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C'è violenza e violenza
Recensione a Cornac Mc Carthy
Figlio di Dio (1973), Torino, Einaudi 2000-2008.
di Alberto Ferrari
C’è un mondo dove gli uomini non riconoscono la legge perché vivono secondo regole primitive e hanno già un gran da fare a misurarsi con una natura ostile. Intendiamoci la legge c’è, ma è terribilmente insufficiente per quel mondo. Siamo nella contea di Sevier, Tennessee, allorché le gesta di Lester Ballard, un poveraccio che si trasforma in killer seriale, stanno passando di bocca in bocca, chiamate a raccolta dalla voce narrante di questo secco romanzo di Cormac Mc Carthy, dove, come al solito, la solitudine dell’uomo nei grandi spazi, la violenza inaudita dei rapporti umani ci vengono restituite con la solita precisione analitica, sulla quale noi lettori affascinati siamo costretti a riflettere.
Che cos’ha di diverso Lester Ballard da quei padri che abusano delle figlie, oppure da quegli altri gaglioffi che, dai tempi del Ku-klux-klan, agiscono in bande a danno di vittime facili, oppure fanno razzie di fucili sfruttando l’alluvione che colpirà la città di Sevierville? Proprio niente. Per assurdo, anche Lester è un figlio di Dio, come commenta una delle tante voci narranti. Senonché la solitudine tremenda in cui Lester anno dopo anno scivola fino alla pazzia ha qualcosa di grandioso. Il Narratore, tirando le fila dei racconti, scorge nella capacità di resistere alle avversità della natura di quest’uomo qualcosa di sublime che ha il sapore dello sberleffo verso gli Dei che tutto determinano. Attraversa un torrente impetuoso senza saper nuotare brandendo il fucile verso il cielo come un eroe da illustrazione, oppure curvo sotto il peso del materasso zuppo, ma riesce a mettersi in salvo. Trascorre un inverno in una caverna, costretto a strisciare nel fango per uscire ed entrare dalla strettoia dell’ingresso, bestemmiando Dio per il freddo e la fame, dopo che la baracca in cui viveva ha preso fuoco durante una tormenta di neve, ma riesce a sopravvivere. La sua consolazione sarà l’amore rubato ai cadaveri di donna che ha appena ammazzato. Alle orecchie di queste donne sussurra tutto quello che non è mai riuscito a dire a nessuna perché nessuna è mai andata con lui. E quando non riuscirà più a trascinare i cadaveri come faceva con il materasso e con gli enormi pupazzi di peluche, trofeo del tiro a segno, perché i tutori della legge lo stanno accerchiando, cercherà nella interiorizzazione simbolica la continuità della passione amorosa. Ballard si aggirerà per le montagne come un animale ferito, vestito degli sgargianti abiti femminili delle sue vittime. Nella disgustosa maschera di rossetto, cenere e fango della sua faccia folle si perpetua la bestemmia umana contro una divinità che, alla fine, sta a guardare, come noi lettori, con gli occhi rossi per lo stupore.