Dettagli Recensione
Tutto il mondo è paese
Se arrivi alla fine del libro e non ti viene spontaneo dire che ti è piaciuto, allora c’è qualcosa che non va.
E’ qualcosa che va al di là dell’opinione personale o del gusto.
Questo è un piatto cucinato con maestria, con ingredienti di prima qualità miscelati in una preparazione sopraffina. Eppure scollinata la metà, non vedi l’ora che finisca.
Procedi da una pagina all’altra sentendo quei sapori che, da soli, sono squisiti, ma che non amalgamano. E, dopo l’ultimo boccone, ti rimane la sensazione di non averlo capito. (E qui l’allegoria traballa).
Insomma, viene fuori la solita smania dei superscrittori di stupire ambientando le loro storie in contesti storici molto ben resi. Viene fuori lo sforzo quasi ossessivo dell’autore di dirci che, in fondo, tra religione e superstizione non vi è gran differenza e che, in sostanza, entrambe conducono l’umanità verso una sorta di ineluttabile follia.
Come voler significare: prendi Firenze o prendi l’Indostan, ritroverai le stesse deviazioni, le stesse anomalie.
C’è una frase, molto bella, che spero di riportare fedelmente: “Il problema degli uomini non è che siano così diversi, ma che siano così uguali”. Ecco: mentre ripenso al romanzo, mi rimane questa assoluta verità, e la sensazione che non servissero quasi quattrocento pagine per comunicarla.
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