Numero Zero Numero Zero

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    05 Settembre, 2019
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Le spire della disinformazione

Recensione in una cartella

Sono legato a Umberto Eco per più di un motivo e per questo mi costa abbastanza questo commento. “Numero zero”, ultimo romanzo da lui scritto, riassume e condensa molti temi cari all’autore: le teorie del complotto, il ciarpame della falsa informazione, le tecniche della manipolazione e della mistificazione del vero. Quello che era un tema collaterale di “Il cimitero di Praga”, libro secondo me ingiustamente criticato, è qui cuore stesso di un romanzo al solito ironico e sardonico, che imbastisce in fretta, col tono scanzonato di chi può ironizzare sulle questioni più serie, la storia di un pugno di giornalisti e diseredati impegnati nella realizzazione di un numero zero, primo numero di un giornale, del tutto arbitrario e piegato agli interessi del potere. Nel mezzo il solito gusto per il citazionismo, per il feuilleton ottocentesco, per una certa inclinazione mon chéri che provano a dare corpo a una trama esilissima. Io credo che questo “Numero zero” sia forse da leggere più come un compendio di difesa dalla manipolazione dell’informazione che come un romanzo vero e proprio, se è vero che in nessun punto il libro dimostra forza narrativa o mordente. Certo si sorride, a volte si impara anche molto su dinamiche altrimenti oscure, ma manca il godimento puro della penna, quella stessa veemenza compositiva che Eco riconosceva a Dumas. Detto altrimenti, Eco sfilaccia “Il pendolo di Foucault “e “Il cimitero di Praga”, il suo “Costruire il nemico” e altri saggi in un breviario, mi si conceda, un poco tirato via, come se allo scrittore non interessasse più la storia, ma solo un insegnamento. Peccato il libro sia così didascalico e chiaro, peccato manchi il consueto, meraviglioso peregrinare nei labirinti della storia. Libro intelligentissimo, ma tutto lì. Un canto del cigno in tono minore.

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catcarlo Opinione inserita da catcarlo    10 Agosto, 2015
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Mah...

Forse, la scelta migliore sarebbe ignorare l’etichetta ‘romanzo’ che campeggia all’inizio di queste duecento smilze paginette (pure scritte larghe). Abituati agli stratificati tomi narrativi che si sono succeduti da ‘Il nome della rosa’ in poi, si prova infatti un po’ di imbarazzo: non che quelli fossero privi di difetti, soprattutto nella parte narrativa, ma l’impressione che questo libro dà al confronto è di essere stato tirato via attraverso il riciclo di vecchi temi in versione light. Impossibile evitare il déjà-vu lungo la dissertazione dedicata ai vari ordini templari farlocchi in alcune pagine che sembrano una riproposizione liofilizzata di quelle de ‘Il pendolo di Foucault’: del resto, il racconto è contrassegnato da un complottismo ai limiti della paranoia che è da sempre uno dei temi su cui l’autore si diverte a variare. Considerando invece i vari capitoli come una serie di ‘Bustine di Minerva’ allargate e dedicate in special modo al mondo del giornalismo visto nei suoi aspetti meno nobili (ovvero come confezionare un foglio disonesto pur essendo all’apparenza irreprensibile), l’operazione finisce per funzionare meglio: ci si gode il citazionismo spinto che si rifà in modo indifferente a mondi ora dotti ora popolari, la lieve prosa spesso e volentieri con il sorriso sulle labbra, le veloci digressioni e, soprattutto, la capacità di giocare con l’esistente utilizzando di preferenza i suoi aspetti più banali, ad esempio ribaltando i luoghi comuni oppure nei paragrafi dedicati alla decrittazione degli annunci matrimoniali che si rivelano come i più godibili in assoluto. La resa complessiva tradisce così le premesse perché la sottile ma tutto meno che seriosa inquietudine del primo capitolo fa pregustare atmosfere e svolgimento che poi non si concretizzano: ecco invece la storia di un gruppo di giornalisti radunati da un direttore senza scrupoli per la preparazione di un giornale che sappia indirizzare l’opinione pubblica edito da un danaroso imprenditore milanese (chi sarà costui, visto che l’ambientazione è nella Milano di inizio anni Novanta?). Mentre sviluppa una storia d’amore tra perdenti (altro leit-motiv di Eco) di tenue per non dir nullo interesse, il protagonista Colonna viene trascinato dal collega Braggadocio nei vicoli tra via Torino e piazza San Sepolcro dove, in un trani un po’ vero e un po’ rifatto, parte una lunga digressione sugli ultimi giorni di Mussolini che, pur in varie parti interessante, finisce per occupare un peso sproporzionato nell’economia complessiva, visto anche che domina il capitolo più lungo del libro. Anche il finale, malgrado delitti e fughe, non sa coinvolgere e il lettore chiude il volume con la vaga impressione di essere stato preso per i fondelli: anche se l'operazione fosse solo una scusa per far riemergere ancora una volta quegli olezzanti misteri d’Italia (ci sono proprio tutti) che, si sa, riescono spesso a superare la fantasia del più ostinato dietrologo, penso si possa dire in tutta tranquillità che questa volta la ciambella di Eco non è venuta con il buco. A meno che – gomblotto! – non sia opera di qualcun altro intenzionato a screditarlo…

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cosimociraci Opinione inserita da cosimociraci    07 Agosto, 2015
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Il sosia

Numero Zero rappresenta un insegnamento che spinge il lettore a verificare notizie poco certe e a stare più attento a cosa legge.
Sapientemente ambientato nel '92, agli inizi di Tangentopoli - da li a due anni ci sarà l'avvento in politica di Berlusconi - il tutto è raccontato in una pittoresca rappresentazione di una testata giornalistica che si eleva a strumento di disinformazione. Insomma, uno sfogo su come non deve essere un giornale.
E' quasi agghiacciante il linguaggio - volutamente - politicamente scorretto negli ambienti giornalistici, uno fra tutti la discussione sull'omossessualità che viene raccontata in modo irripetibile.

Tutto sommato lo considero un romanzo interessante ma non avvincente. Complotti, dietrologie e falsi miti tirano le file del romanzo al cui contorno c'è una tiepida storia d'amore forse più interessante del sosia di Mussolini.

Mi domando se la verità sia nel mezzo se leggendo Sconsacrato di Jonathan Holt viene citata l'organizzazione Gladio ma attributa alle schiere comuniste.

Infine condivido la considerazione dell'autore in cui dice che alcuni paesi del sud America sono migliori del nostro poiché tutti i traffici sono alla luce del sole e almeno non c'è ipocrisia.

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Todaoda Opinione inserita da Todaoda    23 Giugno, 2015
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100 metri nella semiotica

Un romanzo originale ed intelligente che per ambientazione, tematiche, ritmo narrativo e stile crea un punto di rottura rispetto alle precedenti opere di Eco. E’ Numero Zero infatti un’opera svelta, quasi verrebbe da dire affrettata, ma che ciò non di meno sviluppa e approfondisce tematiche quanto mai importanti e attuali: il giornalismo, la stampa e la comunicazione, o meglio come viene prodotto, elaborato e percepito, il messaggio, i messaggi, che ogni giorno tv, radio, computer e agenzie d’informazione ci trasmettono; e approfondendo queste tematiche le analizza, seppur con rapidità, accuratamente, spiegandocene, talvolta in tono ironico, talvolta in tono serio, le dinamiche, le metodologie, e persino alcuni “trucchi del mestiere.”
Quali possono essere i motivi per dare maggior rilievo ad un articolo di giornale rispetto ad un’altro, quali possono essere i motivi per unire, dividere, escludere o includere una notizia, sia essa presentata sotto forma di articolo, di servizio televisivo, o perfino come opinione di un presunto esperto? E soprattutto quali sono i modi, i trucchi, gli stratagemmi, per ottenere il risultato desiderato? Meglio usare certe parole rispetto ad altre, certi caratteri, certe forme verbali, certe impaginazioni? Eco in questo romanzo, poiché non dimentichiamocelo pur sempre di romanzo si tratta, ci svela questo ed altro sguazzando amabilmente nella dottrina che per anni è stato il suo cavallo di battaglia: la semiotica, ovvero propriamente la “scienza umana che si occupa dello studio di tutti i segni che servono per la comunicazione” (cit. Il Sabatini Coletti Diz. Della Lingua Italiana). E non è un caso che il verbo qui utilizzato sia “sguazzare” poiché traspare tra le righe il grande divertimento che l’autore trae dalla possibilità di poterci insegnare come plasmare una notizia nella maniera più opportuna; si percepisce il suo piacere, quasi ce lo si immagina con un largo sorriso a premere sulla tastiera al ritmo di un tic al decimo di secondo - adesso aggiungo questo, poi dico quest’altro... - e man mano che la storia si sviluppa, aumenta anche il suo diletto: perché non inserirci un bel complotto in quella nostalgica Milano degli anni ‘90? Perché non infilarci delle belle atmosfere cupe tra le strette vie di Brera o quelle case rustiche e così romantiche dei navigli, e perché non metterci anche un paio di personaggi bislacchi, una bella donna tanto frizzante quanto insicura e un protagonista, perdente nato, che col suo cupo sarcasmo, cupo quanto le viuzze, tinge tutto di noir? Un noir di quelli però all’italiana, senza machismi e sparatorie alla Dick Tracy e al loro posto della buona e sana logica! E infine perché non inserire come perno di tutta la storia, una sorta di “mistero nel mistero”, il mistero ovvero di un fatto che in fondo potrebbe essere realmente accaduto dentro al mistero del saper produrre una notizia creandola magari da zero, dal nulla..., un bel fatto storico insomma in qualche modo innovativo, come può esserlo per esempio quello di Mussolini che in realtà non è stato fucilato a Giulino di Mezzegra sul lago di Como ma per vie traverse è riuscito a scappare all’estero? (Non si svela nulla dal momento che dopo meno di un giorno dall’uscita del romanzo e forse anche prima, ovunque si leggeva che questo fosse uno degli argomenti principali del romanzo). Perché non mettere dunque tutto questo, in fondo è divertente.
E lo è veramente! Lo è, come si è detto, per l’autore il cui diletto traspare nella scrittura e lo è per il lettore che riesce, grazie ad un ritmo a dir poco serrato ma ad una prospettiva sempre distaccata, a farsi coinvolgere da una trama originale senza tuttavia smettere di far funzionare la testa e apprendere, imparare la lezione che “il professore” con leggerezza gli impartisce: non conta cosa è successo ma come è stato riferito poiché tutto può essere sempre il contrario di tutto.
Sarà vero quanto si narra? Sicuramente verosimile, plausibile… Sarà per quel motivo o per quell’altro o quell’altro ancora che la vicenda del “nostro” protagonista è finita come è finita? E il giornale che doveva contribuire a creare? Perché volevano veramente crearlo e chi invece non voleva che fosse pubblicato? Numero Zero è davvero tutto e il contrario di tutto, e così ne è anche la confezione che vuole venga catalogato come romanzo ma che leggendolo poi si scopre che sono tante e tali le nozioni in esso contenute che potrebbe passare tranquillamente anche come saggio, un saggio di divulgazione, ed anche, come in molti ormai l’han già definito un manuale: il manuale del cattivo giornalismo.
Un’osservazione finale in ultimo è d’obbligo farla nei confronti dell’ambientazione della vicenda così differente a quelle a cui ci ha abituato l’autore (è dai tempi del Pendolo di Foucault infatti che non scriveva un romanzo contemporaneo): ambientare una storia in una città che tutti bene o male conoscono e in un tempo che tutti bene o male (almeno quelli che di solito leggono Eco) ricordano può essere un’arma a doppio taglio: se da un lato è senza dubbio affascinante poiché risveglia ricordi forse freschi, forse sopiti, nel lettore, del tipo “ah si dov’ero io quel giorno del 92, cosa stavo facendo?” e via dicendo, dall’altro può creare una sorta di distaccamento, in primo luogo poiché la memoria del lettore per forza di cose è differente da quella dell’autore (vita, esperienze, conoscenze differenti) e dunque il ricordo, l’impressione, nostalgica o meno del tempo filtrata dal nostro, chiamiamolo, bagaglio culturale individuale, potrebbe farci dire “no quella non era la Milano del ‘92, non era così, sbaglia.” In secondo luogo poiché proprio perché l’ambientazione temporale è prossima alla contemporaneità viene a mancare di fatto quell’elemento che tutti i romantici della letteratura (parlo dei lettori non degli scrittori, di coloro ovvero che leggono perché vogliono sfuggire per qualche minuto ogni giorno alla realtà quotidiana senza ricorrere a composti chimici diversamente salutari) hanno imparato ad apprezzare e vanno cercando appena odono il nome dell’autore: il volo nella storia, quella sorta di teletrasporto guttenberghiano che con il prodigio dei caratteri mobili su carta stampata ci consente di rivivere altre epoche ed immaginarci talvolta noi stessi alle prese coi problemi di antichi protagonisti.
Dunque l’ambientazione attuale potrebbe essere un’arma a doppio taglio, ma ancora una volta la scelta del verbo non è casuale, è mia opinione infatti che in Numero Zero non si avverta tutto sommato la mancanza dell’elemento storico e non si avverta neppure la distorsione della memoria individuale poiché a quegli elementi deficitari (per forza di cosa e non per mancanze dell’autore) viene in soccorso il ritmo del narrare che, è bene ribadirlo ancora una volta, qui è estremamente serrato e minimalista, quasi scarno, e con una cadenza così veloce non si ha tempo di stare a riflettere su cosa ci ricordiamo noi del 92, almeno non troppo, con un ritmo così serrato non si ha tempo di star a sentir la mancanza del tempo perduto, il tempo che fu, sia esso il Medioevo, l’Illuminismo o gli anni tra le due guerre, poiché ad un fatto ne segue subito un altro, ad una lezione segue subito la successiva e quello che ci occorre, quello di cui sentiamo realmente bisogno qui sono i fatti, solo quelli: fatti, fatti e ancora fatti. Altro davvero non serve e una volta esauriti questi il romanzo è finito, e poco importa che Milano nel ‘92 magari era diversa, poco importa che la storia del giornale che nasce e non nasce poteva essere più approfondita, così come lo spessore dei personaggi che delineano questa vicenda, e poco importa persino che il perno della vicenda, lo “scoop Mussolini”, era di una forza così originale che meritava da solo un intero libro, di quelli da ottocento pagine, come ci aveva abituato prima il Nostro, qui si parla di giornalismo, di un quotidiano che deve andare in stampa tra poche ore e dunque non c’è tempo per le lungaggini, le incertezze o le riflessioni qui occorrono i fatti, e dunque, come si diceva: fatti, fatti, e ancora fatti, punto e basta. Così è il libro, così i dialoghi, la vicenda, il protagonista, così le sue osservazioni e i suoi pensieri: un rutilante avvicendarsi di accadimenti che come dice la parola stessa “accadono”, accadono mentre li si scrivono, accadono mentre li si leggono e al pari della vita reale non si fermano mai, poiché l’unica volta, la sola volta, che si fermeranno significa che sarà finito, la vicenda, gli insegnamenti, il giornale, il protagonista, il libro, tutto sarà finito.
Piuttosto illuminante fu l’intervista che rilascio l’autore qualche giorno prima della pubblicazione alla tv nazionale, disse (parafraso) - non è un libro come gli altri ad ampio respiro, è rapido, veloce, ad un certo punto è come si mi avesse detto che era finito ed infatti così era: era finito.
Questo dunque è Numero Zero, non un excursus ma una rapida occhiata, uno scatto mentale in un recente passato, e sia che lo si chiami saggio, sia romanzo, sia manuale, sia pamphlet, sia che si dica che è fatto per screditare attuali figure di spicco del panorama politico italiano, sia che si dica sia fatto per riportare alla luce eventi troppo in fretta messi a tacere, sia infine si dica non sia altro che il riassunto delle lezioni di una vita dell’autore, la natura del libro di fatto non cambia, è e sempre sarà quello “scatto”, e al pari delle gare di corsa il cui fascino è inversamente proporzionale alla loro lunghezza (quanti si emozionano per Usain Bolt che fa il record dei 100 m rispetto a Gebrselassie che fa quello della maratona?) questo libro/romanzo/saggio gode di un grandissimo fascino, il fascino dei bei libri che solo i grandi scrittori riescono a creare, quegli scrittori a cui bastano due parole e un punto per crearti una storia, colorarla di realtà e nel mentre spiegarti come funziona il mondo. Due parole e un punto, niente di più. Punto.

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Altri libri di Eco (x stupirsi), libri d'attualita o storia moderna, buoni romanzi
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    30 Mag, 2015
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L'ironia amara di Eco

Il fatto che “Numero zero” sia l’unico tra i romanzi di Eco letto in poche ore può essere un dato indicativo della scorrevolezza del testo e di una trama coinvolgente, ma anche del minore impegno dello scrittore, che ci ha abituati a libri che richiedono, dopo l’ultima pagina, almeno una pausa di riflessione. In questo romanzo l’impianto è molto più semplice rispetto ad altri, certamente molto più di “Il cimitero di Praga”, il lavoro precedente a cui appare più legato. Entrambi hanno come elemento comune la dissimulazione della verità: nel primo utilizzando documenti falsificati e fuorvianti, in “Numero Zero” con la manipolazione dell’informazione, sintetizzata nella massima “i giornali non sono fatti per diffondere l’informazione, ma per occultarla”.
La trama del romanzo, il lavoro che impegna uno scombinato gruppo redazionale per un paio di mesi nel 1992 per la preparazione del numero di prova di un quotidiano trash, finanziato da un commendatore che vuole disporre di uno strumento di potenziale ricatto per poter accedere ai “salotti buoni”, è semplicemente il supporto per altre due tematiche.
Come in tutti i suoi romanzi Eco si avvale di dati e documenti reali sui quali innesta il suo racconto. In questo caso parte dall’ipotetica sostituzione di Mussolini con un sosia, che ossessiona uno dei redattori, Braggadocio, delirante dietrologo e millantatore (in inglese “bragger”). che partendo da tale fissazione pensa di trovare un filo connettivo che leghi tutti gli intrighi e le trame oscure che hanno segnato la vita italiana, con un’indagine che gli costerà cara.
Sarebbe interessante sapere se la trasmissione BBC “Operation Gladio” (ancora visibile su You Tube), ritrasmessa a cura di Augias in Italia nel 1992, riportata nella fase finale del romanzo, sia stata la fonte ispiratrice di questa riesumazione degli italici veleni o se è stata utilizzata da Eco per segnare il 1992 come anno di svolta, dopo decenni di oscuri intrighi, per arrivare non “al migliore dei mondi possibili”, dato che nessuno più di Eco è lontano da Candide, ma per approdare quanto meno ad una condizione di “calma sfiducia nel mondo che ci circonda, un mondo in cui la vita è sopportabile, basta accontentarsi”.
Il secondo filone, disseminato in una serie di considerazioni nelle riunioni del gruppo di redattori, mette a nudo le diverse modalità di distorsione dell’informazione, con pagine sarcastiche sui dossier, sulle tecniche di diffamazione, sulle frasi fatte, sulle interpretazioni alternative degli annunci matrimoniali, sui filtri delle notizie pubblicabili: pagine divertenti, ma spesso di limitato valore aggiuntivo.
Come nel suo stile Eco utilizza a piene mani ironia e/o sarcasmo, così da rendere più accettabile il suo pessimismo di fondo.
È una iattura per un romanziere debuttare con un capolavoro, perché tutti i romanzi successivi saranno letti partendo dall’interrogativo “sarà all’altezza di …?”con rischio di relativa delusione. Questo sembra essere il destino di Umberto Eco, partito con “Il nome della rosa”, un capolavoro assoluto, da leggere e interpretare a più livelli, seguito da opere pregevoli, com’è certamente “Baudolino”, ma di valore meno elevato o meno coinvolgenti.
Dal punto di vista del lettore possiamo mettere a merito di questo libro che una volta tanto non ci si sente soverchiati dall’ostentazione di una cultura impressionante, come capita nelle altre opere; le citazioni sono di livello nazional – popolare, almeno per chi conosce la storia recente del nostro Paese, con l’unico vezzo dell’”infundibulo cronosinclastico”, attinto da un libro di fantascienza, la cui comprensione ha richiesto il ricorso a Wikipedia.
Mi auguro che Eco arrivi ad ottenere l’agognato Nobel della letteratura, che a mio avviso meriterebbe per tutta la sua produzione letteraria: se così sarà non lo dovrà certamente a questo romanzo, che è comunque leggibile, essendo consapevoli che si tratta di un Eco “light”.

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ai lettori di Eco che non nutrono troppe aspettative
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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    28 Mag, 2015
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L'amara conclusione di un intellettuale

“Numero zero” è un romanzo breve, lontano dagli standard di Umberto Eco. Sembra che quello che è stato definito “il più grande intellettuale al mondo” navighi un po’ in sordina, sotto costa, con il motore al minimo, e si guardi sospettoso intorno, in un’Italia che dal 1992 (anno degli eventi narrati) ad oggi non ha subito, ahimè, significativi cambiamenti. Lo scrittore narra i fatti in prima persona ( è il dottor Colonna) ed immagina di far parte, in qualità di giornalista e scrittore, di una redazione raccogliticcia, incaricata da un misterioso manager di preparare il numero zero di un nuovo giornale. I personaggi sono tra i più vari : ci sono il direttore che assegna i compiti, l’esperta in gossip, un infido collaboratore che sembra riferire ad altri notizie riservate, un redattore che non coglie mai il vero senso delle informazioni e, infine, un personaggio paranoico e misterioso, tal Braggadocio, che millanta conoscenze altolocate e si dice al corrente di segreti esplosivi riguardanti vicende degli ultimi anni, dalla fine di Mussolini mai accertata in realtà, al coinvolgimento del Vaticano, dal fallito golpe Borghese, alle trame eversive dei brigatisti, via via fino a rivelazioni sulle malefatte di CIA, P2 e Licio Gelli, senza trascurare stragi e depistaggi vari. Insomma, Braggadocio sembra sapere troppo : il guaio è che rivela al protagonista del romanzo le sue conoscenze, inguaiandolo quando si scopre il cadavere di Braggadocio stesso, assassinato misteriosamente in una stradina di Milano. La paura si impossessa un po’ di tutti, la redazione viene chiusa, il committente si defila ed il povero dottor Colonna, al corrente di segreti e confidenze bollenti, non sa più dove nascondersi, se non a casa di una giovane collaboratrice, che ama riamato, e con la quale decide di fuggire in luoghi dove un possibile killer non possa rintracciarlo. Ma ecco la svolta (un vero colpo di scena) : in una trasmissione televisiva ascoltata per caso e nella quale Corrado Augias presenta una produzione inglese della BBC sull’Operazione Gladio, vengono svelati tutti i segreti e le trame di cui Braggadocio era al corrente : allora, perché nascondersi, perché temere un’eliminazione fisica quando tutti gli intrighi sono palesi e nessuno tenta di celare alcunché ? Conclusione amara : niente può più turbarci in questo paese, scrive Umberto Eco, le abbiamo provate tutte, invasioni barbariche, sacco di Roma, due guerre mondiali… Niente può fare impressione ad un popolo “di pugnali e veleni”, popolo ormai vaccinato ed abituato al peggio, in un paese che, diventato definitivamente terzo mondo, “sarà pienamente vivibile”. Conclusione amara ed ironica : basta accontentarsi, conclude Eco, “domani, come dice Scarlet O’Hara, è un altro giorno”. Nel contesto del romanzo, riemerge lo spirito arguto di Eco: nelle riunioni preparatorie del fatidico numero zero del nuovo giornale ci si dilunga su amene riflessioni riguardanti, ad esempio, le modalità di presentazione di una notizia, oppure le complicate vicende e gli intrecci inimmaginabili tra i vari Ordini cavallereschi, o ancora un interminabile elenco (da copiare e conservare per serate tra amici) di domande e risposte deliranti… Divagazioni che tendono ad allentare una certa tensione emotiva che si coglie tra una rivelazione di Braggadocio e l’altra, e che forse hanno uno scopo: quello di banalizzare le rivelazioni stesse, tanto siamo in Italia, facciamoci quattro risate, e tutto passa e si dimentica.



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ant Opinione inserita da ant    22 Aprile, 2015
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Un'ipotetica redazione di un giornale...nel 1992

Il romanzo è ambientato a Milano nel 1992, anno di grossi cambiamenti in Italia, e parla della redazione di un giornale dai propositi ambiziosi, "Il Domani" che dovrà servire a condizionare il pensiero comune dei lettori. Si alternano pagine in cui Eco è abilissimo a descrivere le peculiarità sia dei giornalisti in redazione che dei luoghi caratteristici di Milano e soprattutto, oltre i capitoli di taglio psicologico e descrittivo , si parla uno dei misteri più intriganti d’Italia: la reale sorte del Duce alla fine della Seconda guerra mondiale. Questo giornale non sarà mai pubblicato, ma la preparazione e le riunioni di redazione per allestire l'ipotetico numero zero de "Il Domani" permettono a Eco di dimostrare, ancora una volta, tutta la sua arguzia e la capacità di incuriosire i lettori con argomentazioni di varia natura. Concludo estrapolando un passaggio dove uno dei giornalisti si confessa e spiega perché ha accettato di collaborare al giornale
...""Ero senza patria, ho vissuto in città diverse, ho corretto bozze per almeno tre case editrici, per una ho rivisto le voci di un'enciclopedia, tutti lavori in cui mi sono fatto quella che a un certo punto Paolo Villaggio ha chiamato una cultura mostruosa. I perdenti, come gli autodidatti, hanno sempre conoscenze più vaste dei vincenti, se vuoi vincere devi sapere una cosa sola e non perdere tempo a saperle tutte, il piacere dell'erudizione è riservato ai perdenti. Più cose uno sa, più le cose non gli sono andate per il verso giusto"""
Intrigante

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FabCat Opinione inserita da FabCat    09 Marzo, 2015
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I vincenti e i perdenti

I mass media non servono per dare le notizie al pubblico, ma a impiantare in esso un pensiero, condizionare la sua opinione, influenzare il suo comportamento, il suo voto… Attraverso tecniche collaudate il mondo dell’informazione mente senza mentire e accusa senza accusare. È il quarto potere, bellezza, e fin qui nulla di nuovo. In Numero Zero però lo tocchiamo con mano, tutto ciò. Lo sentiamo nei dialoghi durante le riunioni, possiamo immaginarci le espressioni facciali e i luoghi. Possiamo renderci conto della reale considerazione che l’informazione ha della propria audience.

A più di vent’anni dai fatti del romanzo sembra che le cose non siano cambiate, e così come Manzoni usava i dominatori spagnoli del ‘600 al posto degli austriaci, Eco usa le redazioni degli anni 90 al posto delle attuali. E allora anche lui fa lo stesso gioco: insinuare, parlare d’altri mentre si riferisce ai protagonisti di oggi (il riferimento al magistrato dai calzini turchesi). Ma forse sono sempre gli stessi… Comunque, siamo nel…

Giugno 1992: i telefoni cellulari sono oggetti misteriosi alla portata di pochi, i dati sono salvati su dischetti, Tangentopoli è appena cominciata e, ancora in un mondo senza internet, i quotidiani hanno come unico avversario la televisione. La storia inizia come un thriller, con un omicidio, poi un flashback a scoprire come uno scrittore fallito si ritrovi a collaborare a un progetto fallito in partenza insieme a giornalisti falliti coordinati da un direttore naturalmente fallito anche lui, e a trovarsi inspiegabilmente in una situazione di estremo pericolo.

C’è un filo in effetti che corre lungo tutta la storia: il tema del perdente. Il protagonista, uno scrittore che si è fatto una cultura notevole anche senza essersi laureato, traducendo dal tedesco volumi dai temi più disparati, si ritiene un perdente “I perdenti hanno sempre conoscenze più vaste dei vincenti, se vuoi vincere devi sapere una cosa sola e non perdere tempo a saperle tutte”. Ma qui tutti sono perdenti, l’imprenditore/editore che deve ricorrere a un giornale potenzialmente ricattatorio per farsi aprire le porte del salotto di chi conta, come anche la giornalista dagli strani ideali esterofili. Siamo perdenti anche tutti noi, abitanti di un Paese che non sa più cos’è l’indignazione.

Nonostante si tratti di un romanzo talmente breve e scorrevole che si legge con comodo in un weekend, la storia è densa di contenuti, affascinante per il suo ricostruire un complotto dal dopoguerra fino agli anni di piombo, con personaggi e dialoghi intriganti (l’imprescindibile Braggadocio su tutti) caratterizzati dal tipico umorismo di Eco.

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Stefano74 Opinione inserita da Stefano74    09 Marzo, 2015
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Una possibile interpretazione.

Forse è più un testo "commerciale " che un'opera in stile Eco.
La trama serve più che altro per raccontare uno spaccato dell'Italia del post-dopoguerra con l'intento di dare una versione alternativa, ma non certo nuova (il riferimento ad Augias è d'obbligo), degli intrighi italiani.
200 pagine che scorrono velocemente ma non per questo mi sento di consigliarne la lettura.
Peccato!

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maria.luperini Opinione inserita da maria.luperini    05 Febbraio, 2015
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Che cos'è la verità?

Che cos'è la verità? Possiamo fidarci delle notizie così come ci vengono trasmesse dai giornali, persino di quelli che appaiono meri resoconti cronachistici? Sembrano queste le principali domande che vuol generare Eco con il suo ultimo romanzo. Fin dalle prime battute, dopo lungo tempo che non leggevo un suo scritto, si è risvegliato il mai sopito amore per questo scrittore e il suo stile unico. Intrigante e lucido, ironico e drammatico, ci racconta i misteri della nostra storia recente mettendo in dubbio le versioni ufficiali e poi rimettendo in dubbio le nuove versioni qui fornite. Il grottesco Braggadocio, la tenera e intelligente Maia sono i personaggi che emergono da un insieme tragicamente vero. Il protagonista è uno spettatore (verrebbe quasi da dire: lo spettatore, allo stesso modo del lettore) e noi restiamo invischiati nei suoi stessi dubbi e timori. Una meditazione iperrealista che diventa thriller, nello stile dell'Eco migliore.
Tuttavia, mi dispiace segnalare un neo che non avrei voluto trovare: alle pagg. 77 e 89 il verbo intravedere è scritto "intravvedere" e a pag. 121 "la maggior parte" diventa il soggetto del verbo "sono". Peccato, sono errori un po' troppo banali per un così bravo autore.

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Riccardo76 Opinione inserita da Riccardo76    22 Gennaio, 2015
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Il senso analitico di Braggadocio

Ironico, sarcastico e originale sono gli aggettivi che riassumono quello che ho percepito di questo romanzo di Eco. Il sarcasmo è complesso da esprimere in forma scritta, ma la maestria di Eco permette di restituire questa forma retorica in maniera molto convincente.
La storia in se è semplice: una finta redazione messa in piedi con redattori e giornalisti fra i più strani e “falliti” in circolazione, lo scopo creare un quotidiano fatto di tanti numeri 0, tante notizie-dossier, notizie che non dicano solo l’accaduto ma che vadano oltre per raccontarne gli sviluppi.
La storia è ambientata nei primi anni 90, da sfondo ci sono tutti i fatti realmente accaduti nel nostro paese in quel periodo. La storia d’Italia dalla seconda guerra mondiale fino ai tempi moderni riassunta e ovviamente rivista ai fini narrativi.
Mussolini, il fascismo e improbabili legami fra servizi segreti italiani ed esteri, Vaticano e poteri forti, ho scritto improbabili perché per quello che è dato sapere ai più la storia narrata è solo una supposizione romanzata, ma siamo veramente certi che quella che conosciamo sia la verità?
Il libro credo intenda proprio minare queste convinzioni, puntare il dito contro il nostro sistema giornalistico e informativo, vuole denunciare le logiche che spingono a scrivere determinate notizie e nasconderne altre, se non peggio scrivere notizie che nascondano altro.
Gli interessi e i poteri forti comandano l’informazione pilotandola a proprio vantaggio, la notizia dovrebbe essere un fotografia oggettiva di un fatto realmente accaduto, tutto il resto è opinione, è narrativa e altro fuorché notizia.
Eco vuole denunciare un costume comune di accettare per dato di fatto qualsiasi notizia, qualsiasi informazione ci viene fornita come vera, vuol dire la sua sul sistema Italia, ormai logoro e corrotto a tal punto che non è possibile rimediare, una continua arte dell’arrangiarsi, che aiuta nei momenti difficili, ma non da nessuna visibilità per il futuro.
Tutta la storia è ben organizzata, è molto bella l’idea, a mio avviso originale, mi piace il procedere di Braggadocio, analitico e critico, vuole approfondire gli eventi, vuole vederci chiaro, nella sua spacconeria c’è forse un desiderio di notorietà, di grandezza, ma potrebbe essere questo il vero giornalismo?
Un bel libro con un messaggio forte ed attuale, bravo Eco a rendere efficaci i personaggi, a restituire quel senso di amaro sarcasmo che evidentemente gli brucia dentro e che credo debba bruciare un po’ di più in ognuno di noi.

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