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Il karma la sa lunga...
Nel 1972 Philip Roth, uno dei più grandi scrittori americani viventi di origine ebraica, pubblicò quello che sarebbe diventato il suo racconto lungo più famoso (non posso sbilanciarmi anche sull’etichetta ‘migliore’ perché non ho letto altri suoi racconti, ma se tanto mi da tanto…).
La storia è di quelle che sbalordiscono per la loro semplicità disarmante capace di portare il lettore ad un alto grado di elucubrazione filosofica.
Il professore di letteratura comparata David Kepesh per un paio di giorni avverte un prurito nelle zone intime che una sera si evolve in uno ‘sfogo cutaneo’. La mattina dopo l’uomo si sveglierà in un’altra condizione fisica: quella che la sera prima era una semplice macchiolina rosa si è trasformata, anzi l’ha trasformato in un grosso seno di ben settanta chili. Incapace di vedere o muoversi, gli unici sensi a rimanere integri saranno la voce (che esce da una linguetta nella parte alta della massa grassa – anche il volto è ormai sparito), l’udito e, dopo le prime ore post-anestesia, il tatto.
Divertente in alcuni passi – soprattutto quelli legati alla componente erotica – e contemporaneamente amaro, il racconto è permeato da un surrealismo di tipo kafkiano e gogoliano, autori dei celebri racconti “La metamorfosi” e “Il naso” spiegati per anni dallo stesso professor Kepesh. Il senso di inquietudine del protagonista deriva dalla condizione fisica in cui egli versa, ma soprattutto dal fatto che probabilmente è sotto osservazione continuamente, e dei medici e della spietata società: ciò lo porta alla riflessione e soprattutto alla rivalutazione del rapporto con gli altri (ad esempio, il padre e la fidanzata che ogni giorno vanno a trovarlo in ospedale lo amano veramente o il loro è solo puro senso di pietà?).
Sta al lettore capire se si tratta della realtà o di un sogno-incubo, oppure ancora di una realtà parallela o di una metafora utilizzata dallo stesso Kepesh. O addirittura del risultato di uno stato di pazzia del protagonista, che più volte nel corso della storia, soprattutto alle battute finali, è portato a credere come l’opzione migliore.
Ciò che emerge di particolarmente interessante è la concezione del karma: il professore accetterà la nuova condizione in cui sta vivendo, proprio perché meritata dopo il tradimento fatto alla moglie che ha portato al divorzio. Era quasi come se dovesse aspettarselo. Ed è così che si delinea un percorso che porta alla presa di coscienza di sé, di quello che si è e di quello che si vorrebbe essere e forse è meglio non diventare.
Infine, Roth ‘chiude’ con una delicatissima poesia di Rilke, “Torso arcaico di Apollo”, in cui il poeta invita non alla conoscenza di sé stessi, quella probabilmente non arriverà mai, nemmeno nei più saggi; aspira invece al cambiamento per una piena maturità. Come il torso mutilato infatti, il nostro essere non raggiunge la perfezione nella sua integrità, ma nel gioco di equilibrio derivante dalle parti (leggasi: qualità) mancanti e da quelle che possediamo. Accettarci per come siamo e mirare alla maturazione, e non alla perfezione, è ciò che vuole suggerirci Roth attraverso la poesia di Rilke. Accettare la straordinarietà della normalità.
“Cominciò stranamente. Ma poteva forse esserci un altro inizio? Si dice che le cose sotto il sole cominciano “stranamente” e finiscono “stranamente” e sono strane; una rosa perfetta è “strana”, proprio come una rosa imperfetta, e come la rosa di normalissimo colore e gradevolezza che cresce nel giardino del vicino”.
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Commenti
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Che Signora Recensione, complimenti cara!!!***
Infatti ho letto "Lettera al padre" di Kafka, ma niente. Nemmeno quello è riuscito a prendermi. Ormai ci ho rinunciato..a Kafka!
Quelli sì che erano....strani tempi.. non dico "bei" ahahahah :D
Darky cara, arriverà il momento della rivalsa kafkiana anche per te, me lo sento! :-D
AHAHAHHAHAH!!!
Vi consiglio di rileggervi le discussioni tra x e Stefano! mi fanno morire.... :DDDD
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Già ho avuto "problemi" con Kafka. Chissà con Roth. :)