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Fuga senza fine
 
Fuga senza fine 2011-06-18 20:27:53 Giovanni Baldaccini
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Giovanni Baldaccini Opinione inserita da Giovanni Baldaccini    18 Giugno, 2011
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Dispersi

Parafrasando un famoso saggio di Claudio Magris, mi chiederò da “dove” Roth fosse “lontano” e verso quali lontananze lo conduceva la fuga senza fine che descrive in questo libro, forse il più autobiografico di tutta la sua produzione. Era lontano da quel residuato bellico rappresentato dal mondo dopo la Grande Guerra; dal poco che rimaneva dell’Europa; dalla sgretolata Casa Asburgica che gli era stata sottratta a forza; da tutti i segni di riconoscimento che gli avevano permesso di vivere e che non esistevano più? “Lontano da dove”, dove conduceva quella fuga senza fine che fu la sua vita e perché era cominciata? Il saggio critico di Magris merita di esser letto e non ripeterò le sue osservazioni. Proporrò le mie e proverò a rispondere a mio modo da “dove” quel “lontano” sia distante.
“Era il 27 agosto del 1926, alle quattro del pomerigigo, i negozi erano affollati, nei magazzini le donne facevano ressa, nelle case di moda le mannequins giravano su se stesse, nelle pasticcerie chiacchieravano gli sfaccendati, nelle fabbriche sibilavano gli ingranaggi, lungo le rive della Senna si spidocchiavano i mendicanti, nel Bois de Boulogne le coppie d’innamorati si baciavano, nei giardini i bambini andavano in giostra. A quell’ora il mio amico Franz Tunda, trentadue anni, sano e vivace, un uomo giovane, forte, dai molti talenti, era nella piazza davanti alla Madeleine, nel cuore della capitale del mondo e non sapeva cosa dovesse fare. Non aveva nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione e nemmeno egoismo. Superfluo come lui non c’era nessuno al mondo” (p. 152).
Questa la fine della fuga, ma come era cominciata? Saputo dal suo fraterno amico Baranowicz, dopo una lunga prigionia in Russia, che la guerra era finita, “Tunda voleva raggiungere l’Ucraina e da Zinerinka, dove era stato fatto prigioniero, la stazione austriaca di confine Podwoloczyska e poi Vienna” (p. 14). Non vi arrivò mai.
A Vienna Tunda non aveva più nessuno. Lo aspettava però, almeno così credeva, la bella fidanzata Irene, di cui Tunda portava cucita nella giubba un’immagine, l’unica che aveva di lei. Quell’immagine lo guidava; quell’immagine era la causa del suo smarrimento.
Nella sua fuga attraverso l’Europa sconvolta, tra la Rivoluzione Russa e Berlino, le prime avvisaglie del nazismo e la continua nostalgia in cui il protagonista si disperde, passando attraverso incontri con figure femminili che è impossibile dimenticare, Tunda giunge a Parigi, dove, per sopravvivere, anche tra i mendicanti occorre avere un protettore. Potrebbe tornare in Russia, dal suo amico “fratello” Baranowicz che gli scrive, avvertendolo che la donna che Tunda aveva durante una delle sue fughe si trovava presso di lui, “Ma non sentiva nostalgia della taiga. Qui, gli pareva, era il suo posto e la sua fine. Viveva dell’odore di marcio e si nutriva di muffa, respirava la polvere delle case cadenti e ascoltava rapito il canto dei tarli” (p 151).
Finché un giorno, in una strada elegante della capitale del mondo, Tunda scorse una donna che si avvicinava. “La donna si avvicinava sempre di più e benché dall’orlo del marciapiede alla soglia della casa dove egli si trovava non fossero rimasti neppure tre passi, gli parve che il suo cammino durasse un’eternità, come se lei venisse da lui, dritta da lui, non in quella casa, e come se lui stesse aspettando quella donna in quel posto da più anni.
Lei si avvicinò, lui guardò il suo caro, bel viso altero. Lo fissò, un po’ risentita un po’ lusingata, come le donne guardano, passando, lo specchio di un ristorante o di una scala, felici di verificare la loro bellezza e di disprezzare il poco valore del vetro. Irene guardò Tunda e non lo riconobbe. C’era una parete in fondo ai suoi occhi, una parete tra la retina e l’anima, una parete nei suoi grigi, freddi occhi risentiti” (pp.148-149).
Neppure Tunda riconobbe Irene, quella Irene che aveva inseguito per anni e che per anni aveva tenuta cucita nella tasca della giubba. Non la riconobbe perché non era quella la Irene che cercava. Il loro incontro si chiude nell’indifferenza e nel risentimento; e non poteva essere altrimenti.
Dunque, lontano da dove? La parete negli occhi risentiti di Irene risponde alla domanda. Lontano da sé. Lontano dall’anima che non riconosceva; da tutto ciò che di più autentico possedeva e lo costituiva, mentre si ostinava a rispecchiarsi in una specie di falsa identità collettiva, rappresentata da un Impero tramontato e disperso dal grande indifferente della storia. Roth era convinto d’esser morto, d’esser sepolto con il suo imperatore nella Cripta dei Cappuccini, mentre era il più vivo tra gli uomini. L’anima irriconosciuta, la sua identità più intima che lo seguiva senza posa nella sua inutile fuga da se stesso, continuava a manifestarsi senza essere riconosciuta. Gli parlava, la sua anima grande, ogni volta che scriveva una parola sulla carta, ma lui non la riconosceva. Come Tunda, l’aveva ridotta a un’immagine sbiadita, inerte, dimenticata, da tenere in una tasca sgualcita della giubba come una reliquia di qualcosa di neppure più pensabile. Come Tunda, il demone distruttivo e nichilista che aveva travolto la sua epoca e cui aveva personalmente ceduto, aveva privato la sua anima di senso; un senso che Roth erroneamente attribuiva a qualcosa che non gli apparteneva se non come austriaco e che ormai non esisteva più, mentre non dava credito all’immagine individuale di se stesso che continuava a manifestarsi attraverso la scrittura dal pozzo di trascuratezza in cui l’aveva relegata. Per questo gli occhi di Irene erano colmi di risentimento; per questo anche la sua anima si dissolse dietro un muro di silenzio sordo.
Roth morì alcolizzato in un ospedale per poveri di Parigi. Aveva preteso di fare della sua anima un mestiere. Questo li ha uccisi.

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