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saggio o romanzo?
La tecnica e l’idea di fondere il saggio al romanzo non sempre sortisce risultati gradevoli. Un buon esempio è “Il mondo di Sofia” di Gaarder (ultimo letto del genere); un cattivo esempio è questo di Kundera.
L’aggettivo “cattivo” fa intendere già un giudizio sul libro, che però vorrei scindere in più parti. La prima riguarda il romanzo vero e proprio, la storia d’amore, per intenderci, tra i due protagonisti Tereza e Tomas (insieme e intrecciata all’altra di Sabina e Franz). La mia opinione è che non siamo di fronte a storie indimenticabili, forse anche perché tutto viene inframmezzato ripetutamente da osservazioni di carattere filosofico (non sempre apprezzabili) e da analisi politico-ideologiche, visto che la trama ha come contesto principale Praga e l’invasione del regime comunista in Cecoslovacchia.
Ciò che meno ho apprezzato, però, è l’impostazione saggio/romanzo. Ma ci arrivo subito. Ancora un attimo.
Cult degli anni ’80, l’opera di Kundera è probabilmente uno di quei romanzi sopravvalutati, vuoi per una serie di circostante (non ultima un’abile promozione), vuoi per l’eccellente scelta del titolo (dicono che anche “La solitudine dei numeri primi” deve molte delle sue vendite all’effetto di trascinamento del titolo), vuoi per il contesto politico degli anni ’80 che consentiva ancora analisi ideologiche come quelle presenti nel libro.
Ma veniamo al problema saggio/romanzo.
Qui non funziona affatto e non per i limiti di questa spesso ardita operazione di fusione delle due tecniche, ma perché Kundera applica le tecniche proprie del saggio (enunciazione, spiegazione, conclusione) anche al romanzo, cosa che avvilisce spesso il lettore, sminuendone le possibili (e seppur minime) capacità intellettive e prosciugando la narrazione di ogni fascino legato al “territorio aperto” in cui accompagnare il lettore e lasciarlo, salvo chiare indicazioni, libero di peregrinare come vuole.
Mi spiego. Passo a qualche esempio perché i soli concetti astratti talvolta offrono poco.
Per non dilungarmi vorrei fare riferimento a numeri di pagine per le citazioni, ma le diverse edizioni non consentono questo metodo. Un po’ di pazienza, allora.
Kundera ad un certo punto scrive (tralascio il motivo per cui lo scrive) “Questa situazione mostra con evidenza che nella madre l’odio verso la figlia…” Bene, un autore, almeno secondo la mia idea di romanzo, non dovrebbe “spiegare” ciò che scrive, ma lasciar parlare i fatti, sempre che questi per contenuto e costruzione siano in grado di parlare da sé. Pertanto, non ho bisogno di uno che mi dica “cosa” mostra con evidenza una situazione.
Non è un passaggio isolato quello che ho proposto.
Perché Kundera insiste.
S’incontrano spesso delle domande nel corso del romanzo, domande alle quali non sono i fatti a dare risposte (come dovrebbe) ma l’autore. Ad esempio, scrive “Perché, allora, si ripeteva ogni giorno che la sua amante voleva lasciarlo? Non riesco a spiegarmelo se non col fatto che per lui…” oppure “E perché era proprio Tomas a sparare, e perché voleva sparare anche a Terza? Perché era stato proprio lui a mandare Terza tra di loro. È questo ciò che il sogno voleva dire…” (spiegazioni addirittura dei sogni; a questo punto mi leggo un saggio di Freud…)
L’apice Kundera lo raggiunge quando a un’affermazione di Tereza (“Voglio che tu sia vecchio. Più vecchio di dieci anni. Di vent’anni!”) imperterrito aggiunge “Con questo gli voleva dire: Voglio che tu sia…”
Insomma, il romanzo paga un forte tributo a questa tecnica di narrare, finendo per indispettire il lettore (almeno me, come lettore). E questo porta a venare la narrazione di crepe la cui dimensione aumenta proporzionalmente col numero di pagine e che svilisce alcuni buoni intenti del saggio e del documento politico-ideologico.