parlerà ancora, nel libro, in passaggi molto intensi. Il cane dovrà rimanere in vita, a tutti i costi. E Monty lo affiderà a uno dei suoi amici, a Jajob, l’insegnante di lettereratura. Bello. Il cane. Da affidare. Da tramandare. Vivo a tutti i costi.
(altro passaggio inquietante è quando Monty, rivolgendosi a una certa star del cinema – poco influiscono i dettagli di questa – dice “Fai schifo, non hai una lira e i tuoi film…” Una lira? A New York? Nostalgico…)

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