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romanzo di confine
Recensione a “Meridiano di sangue” (1985) di Cormac McCarthy, Einaudi, Torino 1996-1998.
di Alberto Ferrari
Che fare a soli quattordici anni nell’America di metà Ottocento, nel Tennessee rurale dove le montagne si perdono a vista d’occhio, se sei orfano di madre dalla nascita e il padre si sbronza da mattina a sera avendo come una consolazione il ricordo dei versi di vecchi poeti andati? Il ragazzo, protagonista di Meridiano di sangue di Cormac McCarty, un giorno se ne va di casa verso Ovest, dove esiste un turbinio di umanità che vaga nella stessa direzione. Dopo spaventose avventure in cui rischia di morire a ogni istante si trova affiliato a una banda in caccia di apache che agisce al soldo del Messico. Ovviamente la sicurezza del giovane in tale circostante non fa che peggiorare. Questa banda è comandata da un capitano di ventura vittima di crisi di follia, coadiuvato da un essere misterioso che si fa chiamare Giudice, anch’egli un pazzo omicida convinto assertore della bellezza della guerra perché la guerra esalterebbe al massimo grado sia l’azzardo, proprio del gioco omonimo, sia la tensione agonistica, propria di ogni competizione. La banda vaga nei deserti texani-messicani nominalmente a caccia di Gomez, un messicano rinnegato a capo di un gruppo di apache che sta terrorizzando i territori di frontiera. In realtà i “Nostri” si dispongono a uccidere tutti coloro che trovano sul proprio cammino, dopo l’apoteosi sanguinaria ai danni di un intero accampamento apache, con donne e bambini inermi, di cui naturalmente di Gomez e suoi non c’era neanche l’ombra. Questo sembra imporre la legge di chi vive nei territori di frontiera con il compito di fare la guerra, è secondario a chi.
Con gli scalpi apache i “Nostri” tornano in Messico a reclamare mercede. Ma durante il banchetto che il governatore messicano darà in loro onore, complice l’whisky e la fine della lunga astinenza sessuale, i “Nostri” sembrano come impazziti. Ormai incapaci di dominare la sete di violenza, non inferiore al bisogno di whisky, si macchiano di numerosi delitti ai danni di coloro che li acclamavano come liberatori. Costretti a ripiegare verso i deserti di confine, nominalmente sempre alla caccia di Gomez, i “Nostri” mettono a ferro e fuoco tutti i villaggi messicani che incontrano e le carovane dei cercatori d’oro o altro americani.
La violenza per la violenza, così, perché lo vuole la regola di chi si è abbruttito nei territori di frontiera con un compito militare qualunque. Tant’è che dopo aver fatto una carneficina di tutti coloro che hanno incontrato, la furia omicida dei “Nostri” diventa autoreferenziale, cioè arriverà il momento di fare i conti all’interno della banda. Alla fine restano il Giudice e il ragazzo a contendersi la vita. Il primo avendo raggiunto il totale disprezzo per la vita umana, mentre il secondo ancora esitante a colpire alla spalle il Giudice quando se ne presenterà l’occasione, a dimostrazione che nel ragazzo, nonostante gli eventi esterni l’abbiano abbruttito moralmente, c’è ancora una speranza di riscatto etico.
Su questa differenziazione si posa del tempo. Nel senso che passeranno anni prima che i due torneranno a incontrarsi. Il ragazzo è diventato un uomo, non ha smesso di vagare nei territori dell’Ovest, come guida o per fatti propri, mantenendosi ligio a un rigore etico secondo il quale la vita umana ha la sua importanza anche in un contesto in cui, date le circostanze, sembra valere oggettivamente ben poco. Insomma, reagisce solo se provocato, come accade alla fine, quando un giovane, suo alter ego dei tempi che furono, lo provoca fino a costringerlo ad ammazzare.
Un giorno in un saloon incontrerà il Giudice, per nulla cambiato sia nell’aspetto sia nel modi tartufeschi. Siamo ovviamente alla resa dei conti, sul piatto c’è l’atto di clemenza dell’allora ragazzo, dall’altra il Giudice che ha valutato tale atto come un sussulto di debolezza umana del suo antagonista. E in guerra (che fra i due non è mai finita) la debolezza umana si sconta, prima o poi. Ovvero in guerra non c’è spazio per nessuna umanità, sembra volerci ribadire l’autore in questo romanzo di formazione che richiama i romanzi ottocenteschi, per il gran ragionare dei protagonisti sui grandi temi etici, il sale dell’esistenza che ossessiona McCarthy.