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Il libro e la bestia
Sulle sponde del fiume Nangaritza “il cielo, che gravava minaccioso a pochi palmi dalle teste, sembrava una pancia d’asino rigonfia. Il vento, tiepido e appiccicoso, spazzava via alcune fogli morte e scuoteva con violenza i banani rachitici che decoravano la facciata del municipio”. Ai margini del villaggio di El Idilio, in una capanna di canne intrecciate e foglie, vive Antonio José Bolìvar, vecchio e sdentato solo a tratti, perché in tasca porta una dentiera che usa solo quando mangia o quando è costretto a parlare a lungo. Antonio José Bolìvar siamo noi. Di questo dovrò dare spiegazione.
Quel giorno Bolìvar si infilò la dentiera. Alcuni shuar avevano trasportato sulla loro canoa, fino al molo del villaggio, il cadavere straziato di un gringo e per questo rischiavano l’arresto. Il sindaco, infatti, li accusava dell’assassinio dello sconosciuto, ma Bolìvar si infilò la dentiera e spiegò, con molti dettagli, che gli shuar non potevano aver commesso quello scempio per la semplice ragione che il cadavere mostrava con chiarezza i segni degli artigli di una bestia.
Bolìvar conosceva quei segni, come conosceva l’indole degli shuar dai quali era stato raccolto e soccorso quando, colono in terre impossibili, aveva tentato di violentare la foresta e da questa era stato spazzato via insieme alla moglie e agli altri incoscienti che tentarono quell’opera. Visse a lungo con gli shuar e diventò uno di loro, un fratello e un compagno. Ne apprese la filosofia e i segreti e imparò a conoscere la grande madre che li ospitava, li nutriva e di cui facevano inestricabilmente parte: la grande foresta amazzonica. Fino a quando un giorno alcuni bianchi pazzi uccisero un compagno di Bolìvar. Lo vendicò, ma lo fece nel modo sbagliato perché lo uccise e basta, senza il filtro dei rituali che rendono sensata la morte. Senza quel filtro, era una morte e basta, e questo sconvolgeva l’ordine del mondo. Fu costretto ad andarsene, corroso da quel peccato e approdò nella capanna dove lo abbiamo incontrato insieme ai segni della bestia.
Non fu l’unico incontro. Qualche anno prima Bolìvar incontrò un libro e poi una biblioteca nel città di El Dorado. Scoprì di saper leggere, anche se solo sillabando, e quella scoperta segnò il resto della sua vita. Da allora Bolìvar lesse meticolosamente ogni libro che riusciva a procurarsi. Li leggeva con costanza, cercando di penetrarne i significati. Leggeva d’amore, Bolìvar: perché non ne aveva più.
Nei giorni successivi furono scoperti altri segni di morte: era chiaro che la bestia si aggirava nelle vicinanze di El Idilio. Andava eliminata. Quando quel cielo rigonfio come la pancia di un asino cominciò a rilasciare la sua pioggia, il sindaco organizzò una spedizione e Bolìvar fu costretto a farne parte. La bestia lasciava segni di morte e una notte, mentre gli uomini si riparavano dalla pioggia incessante nella capanna di una delle vittime, si manifestò. Una presenza invisibile, denunciata soltanto dai cambiamenti di ritmo della pioggia incessante, dovuti al passaggio di un corpo. Bolìvar riusciva a percepire il ritmo non più uniforme della pioggia e in quella notte, mentre leggeva un libro ai suoi compagni, non cessava di ascoltare la foresta e la pioggia.
È una notte speciale: raccolti intorno a una luce minima, gli uomini ascoltano Bolìvar che legge. Le parole del vecchio sono circondate dalla foresta e dalla pioggia che non smette di cadere; tutti sanno che, in quella foresta e in quella pioggia, la bestia li sta osservando. È tuttavia straordinario come gli uomini tentino disperatamente di formarsi un concetto, di rappresentare ciò che per loro, fino a quel momento, non era neppure pensabile: Venezia. Una città nell’acqua, una città che galleggia come i suoi abitanti, percorsa da strane cose chiamate gondole – forse imbarcazioni? In tutta quell’acqua essi si chiedono come possa una città galleggiare ed esistere. I loro discorsi vanno avanti ore; ognuno dice la sua, ognuno contribuisce alla formazione di quel concetto sconosciuto che comunque si va materializzando all’interno dell’assoluto nero della notte, della foresta e della morte che la bestia propaga.
Un libro, un libro nella foresta, con i concetti che essi rappresentano: questo si forma nella mente, forse per la prima volta, di quegli uomini. È l’indecifrabile frattura che ci costituisce, e che troppo ci affanniamo a dimenticare, che alla fine prende corpo: il nostro essere irrimediabilmente libro e foresta, uomo e animale, concetto e assoluta naturalità priva di forma, fin quando qualcuno non gliene attribuisca una. Quella notte, in quella capanna, per quegli uomini il mondo prende forma intorno a un libro; con esso concetti prima sconosciuti capaci di rappresentarlo.
La storia che Sepùlveda ci racconta è la storia della nostra duplicità e Bolìvar ne è la perfetta incarnazione. Il libro è denso di una poesia impalpabile, ma assolutamente presente. La poesia della vita, nella sua naturale semplicità, fatta di vissuti estremi dal sapore di sublime e di orrore; un sapore che è possibile percepire solo creandone i concetti. Questo accade quella notte; questa la poesia e la storia che il vecchio racconta.
Non occorre parlare del finale; sarà un confronto, ma era già cominciato nella mente di Bolìvar molto tempo prima. La lettura di questo libro è, in apparenza, di una semplicità disarmante e tuttavia questo libro non va letto: occorre farsene penetrare. Non vi affannate a trovare un modo: ci riuscirà benissimo da solo. Il problema sarà uscirne. Per questo ne scrivo.