Benedizione Benedizione

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    07 Dicembre, 2020
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Una vita

Ci sono due elementi che aiutano a comprendere il senso dei romanzi di Kent Haruf.
Il primo è dato dalla biografia dell’autore. Figlio di un pastore metodista, obiettore di coscienza durante la guerra del Vietnam, infine docente universitario dopo una lunga serie di altre mansioni ricoperte (bracciante agricolo, operaio edile, assistente in una clinica riabilitativa, bibliotecario).
Dopo aver pubblicato due romanzi di scarso successo, nel 1999, a 56 anni, ottiene un buon riscontro con “Canto della pianura”, primo volume di una trilogia, e decide di abbandonare l’insegnamento per dedicarsi alla scrittura, sulle orme di autori quali Hemingway, Faulkner, Cechov, a cui ha dichiarato di essersi ispirato.
Per molti aspetti, la storia di Haruf ricorda quella di Williams, autore di "Stoner”. Entrambi americani. Entrambi docenti universitari. E soprattutto entrambi non immediatamente apprezzati e caratterizzati da una sorta di rivalutazione postuma.
Il secondo elemento è contenuto in una dichiarazione di Haruf, in una delle sue ultime interviste. “Voglio pensare di aver scritto quanto più vicino all’osso che potevo. Con questo intendo dire che ho cercato di scavare fino alla fondamentale, irriducibile struttura della vita, e delle nostre vite in relazione a quelle degli altri”.

“Benedizione”, seguito dei precedenti episodi “Canto della pianura” e “Crepuscolo”, è stato curiosamente pubblicato in Italia come primo volume della trilogia. Non avendo letto gli altri due romanzi, non saprei dire quanto le opere siano indipendenti tra loro o viceversa strettamente collegate.
Il romanzo è ambientato nella fittizia cittadina di Holt, situata nelle pianure orientali del Colorado. Una piccola località. Pochi negozi, tutti situati lungo la Main Street. Qualche bar. Vaste distese pianeggianti, con le montagne in sottofondo. Campi di grano e mais. Case con la veranda, dove riposarsi nelle serate estive, in attesa di una brezza che rinfreschi spirito e corpo dopo una giornata calda e afosa.
Dad Lewis, anziano proprietario di un negozio di ferramenta, è un malato terminale. Affronta il suo ultimo mese di vita. Viene accudito dalla moglie Mary e dalla figlia Lorraine, con alle spalle un passato doloroso. Attorno a loro si muove una comunità ricca di storie semplici, ordinarie. La vicina di casa Berta May con la nipote Alice, rimasta orfana. La vedova Willa e la figlia Alene. Il pastore Lyle, spedito a Holt per punizione e i cui sermoni pacifisti non trovano terreno fertile nella mentalità della comunità. Detestato dalla moglie e dal figlio, proprio per questa sua incapacità di conformarsi.

È l’America rurale, profonda, religiosa, immutabile. Barricata a difesa del cambiamento, del “diverso”. Dove si respira un sottile velo di pudicizia, di moralismo. “Benedizione” rappresenta una sorta di bilancio, di regolamento dei conti che un uomo, onesto e ruvido, ha con le proprie scelte e con i sensi di colpa che, necessariamente, fanno parte di una vita intera. È una vicenda di luci ed ombre. Accanto a questo strato di rigidità, c’è infatti spazio per la tenerezza, la compassione, la speranza. È una storia di grande dignità ed umanità, che si inserisce perfettamente in una certa tradizione letteraria statunitense (penso, ad esempio, a Marilynne Robinson).

“Prima, davanti al negozio, quando mi sono messo a piangere. Ecco perché sono crollato. Era la mia vita quella che stavo vedendo. Quel piccolo contatto tra me e un’altra persona, una mattina d’estate, dietro il bancone. Scambiare due parole. Tutto qui. E non era niente”.

Haruf tratteggia vite comuni, quasi insignificanti. Ma che, proprio in quanto tali, ci appaiono delicate, indispensabili, vicine.

“Quella sera, dopo che le Johnson furono andate via, Lorraine portò fuori un tavolo e lo apparecchiò in veranda. Berta May e Alice attraversarono il cortile con pane, fagiolini e rapanelli, e si sedettero tutti a tavola nell’aria fresca, Dad Lewis con una coperta sulle ginocchia. Dopo cena, Alice prese la bici per fare un giro in strada. Dad la guardava dalla veranda. Spero che non le vadano addosso. Farai bene a tenerla d’occhio. Il cielo era ormai buio e si erano accesi i lampioni, lei pedalava avanti e indietro, da un cono di luce all’altro”.

È un testo pacato e malinconico, addolcito da una prosa sobria, soffusa. Frasi semplici. Tanti dialoghi diretti, rigorosamente senza virgolette. Come se le parole fossero una delicata e naturale estensione del contesto e dell’ambientazione in cui vengono pronunciate. Un romanzo di cui si fa quasi fatica a parlare, tale è il livello di intimità che si instaura tra le pagine ed il lettore.

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Davide Meloni Opinione inserita da Davide Meloni    20 Luglio, 2020
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L'arte di benedire la propria vita

Si può imparare a benedire la propria vita, così come è? Si può, cioè, “dirne bene”, nonostante tutti i fallimenti e gli errori? È questo il tema del romanzo “Benedizione” dello scrittore americano Kent Haruf, scomparso alcuni anni fa.
Libro di grande bellezza e delicatezza, ambientato, come tutti i romanzi di Haruf, in una cittadina immaginaria chiamata Holt, mette in scena diverse storie che si intrecciano le une con le altre, ma che ruotano in qualche modo attorno alla vicenda umana di Dad Lewis, anziano titolare del negozio di ferramenta del paese e ormai prossimo alla fine della sua vita a causa di un tumore che lo sta consumando.
Proprio a partire dalla scoperta della malattia inizierà in Dad una sorta di resa dei conti, in cui si troverà suo malgrado a confrontarsi con i fantasmi della sua vita, con il male commesso, soprattutto con il rapporto con un figlio mai veramente accettato e con il quale le relazioni si sono chiuse ormai da anni, ma anche con le inevitabili domande di chi desidera che ciò che di buono è riuscito a costruire possa continuare a vivere dopo di lui. Nel raccontare l’ultimo tratto di vita di quest’uomo, l’autore non suggerisce facili soluzioni, né costruisce un quadro narrativo in cui alla fine i conti tornano e tutti i pezzi vanno al loro posto. Riesce tuttavia, pagina dopo pagina, ad aprire tanti spiragli attraverso cui la luce può entrare, mostrando che la vita ha un volto buono, nonostante tutto.
Attorno alla vicenda di Dad si muovono altri personaggi, tutti davvero commoventi, a cominciare dal reverendo Lyle, pastore della chiesa locale, uomo che prende il Vangelo talmente sul serio da procurarsi parecchi guai con i più devoti cittadini di Holt.
Haruf mostra con questo romanzo di essere un ottimo scrittore, capace di scavare a fondo nel mistero della vita attraverso il racconto di vicende assolutamente ordinarie. Come tanti bravi autori contemporanei, riesce, attraverso il racconto di storie particolari, a parlare dello smarrimento dell’epoca che stiamo vivendo, ma anche della struggente ricerca di significato che percorre questo nostro mondo ormai orfano delle “grandi narrazioni” e delle visioni del mondo, religiose e laiche, che per secoli hanno in qualche modo garantito un orizzonte di senso alla storia e alle storie. Non a caso i romanzi di Haruf, (come quelli di altri grandi scrittori contemporanei, si pensi a Marilynne Robinson) si svolgono in una piccola cittadina, ben lontana dal clamore delle grandi metropoli, dai centri di potere, dal rumore che riempie le nostre giornate. Quasi a dire che per cercare il senso bisogna imparare a sostare, a rallentare, a guardare veramente in faccia il prossimo che abbiamo accanto tutti i giorni. Ed è forse questo ciò che rimane nell’animo leggendo gli splendidi romanzi di Haruf: l’idea che la verità della vita si gioca nei rapporti umani. È proprio lì che può avvenire l’incontro con l’assoluto, con Dio.

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topodibiblioteca Opinione inserita da topodibiblioteca    29 Febbraio, 2020
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Piccole e grandi tragedie umane

Capitolo finale della “trilogia della pianura” di K. Haruf. Si ritorna a Holt dunque, in questa immaginaria cittadina nel bel mezzo del Colorado già conosciuta leggendo “Canto della pianura” e “Crepuscolo”, Questa volta però i personaggi sono tutti differenti: non ci sono più i solitari fratelli Mc Pheron e loro azienda agricola, né la loro pupilla Virginia Roubideaux o il professore Tom Guthrie. In Benedizione Haruf introduce nuovi protagonisti ma il marchio di fabbrica è sempre lo stesso: raccontare le piccole-grandi tragedie della quotidianità che gli esseri umani si portano dentro, sempre con grande educazione e pacatezza, senza urlare o andare fuori dalle righe. Che si tratti delle ultime settimane di vita di Dad Lewis destinato a morire di cancro, descritte così dettagliatamente da farle sentire tremendamente reali e vive, piuttosto che del reverendo Lyle e dei suoi sermoni scomodi che scuotono l’intera comunità di Holt e minano alle fondamenta la solidità della sua famiglia, poco importa. In entrambi i casi il lettore entra, prima in punta di piedi e poi sempre più prepotentemente, nelle vite di questi individui, imparando a conoscere i loro sensi di colpa e tutti i rimpianti che si trascinano da anni.
Haruf ha l’indubbio pregio di rappresentare un’umanità molto credibile perché descrive uomini con zone di chiaro-scuro, in cui comportamenti discutibili si alternano e lasciano spazio ad atti di grande generosità, quasi si trattasse di una catarsi, della necessità di espiare le proprie colpe. L’autore non è tenero con nessuno di loro, non giudica e non interviene ma non li risparmia, così come non risparmia nemmeno la comunità cittadina di Holt, mostrando il velo di un’America agricola dura e ipocrita, che non “porge di certo l’altra guancia” come vorrebbe il reverendo Lyle, dimostrandosi anzi ostile nei suoi confronti ed emarginandolo (“Le persone non vogliono essere disturbate. Vogliono rassicurazioni. Non vengono in chiesa la domenica mattina per pensare a idee nuove né tantomeno a quelle vecchie ed importanti. Vogliono sentirsi ripetere quello che gli è sempre stato detto…poi vogliono tornare a casa a mangiare l’arrosto di manzo”).

Chi ha letto anche i due precedenti libri noterà un’evoluzione nello stile di Haruf, in Benedizione. Pur non perdendo alcuni tratti fondamentali come ad es. l’incorporare il discorso diretto con le parti descrittive senza usare il virgolettato, si percepisce una forma meno scarna ed essenziale che lascia spazio a descrizioni di maggiore respiro. Le riflessioni invece, scolpite sulla pagina attraverso le parole dei personaggi, rimangono intense ed importanti: “Mi sono chiesta spesso cosa sia meglio, se trascorrere degli anni con qualcuno che ami e poi dover continuare a pensarci, a fare paragoni,a sentire la sua mancanza…..Oppure che non ci sia mai stata un’altra persona, per non ritrovarsi sempre a ricordare il passato”. Per chi vorrà conoscere la risposta, basta leggere il libro.

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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    25 Aprile, 2019
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L'ultima estate di Dad Lewis

Nel corso di una lunga e calda estate seguiamo Dad Lewis verso il suo ultimo giorno di vita. Dad è un anziano settantasettenne, vive a Holt, immaginaria cittadina del Colorado, dove Kent Haruf ambientava tutte le sue narrazioni. Ad accompagnarlo in questi ultimi giorni di vita ci sono la fedele moglie Mary e l'amata figlia Lorraine. Ad accompagnarlo ci sono anche i fantasmi di ricordi e persone che sono per lui rimpianto o rimorso: in primo luogo il figlio Frank, che non è lì, un'assenza che pesa sul cuore anche se il vecchio burbero non vorrebbe ammetterlo. Le giornate scorrono pigramente ad Holt, e l'esistenza di Dad viene in contatto con le signore Johnson, Willa ed Alene, madre e figlia, brave e generose, che vivono con il loro carico di rimpianti e fierezza, con la piccola Alice, che ha da poco perso la madre per un cancro al seno ed ora vive con la nonna, Berta May, la vicina di casa della famiglia Lewis, con il nuovo pastore, Lyle, che vive la sua missione attraverso l'adesione ai valori evangelici in modo un po' troppo estremo, almeno per gli Stati Uniti in guerra contro il terrorismo.
Vorrei citare la nota del traduttore, Fabio Cremonesi, alla fine del testo : “Ci sono libri che fanno entrare nel nostro campo visivo cose che prima non c'erano e altri libri, più rari, meno appariscenti, che fanno vedere cose che avevamo già sotto gli occhi senza saperlo. Benedizione è uno di questi ultimi e lo è in tutto e per tutto, per le storie che racconta e per il modo in cui le racconta: [...]” Esatto. É proprio quello che potrete leggere aprendo “Benedizione”: esperienze che abbiamo provato tutti, relazioni caratterizzate dalla fiducia, dall'amore, dall'incomprensione, dal rimorso... così umane, vivide e reali che possiamo emozionarci, piangere e sentire pena o vicinanza per questi personaggi immaginari. Una prova grandissima per uno scrittore ed un'autentica soddisfazione per un lettore. Infine, un'ultima osservazione sullo stile di Haruf, così semplice ed essenziale ma così particolare, così efficace nel descrivere ambienti e situazioni e così perfetto nei dialoghi: uno stile fra i migliori in cui mi sia imbattuta. Una lettura bellissima che consiglio ai pochi che non conoscono Kent Haruf e non sono ancora mai stati ad Holt.

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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    26 Agosto, 2018
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La cura

Primo libro della trilogia della pianura (anche se, nella serie originale, questo in teoria dovrebbe essere il secondo libro). Lo stile è particolare, perché sono completamente annullati tutti i segni di punteggiatura tipici dei dialoghi; pertanto il lettore si ritrova in un flusso continuo tra il raccontato e gli scambi di battute fra i personaggi. Questo dà un piacevolissimo senso di immersione. L’autore è un vero maestro dei sentimenti che, forse anche grazie a questo suo particolare stile, affiorano spontaneamente. Emergono da soli dalle pagine perché il lettore entra un po’ in esse, per ritrovarsi, per capire, per interagire in un mescolamento continuo. La parte che ho amato di più, sentendola fin nelle ossa, il modo con cui una moglie ed una figlia accompagnano il marito/papà negli ultimi suoi giorni di vita. In questo racconto emerge prepotente la preziosa normalità che si vorrebbe come congelare, anche se la lentezza con cui la storia viene narrata quasi quasi ci riesce. E forse, più di qualsiasi altro aspetto, ho amato la cura e le attenzioni che queste donne riversano su di lui, con una semplicità di sentimenti e con un amore che mi hanno toccato nel profondo.

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Belmi Opinione inserita da Belmi    29 Novembre, 2017
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Verso la fine

“Se ne stava seduto nella veranda davanti a casa, sorseggiando una birra e stringendo la mano della moglie. Il fatto era che stava morendo. È di questo che parlavano. Prima della fine dell’estate sarebbe morto. Entro l’inizio di settembre quel che restava di lui sarebbe stato ricoperto di terra nel cimitero tre miglia a ovest della città. Qualcuno avrebbe scolpito il suo nome su una pietra tombale e sarebbe stato come se lui non fosse mai esistito”.

Dopo aver letto “Canto della pianura” e “Le nostre anime di notte”, eccomi con un altro libro di Haruf. Un autore che si distingue bene per il suo stile e per le tematiche scelte soprattutto nel modo di trattarle.

Siamo come sempre a Holt e stiamo accompagnando Dad Lewis verso la fine. Dad non è solo, con lui ci sono la fedele moglie e la figlia, ma la morte è comunque una cosa che si affronta da soli. La sua non è una morte accidentale, di quelle non prevedibili dove un momento ci sei e l’altro non più. Dad sa di avere poco tempo e quando senti l’orologio continuare a battere e la tua fine avvicinarsi, i pensieri si affollano nella mente. Una vita la sua che può sembrare come molte altre e proprio per questo non sempre è stata perfetta. Sono molti gli sbagli cui Dad vorrebbe porre rimedio, ma come tali sa che ormai il tempo è passato, ma questo non limita il dolore che prova.

Come ogni cittadina che si rispetti, sono molte le persone che si avvicinano alla famiglia nel momento del dolore, ma ognuna di esse porta con sé qualcosa, anche il loro “bagaglio” non è leggero. Fra gli altri spicca sicuramente la figura del reverendo Lyle.

“Che tempo fa oggi fuori? Ancora troppo caldo?
Dicono che verrà a piovere, rispose Lyle.
Potrebbe. In effetti sta diventando scuro.
Ai contadini non farà piacere, vero papà? Disse Lorraine.
No, se devono mietere il grano. Per quelli che coltivano mais fa lo stesso.
Sembra una specie di benedizione, una benedizione a doppio taglio, disse Lyle.
Dad lo guardò. Eh, sì. Un sacco di volte le benedizioni non sono andate per il verso giusto”.

Un Haruf che continua a sorprendere per la semplicità dei suoi protagonisti e per i temi scelti. Vivo da trent’anni in una corte e capisco bene le dinamiche “delle piccole comunità” e mi ritrovo pienamente nelle sue parole.

Rispetto agli altri l’ho trovato leggermente meno piacevole, rimane comunque un libro di altissimo livello.

Buona lettura!

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    23 Agosto, 2017
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E' la vita, semplicemente

Ha un’abilità rara, Kent Haruf, a descrivere la vita nella sua complessità, al punto da semplificarne ogni passaggio, ogni momento di crisi o di speranza, perché è l’esistenza dell’uomo semplice che gli interessa, di quei tanti “uno qualunque” di cui è popolato il mondo.
Come in “Canto della pianura”, anche in “Benedizione” ci troviamo a seguire le vicende di alcuni abitanti della cittadina di Holt, luogo immaginario situato in Colorado.
Vita e morte, lotta e resa, desiderio di riscatto e di perdono sono al centro di questo romanzo toccante e coinvolgente. E’ il momento d’un bilancio finale per Dad, che trascorre con dignità e consapevolezza gli ultimi giorni della sua vita circondato dall’affetto di una moglie devota e di una figlia affettuosa, che lo accompagnano fino al momento del doloroso inevitabile distacco. È in questi momenti che l’uomo trova il coraggio di essere sincero con se stesso e di riconoscere gli errori commessi. Così Dad non può più ignorare di essere stato colpevolmente intollerante verso la diversità del figlio Frank, che, sentendosi emarginato già in seno alla famiglia, si allontana per non fare più ritorno. E di intolleranza e intransigenza Dad si è reso colpevole anche nei confronti del commesso del suo negozio che lo aveva derubato. È in questi momenti che ciascun individuo vorrebbe riacquistare un po’ di umanità e di indulgenza, ma giunti al traguardo non si può tornare indietro, si può sperare solo in una “Benedizione”. Non a caso Haruf inserisce prima dell’inizio del romanzo questa definizione: Benedizione, atto con cui si consacra, invocazione di beatitudine.
Il problematico rapporto generazionale tra padri e figli coinvolge anche il personaggio del reverendo Lyle e suo figlio John Wesley, ma ciò che appare assai interessante in questo romanzo è l’attualità del sermone di Lyle che scatena le ire della comunità intollerante essa stessa e non disposta a porgere l’altra guancia.
“Se dicessimo ai nostri nemici: Siamo la nazione più potente della terra. Possiamo distruggervi. Possiamo uccidere i vostri bambini. Possiamo trasformare le vostre città e i vostri paesi in un ammasso di rovine, e quando avremo finito non riuscirete più nemmeno a ricordare come erano prima. Abbiamo il potere di togliervi l’acqua e prosciugare la vostra terra, di privarvi delle basi dell’esistenza [……] Ma se invece dicessimo: State a sentire, invece di fare queste cose, vogliamo farvi dei doni, di nostra iniziativa, con generosità. Tutto il denaro pubblico degli Stati Uniti, tutto l’impegno e le vite umane che avremmo impiegato per distruggere, vogliamo impiegarli per creare”.
Tutto il romanzo è basato sul concetto della tolleranza, sulle possibilità che la vita offre a ciascuno di vivere in pace e sulle occasioni perse per realizzare un sogno di convivenza serena nell’ambito delle più piccole e delle più grandi comunità, fino a coinvolgere il mondo intero troppo preso in un disastroso gioco al massacro.
Nel tono malinconico dell’opera ispirato da un profondo senso di rimpianto si coglie tuttavia un accenno di speranza per un futuro migliore.


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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    10 Luglio, 2017
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Così è la vita

Holt in Colorado, una cittadina rurale che probabilmente non esiste, ma che è in tutto e per tutto simile ad altre piccole realtà degli Stati Uniti; in questo luogo, lontano dai richiami delle grandi città, come Denver, che nel romanzo ogni tanto appare, si consuma l’esistenza dei suoi abitanti, senza scossoni, senza velleità, ma anche senza particolari patemi, assenti per una sorta di innata rassegnazione. Lì si nasce, si cresce, si fa sesso, si invecchia e si muore, nè più né meno come in ogni altro posto del nostro pianeta e in sé le storie dei suoi abitanti non avrebbero nulla di particolare o di interessante se a raccontarle non fosse un artista di grandissimo talento che risponde al nome di Kent Haruf. Giunto al successo piuttosto tardi questo narratore che taluni tendono a paragonare per la sua scrittura asciutta a Hemingway, ma che io credo possa essere meglio comparato per lo stile sì senza fronzoli, ma incalzante, a Faulkner, ha stilato un trittico di opere a cui è stato dato il titolo di Canto della pianura. Certo lì montagne non ce ne sono e forse canto può apparire un po’ pretenzioso, ma se guardiamo la straordinaria umanità con cui Haruf ha disegnato i suoi personaggi, esseri umani normalissimi, ognuno con un suo segreto, devo riconoscere che è riuscito a confezionare un romanzo capace di toccare le corde più sensibili di ognuno di noi, senza enfasi, senza stimoli assidui, ma semplicemente narrando di protagonisti che non sono né eroi, né martiri, sono semplicemente vite che appaiono in strade polverose e scompaiono nelle stesse. A fronte di un soggetto principale, Dad Lewis, non più giovane, anzi anziano, che si appresta al commiato definitivo dalla sua famiglia, perché il male di cui soffre è incurabile, compaiono altri personaggi, nessuno inferiore e nessuno superiore agli altri: la moglie, che non si rassegna alla futura perdita, la figlia, che per l’occasione è tornata alla casa dei genitori e che porta con sé il dolore per la scomparsa della sua bambina investita da un’automobile, le vicine di casa, di cui le dirimpettaie sono una nonna vedova con una nipotina orfana, un’anziana madre, pure vedova, e sua figlia, ormai incamminata verso un sicuro zitellaggio dopo una combattuta storia d’amore con un uomo sposato, il pastore Lyle, esiliato in una parrocchia minore perché, fervido credente, cerca di praticare alla lettera, e invita a farlo anche gli altri, quanto c’è scritto nel Vangelo, attirandosi le ire di non pochi fedeli e, soprattutto, della moglie e del figlio, che lo considerano un buono a niente. Le loro storie si sviluppano, si dilatano, finiscono per venire a contatto e, senza essere travolgenti, riescono ad avvincere al punto che l’immaginazione sembra quasi materializzarsi. Alla fine il povero Dad lascia questo mondo, come era logico, ma non c’è niente di drammaticamente commovente, perché Haruf sembra dire che la vita è così: si nasce, si cresce, si muore, perché non siamo che di passaggio. Dopo verranno altre genti, altre stagioni, in un ciclo senza mai fine.
E’ un romanzo senz’altro stupendo e che lascia alla fine il lettore in uno stato di appagante serenità.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    09 Marzo, 2017
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Brava gente

La prima cosa che colpisce del testo è la scrittura. Tutto passa attraverso i dialoghi, curatissimi alla Cormac. La cura vuole essere invisibile, non pesare in nessun modo sul testo per cui i dialoghi sono estremamente semplici, essenzializzati. Attraverso questa apparente semplicità l'autore riesce a far passare la vita non solo di una famiglia ma della comunità di Holt, rendendo l'idea di rapporti tra le persone molto positivi dove il male del mondo si insinua a fatica passando attraverso strade non di malvagità e di violenza ma soprattutto di diversità (Frank, il figlio omosessuale; la ragazza un po' troppo svelta, il commesso con le mani lunghe che si pente subito appena scoperto, la chiesa locale ipocrita a parte il prete). Insomma lo stile Cormac è applicato a una visione del mondo anti-Cormac, senza la violenza e la cattiveria di Cormac, ma con la dolcezza di A. Tyler. Il risultato è piacevole, rasserenante. Non è male vedere le cose in questo modo un po' ovattato ma forse non troppo, pensare che rapporti umani di questo genere sono, perchè no, possibili.
Il tutto reso lirico da una vena di malinconia che percorre il romanzo grazie soprattutto a uno dei protagonisti, Dad, negoziante in fin di vita, che guarda le cose con l'ottica di chi sta per lasciarle e sta stendendo un bilancio della propria vita.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    08 Febbraio, 2017
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Morte e vita tra rimpianto e rimorso

Holt, Colorado. Per il settantasettenne Dad Lewis, storico proprietario del negozio di ferramenta, non vi è più molto tempo; un tumore ai polmoni lo sta lentamente ma inesorabilmente consumando. Ed è tra le amorevoli cure della moglie Mary e della figlia Lorraine – già provata e privata dell’affetto più grande – che ripercorre pian piano quelli che sono stati gli errori più eclatanti del suo ciclo su questa terra; scelte e decisioni dettate dall’orgoglio, dalla paura di staccarsi ed opporsi a quel che è consuetudine, dal timore del diverso; scelte e decisioni il cui prezzo è stato la perdita del rapporto col secondogenito, Frank.
Al contempo, nella cittadina, giunge la piccola Alice, nipote di Berta May ed orfana di madre e padre. Con i suoi otto anni, la bambina finisce con l’essere un catalizzatore di energia, attrae inesorabilmente tanto Lorraine, a cui la figlia è stata sottratta da circostanze avverse, quanto Alene e Willa Johnson, private, la prima dell’amore e della felicità, la seconda relegata alla vita casalinga quando avrebbe desiderato continuare ad insegnare. Gli anni sono così trascorsi, tra perdite, rimpianti e privazioni; elementi, questi, che hanno condizionato le sorti di ognuno.
Ed è sempre in questa torrida estate che nella realtà di provincia fa il suo ingresso il reverendo Lyle, uomo di fede che a causa delle sue idee si era già visto costretto a lasciare Denver. Rifiutandosi di rinunciare ai suoi principi anche nella nuova destinazione a cui viene delegato, il funzionario di Dio, finirà con lo scontrarsi con l’irriverenza e la rigidità di una mentalità legata indissolubilmente alla tradizione, al costume, e dunque refrattaria di ogni possibilità di diversa visione del dogma precostituito. Conflitti esterni questi, a cui se ne sommeranno altrettanti appartenenti alla dimensione familiare, precario è il rapporto con la moglie, complesso quello con il figlio, accecato dall’odio.
La consapevolezza dell’inevitabilità, degli errori compiuti, l’assenza di certezze, affetti, di una possibilità di futuro, la delusione per quel che è stato e per quel che non sarà, relegano i protagonisti di “Benedizione” ad una condizione ineludibile di solitudine. Vani i tentavi di riacciuffare quell’occasione perduta, di modificare quella parola inappropriata detta, quella reazione eccessiva, quella freddezza inappropriata. Il tempo non perdona, la vita non concede seconde possibilità.
Ed è proprio Dad, nella sua qualità di prossimo alla morte, la massima – ma non unica – espressione di ciò. La coscienza di quella clessidra che ormai ha esaurito tutta la sua sabbia lo induce a cercar di riafferrare, tra rimorso e rimpianto, una chance di fatto inesistente, lo porta a quell’ultimo gesto di carineria verso gli unici destinatari possibili: i conoscenti. Un canto della memoria scandito dall’attesa e dalla lentezza, un canto in cui si alternano le varie stagioni dell’esistenza rappresentate dal dolore di protagonisti di età diverse, taluno atto ed investito del compito di rappresentare una ferita ancora sanguinante.
Le domande restano sospese tra il calore dell’estate che si abbandona al grigiore dell’autunno, al freddo dell’inverno ed ancora e nuovamente alla mitezza della primavera; domande queste, congelate, pendenti, irrimediabilmente irrisolte. E detti interludi sospesi, inattesi, sopraggiunti in ritardo, conducono chi legge in un universo fatto di oniricità, emozioni, sensazioni sfuggenti, occasioni sottratte, in un mondo dove il giudizio non è contemplato perché sopraffatto dall’attesa del quel moto scatenante, di quell’evento capace di rompere la cadenziarietà della condizione di appartenenza.
Primo capitolo edito in Italia, eppure episodio a sé stante della trilogia della pianura, “Benedizione” segna, col suo epilogo, l’inizio di un’altra storia, dove in parte non vi è un legame apparente con i personaggi precedentemente conosciuti e dove è lasciato spazio al quel che sarà tanto per chi si sarà perso, tanto per chi ritroverà l’abbraccio delle persone amate e quanto per chi deciderà di andarsene per mai più fare ritorno.
E seppur il tema narrato sia ben preciso e sin da subito inquadrato in quello della morte a cui si giunge, nel caso fisico, dopo una lunga malattia e, in quello mentale, a fronte del rimorso e della sconfitta per quegli amori ormai perduti, l’opera cela e si apre a tante altre problematiche; problematiche che sono stratificate nel volto della provincia americana, nelle lacrime e nelle rughe dei visi di ogni individuo, consacrandosi in quelle contraddizioni innate nell’umanità.
Il tutto è avvalorato da una voce narrante ammaliante, lirica, priva di qualsivoglia giudizio, una voce capace di suscitare malinconia e, in questo caleidoscopio di emozioni inafferrabili, riflessione nel lettore.

«Dad lo guardò. Cristo, disse. Ma tu cosa sei?
Sono soltanto tuo figlio. E’ tutto quel che sono» p. 84

«Ecco perché sono crollato. Era la mia vita quella che stavo vedendo. Quel piccolo contatto tra me e un’altra persona, una mattina d’estate, dietro il bancone. Scambiare due parole. Tutto qui. E non era niente» p. 113

«Sei fortunata. Non sono in tanti ad avere ciò che hai avuto tu. Oppure non se ne accorgono. Ci si accontenta speso di qualcosa che gli somiglia, pur di non restare soli» p. 114

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68 Opinione inserita da 68    17 Settembre, 2016
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Il canto dell' esistenza: epilogo e rinascita

Ricordi e rimpianti accompagnano la fine di una vita e segnano il ritorno dei fantasmi di un passato mai dimenticato tra illusioni, delusioni, speranze, dolori ancora vividi e certezze da tempo consolidate.
Dad Lewis, vecchio proprietario di uno dei negozi più conosciuti ad Holt, e' alla fine dei suoi giorni, affetto da un male incurabile, ha perso da molti anni l' affetto figliale di Frank, e negli ultimi soffi vitali è accudito dalla amorevole e compassionevole moglie Mary e dalla figlia Lorraine, alla quale anni prima un destino crudele ha tolto la gioia più grande.
Il reverendo Lyle, da poco trasferitosi a Holt con la famiglia, affronta il proprio radicalismo predicatorio scontrandosi con il rigore e l' irriverenza della comunità, Alice e' una ragazzina orfana di madre che vive con la nonna, Alene una donna sola, intristita dagli anni e dal rimpianto di un amore perduto.
L' assenza di certezze, affetti, desideri, l'abbandonarsi a pensieri cupi, un senso di solitudine interiore, la voglia di riacciuffare e rianimare una vita da tempo sfuggita e segnata sono i temi di " Benedizione ", ultimo capitolo della " Trilogia della pianura ( il primo edito in Italia ).
La fragilità dei protagonisti li accomuna in un canto della memoria ed in un percorso che scava nel passato di una vicenda scandita da attesa e lentezza.
I personaggi entrano in scena specchiandosi nelle diverse stagioni dell' esistenza, incrociano volti dimenticati, ricordano storie dolorose, si pentono degli errori commessi, rimpiangono figure scomparse.
Dad si erge a protagonista, sa che a breve morira' ed è questa terribile e improrogabile certezza a spingerlo in un ultimo disperato tentativo di riacquisire gli affetti negati e rimpianti, scacciando le ombre del passato, ma ormai è troppo tardi.
Non gli resta che abbandonarsi ad un flusso di inaspettato candore, lui da sempre così burbero, in uno slancio amorevole indirizzato agli affetti più cari ed a quei conoscenti accorsi al suo capezzale per un ultimo saluto consolatorio.
La narrazione scorre lenta su Holt, paesaggi ingrigiti annunciano tramonti interminabili, le stagioni cambiano, senza cura, il caldo soffocante si abbandona a lunghe giornate nevose, ma il tempo della memoria e dei sentimenti si è fermato e molte domande rimarranno irrisolte.
Volti rigati, segnati dalle lacrime dei ricordi e dalla pioggia incastonata nelle pieghe di un paesaggio sonnacchioso su una tela dai colori tenui, diafani, solo accennati, dialoghi che prediligono il silenzio ed emozioni sottratte, in uno scambio minimale di sensazioni fuggenti.
Eppure, in questa sospensione spazio-temporale, che vede l' autore astenersi da qualsiasi giudizio, emerge una voce suadente, ammagliante, una narrazione che ci introduce in un universo di sofferenze, e di emozioni, con pochi tocchi, essenziali, affacciandoci su un palcoscenico ( la vita ) dove poco accade, visivamente, molto a livello sensoriale, in attesa di un evento definivo ed espiante.
Prevale una sensazione di attesa, tra respiri solo accennati, variazioni cromatiche e sensoriali, apnee del profondo, visioni oniriche, persino le tende della camera seguono le poche ondulazioni presenti.
L' epilogo segna l' inizio di un' altra storia. C' e' chi se ne andra' per sempre e chi, perdutosi momentaneamente, ritrovera' la strada di casa e l' abbraccio delle persone amate.
" Benedizione " e' un capitolo a se' della " Trilogia della pianura ", non ha un legame apparente con i personaggi e gli accadimenti dei precedenti ( ma alcuni di essi sono ricordati nel testo).
È un percorso espositivo in parte mutato, il lirismo, i dialoghi fitti, a tratti il ritmo incalzante e la vivacita' del passato divengono essenzialita', sottrazione, secchezza stilistica ed espositiva.
Si affronta una preciso tema, la morte, a completamento di un ciclo vitale e narrativo che ha posto al centro del racconto la nascita in " Canto della pianura " e relazioni affettive consolidate in "Crepuscolo".
Al termine della lettura un senso chiaro e preciso si compie, una sola indiscussa protagonista svetta e si mostra, la comunità' di Holt, madre e figlia, moglie ed amante, amorevole e violenta, dolce ed amara, volto scavato e tumefatto di una provincia americana con radici profonde e contraddizioni evidenti.

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"Canto della pianura "
" Crepuscolo "
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