Lessico famigliare
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Un mondo di psrole
“ Lessico famigliare “ e’ un romanzo di difficile collocazione, libro di memorie, cronistoria, autobiografia, tra realtà e finzione, l’ intento è narrare la storia della famiglia Levi e di tutto quello che vi ruota intorno e va definendosi, un romanzo scritto in soli due mesi nel quale l’ autrice è poco presente, al suo interno personaggi veri citati per nome e cognome.
Natalia bambina, adolescente, sorella, madre, nonna, un testo che ha spiazzato la critica ma amato dai lettori, entrato nelle antologie delle scuole medie inferiori e superiori, persino nei libri di lettura delle elementari.
Il romanzo attraversa la duplicità degli occhi di una bambina che osservano la vita altrui da un angolo privilegiato e la sua voglia, da adulta, di porsi al centro del palcoscenico, l’ incertezza della permanenza in un mondo e il desiderio di allontanarsene, il contrasto bambino-adulto.
Un successo dovuto a una scrittura colloquiale e immediata, a quel lessico famigliare che identifica i Levi, li mantiene vivi, ne coagula la memoria, ma il romanzo, in realtà, è poco viscerale e improvvisato, costruito secondo uno schema preciso.
Tra le pagine l’ ebraismo pare passare sotto traccia, nonostante iil periodo e le vicende famigliari narrate, quasi che l’ autrice scelga di non occuparsene, capovolgendo iil senso di morte e di diversità malinconica che pervade “ Il Giardino dei Finzi Contini “ in una famiglia comunemente ebraica, in cui l’ ebraismo è un elemento di puro contorno, c’è ma poco si sente.
La famiglia Levi, sintesi di storia e parole, che uniscono, ritornano, definiscono un mondo semplice e austero, frequentato da biologi, ingegneri, scienziati, che lentamente si apre ai letterati, un interno domestico retto da un padre padrone dispotico che esclude qualsiasi diversità, che osteggia il mondo frivolo ed equivoco degli scrittori, per contro una madre protettiva e materna, due figure genitoriali agli antipodi.
Quattro fratelli diversi, da una parte Gino e le sue montagne, le rocce nere, i cristalli, gli insetti, dall’ altro Mario e Paola, che detestano la montagna e amano le stanze chiuse e tiepide, la penombra, i caffè, Pirandello, Verlaine, due mondi incomunicabili, Natalia, la più piccola, attratta da entrambi, non sa quale scegliere.
Cene identiche, le ossessioni paterne, lui che crede di essere il solo antifascista in Italia, che vorrebbe impedire ai propri figli di sposarsi senza ottenere nulla perché si sposeranno ugualmente, le storie e le canzoni di una madre.
Nella prima parte Il fluire del racconto attraversa gli occhi curiosi di bambina e di ragazza, una narrazione semplice, oggettiva, imparziale dei cambiamenti famigliari all’ interno del fluire della storia, dal fascismo all’ antifascismo, arresti, prigione, fughe, allontanamenti, campagna razziale, impegno politico, lutti, descrizioni oggettive senza giudizi personali.
Eppure le vicende sono piuttosto dure, una schiera di persone autorevoli frequenta l’ interno di casa Levi, idee politiche, letteratura, economia, arte, si pensi a Pajetta, Olivetti, Pavese, Turati, colti in aspetti privati poco noti, personaggi che avrebbero fatto la storia.
Ci sarà un prima e un dopo la guerra, un mondo che, dopo, pare enorme, inconoscibile e senza confini, in quel tempo fioriranno poeti e politici, quegli stessi che avevano digiunato negli anni del fascismo. Passeranno molti anni prima che ciascuno riprenda sulle spalle il proprio mestiere accertandone il peso e la fatica quotidiana, unico mezzo di partecipazione alla vita del prossimo, perduto e stretto in una solitudine sempre uguale.
Per questo si continuerà a temere la guerra e, appena finita, si comincerà ad avere paura di un’ altra guerra, incubo racchiuso e definito dentro di se’.
Nello fluire della narrazione la Ginzburg subisce il fascino della letteratura da lei consumata e su cui si è formata, Il flusso di coscienza scavato all’ interno dei ricordi riconduce a tematiche proustiane e l’ interpretazione storica e romanzesca qui rappresentata dalla presenza di una coscienza adulto-bambino rievoca i personaggi del Tolstoj di “ Guerra e Pace “.
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Parole...parole...parole...
Prendere in mano questo libro significa, di diritto, aprire la porta di una casa o meglio di più abitazioni, quelle abitate dalla famiglia Levi; significa vivere la vita di quella famiglia, far proprio il suo linguaggio e partecipare appieno a tutti gli scambi comunicativi che rappresentano un vero e proprio codice di relazioni. Attraverso le parole infatti si aprono infiniti scenari, e quelli che si cristallizzano all’interno della nostra primissima comunità sociale, lo sappiamo, sono i più potenti. Le parole trasmettono emozioni, giudizi, conoscenze, letture della realtà, si imprimono nella nostra memoria uditiva non solo come lemmi ma anche come inflessioni, come toni, come identità primaria. Il lavoro della scrittrice è quindi un corrispondente degno della ricerca proustiana che partiva da stimoli olfattivi per acchiappare il ricordo e fissarlo per sempre. Posso garantire però che fissare le parole esercita altrettanto fascino e chi ha amato Proust non può non amare Ginzburg. La prospettiva è quella di una figlia che rappresenta e fissa soprattutto i suoi genitori attraverso una linearità cronologica frammentata: a grandi linee segue il criterio temporale della sua crescita e del loro invecchiamento, di fatto le tappe del suo percorso personale sono taciute, impietosa ellissi narrativa che lascia un po’ l’amaro in bocca, mentre i percorsi dei fratelli e della sorella sono inseguiti e rappresentati nel dettaglio. Di lei tace quasi tutto: adolescenza, matrimonio, figli, vedovanza e secondo matrimonio appaiono solo come dati, in prospettiva vengono amplificati solo e unicamente da come i suoi genitori li interpretano rimandando a lei una loro lettura, appunto, attraverso le parole. Una lettura confortante, divertente- i genitori sono tra i più bei personaggi della letteratura italiana- istruttiva nel suo riportare il clima culturale che diede il via alla stagione neorealista o quello economico del secondo dopoguerra o ancora quello impietoso del fascismo e delle sue repressioni. Un memoir fonico ricco di presenze- assenze ( prima fra tutti Pavese) che permette a tutti di capire lo scorrere quotidiano dell’esistenza, simile in fondo per tutti…
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L’importanza del linguaggio, interpretazione della
Lessico famigliare è forse il libro più famoso di Natalia Ginzburg, certamente quello che è stato più recensito e più criticato sia positivamente, sia negativamente.
Il titolo di un’opera è sempre molto importante: spesso ci svela non solo parte del suo contenuto, ma suggerisce anche considerazioni sulla sua impostazione stilistica e strutturale.
La prima osservazione che sorge spontanea è quella che riguarda l’uso del termine “famigliare” preferito a “familiare” che la Ginzburg usa tuttavia nel corso della narrazione. Si tratta, a mio giudizio, di una scelta studiata con sottile acutezza. Il primo, “famigliare”, è di origine popolare, è un etimo, cioè, che ha subito una trasformazione dall’originale latino “familiaris”, il secondo, invece, “familiare”, ricalca il modello latino, ed è quindi termine più “colto” se così si può dire. Ciò induce subito a pensare che lo stile e il contenuto del testo vogliano rispettare un principio di semplicità che rispecchi la spontaneità della vita quotidiana.
Ed è così. La Ginzburg fa, con quest’opera, un’operazione di verità: attraverso il lessico tratteggia i personaggi, in modo da farne emergere l’autentica personalità. Il padre Giuseppe Levi e la madre Lidia sono davvero indimenticabili, con i loro pregiudizi e il loro linguaggio costellato di parole del dialetto triestino del padre, come sbrodeghezzi, negrigura, sgarabazzi, o del milanese della madre come spussa e malignazza.
La storia della famiglia è affidata alla memoria di Natalia bambina, poi adolescente, quindi adulta. Questa scelta temporale porta inevitabilmente all’uso ora dell’imperfetto, ora del passato remoto, ora del trapassato. Ne deriva una rimarchevole dinamicità narrativa. L’io narrante rimane tuttavia quasi estraneo alla narrazione. La Ginzburg descrive il mondo a cui appartiene, senza indulgere in particolari che la riguardano personalmente. Parla volentieri degli amici, di Turati, Pavese, Felice Balbo, e altri intellettuali che frequentavano la casa editrice Einaudi, per la quale lei stessa lavorava. Racconta episodi della loro vita di cui lei stessa era stata testimone. Si dilunga sulla vita e sulle famiglie dei fratelli, ma di se stessa accenna solo l’indispensabile. Di sfuggita fa riferimento al marito Leone Ginzburg, alla sua morte nel terzo braccio del carcere di Regina Coeli. Nessun pathos, nessun accenno al suo dolore che pure fu certamente grande, a giudicare dai versi che avrebbe scritto in sua memoria. Una riservatezza che probabilmente vuole dare all’opera quella imparzialità di narrazione che possa renderla maggiormente veritiera. Un solo paragrafo tradisce una certa emozione ed è quello dedicato alla morte di Pavese. La storia dell’Italia degli anni del fascismo è presente come sfondo. Se ne sente il peso, ma non è protagonista. Protagonisti sono sempre e solo i personaggi con le loro caratteristiche umane.
Tra i critici di grande rilievo c’è stato chi ha considerato Lessico famigliare un’opera di grande pregio per il contributo memorialistico e per l’efficace descrizione della borghesia e dell’ambiente intellettuale di quel tempo interprete degli ideali socialisti. C’è stato tuttavia anche chi, come Asor Rosa, l’ha vista come un’operazione di snobismo intellettuale, sottolineando la volontà della Ginzburg di mostrare la sua familiarità con personaggi importanti.
Comunque la si voglia pensare, Lessico Famigliare resta un’importante testimonianza letteraria di uno stile, di un’epoca, di una parte della nostra società.
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lessico molto speciale
“Lessico famigliare” è un romanzo autobiografico della nota scrittrice Natalia Ginzburg, pubblicato da Einaudi nel 1963.
Come introduzione la scrittrice esplicita subito che tratterà della realtà, di cose avvenute a lei in prima persona ma principalmente alla sua famiglia. Appena si legge ciò, può venir naturale pensare che tutto il libro sia basato sulla vita di Natalia ma appena chiusi il libro dopo aver letto l’ultima pagina, venni sorpresa nell’osservare che non trattava della sua vita nei minimi dettagli bensì di tutti gli altri personaggi: parla principalmente della sua famiglia . Ad esempio si incentra particolarmente sul padre e la madre perché più interessanti e inerenti al titolo della storia generale: il padre era molto scorbutico con tutti ma scorrendo con la lettura si riesce a vedere un animo gentile sotto il caratteraccio e la madre era molto affezionata alla sua famiglia e alle sue amiche, sia giovani sia della stessa generazione ma la cosa più importante è che erano entrambi ebrei e quindi antifascisti, ciò è essenziale per la storia. Ho detto inerenti al titolo generale della storia perché entrambi usavano parole molto uniche o che noi conosciamo ma loro le usavano con altri significati, ad esempio il padre sfruttava molto spesso l’espressione “negro” e “negrigure”, vista così può sembrare quasi una persona razzista ma, in realtà, entrambi avevano significati molto diversi e usati in contesti totalmente differenti dai nostri. Per spiegarmi meglio: “negro” era chi aveva modi goffi, impacciati e timidi, chi si vestiva in modo inappropriato, chi non sapeva andare in montagna, chi non sapeva le lingue straniere. Mentre “negrigure” era portare, nelle gite in montagna che amava tanto fare con la famiglia, scarpette da città; attaccar discorso, in treno o per strada, con un compagno di viaggio o con un passante; conversare dalla finestra con i vicini di casa; lamentarsi, nelle gite in montagna, per sete, stanchezza o sbucciature ai piedi …
La madre usava altri termini invece, ad esempio “Squinzie”: ragazze smorfiose e vestite di fronzoli.
Oltre a questi termini ovviamente ne usavano molti altri ma vi lascio la curiosità e voglia di scoprirli da soli.
Tornando a concentrarsi sullo stile del racconto, narra in ordine cronologico di alcuni avvenimenti maggiormente interessanti o divertenti sui genitori, i due fratelli e la sorella fino ai loro matrimoni che chiudono la storia. Si concentra maggiormente sugli eventi durante la seconda guerra mondiale perché sì, tutto il racconto è ambientato intorno a quel periodo.
Lei, insieme alla sua famiglia, abitavano a Torino per quasi tutto l’inizio e la vicenda, intorno alla fine narra dei vari luoghi dove abiteranno i fratelli.
La storia in sé è ricca di descrizioni e pochi dialoghi, a volte ci sono anche dei flashback della prima infanzia o anche di prima della sua nascita.
Questo romanzo è ricco di scene sia divertenti sia tristi. In modo generale posso affermare che il padre è il personaggio che mi ha fatto più ridere di tutti proprio per le parole strane e stravaganti che era abituato a usare in momenti non sempre opportuni.
Devo dire con tutta onestà che appena letto l’inizio e di cosa parlava mi spaventai un poco: avevo letto pochi libri autobiografici e quei pochi non mi erano neanche piaciuto ma questo, invece, mi sono sorpresa vogliosa di andare avanti per capire meglio i personaggi e per ridere o intristirmi con loro. Per me, se il lettore prova queste emozioni leggendo un libro, è una cosa molto positiva per lo scrittore il quale significa che ha fatto un bel lavoro di stesura rendendo il lettore appassionato alla storia.
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Parole semplici, parole del cuore
La vita non è solo andare avanti, schiacciare il piede sull’acceleratore e bruciare le tappe alla scoperta del futuro. A volte, si sente il bisogno di invertire la marcia e volgere lo sguardo indietro, per inseguire nei ricordi le tracce di ciò che ci ha reso quel che siamo. Prima di tutto, la famiglia.
A farci da guida in questo viaggio nella memoria familiare non possono che essere, per una scrittrice, le parole. Non le frasi stampate nei documenti, le promesse matrimoniali o i litigi memorabili, perché, ad ascoltarla col cuore, si scopre che la voce dei ricordi parla spesso un linguaggio di semplicità e quotidianità. È un vocabolario di espressioni banali, dialettali, addirittura inventate, che abbiamo sentito e ripetuto infinite volte, espressioni che magari un tempo ci facevano arrabbiare o storcere il naso, e che ora ci fanno sorridere e commuovere.
Sono le esplosioni colleriche e i rimbrotti del severo papà Beppino “Non fate sbrodeghezzi! Non fate potacci!”. È la voce lieta e benevola di mamma Lidia “Com'è brava l'Adele! Com'è carino Mario quand'è buono!”. Sono le canzoni canticchiate, gli aneddoti di parenti lontani raccontati mille volte, le battute senza importanza che ci hanno fatto ridere insieme.
Le parole diventano la chiave per aprire un baule ove si preservano integri, salvati dalla corrosione del tempo, i legami e gli affetti familiari, protetti da una carta velina profumata di tenerezza. Attraverso le parole, Natalia Ginzburg apre il baule della propria infanzia e giovinezza, lasciando che frammenti di memoria fluiscano, liberi e spontanei, riportando alla luce piccole schegge di vita, momenti di storia italiana o un volto che ha percorso un tratto di strada con noi. Anche se, in questo caso, sono spesso volti del calibro di Turati, Olivetti, Pavese, Einaudi, a impreziosire le pagine.
Lo stile è molto semplice, addirittura disadorno, ma è una semplicità colma di sentimento. Non si può evitare di affezionarsi alle irresistibili sfuriate di Beppino e ai piccoli battibecchi di casa Levi, forse perché in quella gamma di parole buffe, aneddoti sciocchi e piccole abitudini, riverbera l’affetto dei nostri stessi ricordi, diversi e lontani ma fatti della stessa materia: parole semplici, parole del cuore. Si legge e si sorride, lasciando che la memoria ci riconcili con noi stessi e col mondo.
“Una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere l'uno con l'altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. [...] Nei punti più diversi della terra, quando uno di noi dirà - Egregio signor Lipman -, subito risuonerà al nostro orecchio la voce impaziente di mio padre: - Finitela con questa storia! l'ho sentita già tante di quelle volte!”
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Barlumi e schegge
"Ho scritto soltanto quello che ricordavo. Perciò, se si legge questo libro come una cronaca, si obietterà che presenta infinite lacune. Benchè tratto dalla realtà, penso che si debba leggerlo come se fosse un romanzo: e cioèsenza chiedergli nulla di più, né di meno di quello che può dare un romanzo"...."Questa ...è la storia della mia famiglia.." .
Avvertenze dell' Autrice
Einaudi - Supercoralli 1963 -
La custodia della memoria dei linguaggi di vita quotidiana usati nella famiglia di Natalia Ginzburg è il tema da cui prende avvio questo romanzo autobiografico che concentra maggiormente la narrazione nei venti anni circa che vanno dai primi anni 30 ai primi anni 50 del secolo scorso: è il ricordo dei legami e degli affetti costruiti con i suoi congiunti e con le persone importanti della sua vita. Nella prima parte la famiglia Levi viene osservata da una Natalia bambina e adolescente, ultima di cinque figli (lei arriva dopo Mario, Gino Alberto e Paola, che con genuinità e pacatezza ritrae i caratteri dei propri genitori soprattutto, soffermandosi sull' uso del frasario, degli intercalari e in generale sullo svelamento di una comunicazione domestica che identifica la sua famiglia e la racconta nella intimità dei suoi gesti e dei suoi dialoghi.
Poi, diventata adulta, di questa narrazione la Ginzburg diventa protagonista insieme agli altri, si osserva e si racconta ed ecco che la sua vita di quel tempo si compie: moglie di un antifascista ucciso dalla polizia politica nel carcere di Regina Coeli nel ?43, confino in Abbruzzo, fuga con i piccoli figli, ricongiunzione con la sua famiglia e altro.
"...La guerra, noi pensavamo che avrebbe immediatamente rovesciato o capovolto la vita di tutti. Invece per anni molta gente rimase indisturbata nella sua casa, seguitando a fare quello che aveva fatto sempre. Quando ormai ciascuno pensava che in fondo se l'era cavata con poco e non ci sarebbero stati sconvolgimenti di sorta, né case distrutte né fughe o persecuzioni, di colpo esplosero bombe e mine dovunque e le case crollarono, e le strade furono piene di rovine, di soldati e di profughi. E non c'era più uno che potesse far finta di niente, chiuder gli occhi e tapparsi le orecchie e cacciare la testa sotto al guanciale, non c'era. In Italia fu così la guerra".( pag 147 )
Il padre Giuseppe Levi, antifascista, docente di anatomia, scienziato e professore di tre fututi premi Nobel ed ebreo, Natalia ce lo presenta con il suo carattere dispotico, ipercritico ed incine alla collera, dotato di voce potentemente tonante: "....Non fate malagrazie!.....non fate sbrodeghezzi, non fate potacci....Voialtri non sapete stare a tavola. Non siete gente da portare nei loghi....Che asini che siete!.... dite sempre sempiezze!" , "Come è che hai preso trenta? Come è che non ha preso trenta e lode?" e se Gino, il figlio, aveva preso trenta e lode diceva "Uh, ma era un esame facile". Le amiche della moglie erano , nel suo linguaggio, le babe, signore che venivano a socializzare in casa, e che spesso lui in prossimità dell'ora di cena terrorizzava urlando con la sua voce possente: "Lidia, Lidia! Sono andate via tutte quelle babe?Non ti sei stufata di babare? Non ti sei stufata di ciaciare?" Tuttavia sempre preoccupato per il futuro dei figli e delle loro frequentazioni e fiero di aver allevato ragazzi con sani principi.
La madre Lidia Tanzi, cattolica, frequentatrice di cinematografo e teatro, possedeva invece un carattere estroverso, lieto, sereno e intimamente gioioso: " Le rose Lidia! Le violette Lidia! " rifaceva il verso alla sua amica che la citava in continuazione. Ma anch'essa si autocitva " oh povera Lidia!...che caldo Lidia!, ...che musi Lidia!....ecco Maria Temporala!..". Maria Temporala era il nome assegnato a Natalia quando era di cattivo umore. Accanto ai venti anni circa di ricordi del lessico di famiglia c'è anche il resoconto (sempre mediato dalla memoria dell'autrice e non da documenti o archivi), dell'avvento di grandi fatti storici come il fascismo e le leggi razziali, la guerra e l'occupazione tedesca, la Resistenza e la Liberazione e di come questi fatti abbiano coinvolto e reso protagonisti tutti i componenti della famiglia Levi-Ginzburg come di altre famiglie e personalità note nella storia dell'antifascismo del nostro paese e citate nel romanzo. Quindi, nel romanzo, due i piani che si liberano e si intersecano: quello privato-familiare e a fianco ad esso quello collettivo-politico ma sempre volutamente in una visione di insieme che muove da uno sguardo privato, domestico, spesso, dalle abitazioni torinesi e a volte da quel Corso re Umberto dove nei vari segmenti di tempo del romanzo passeggiano, si incontrano e reincontrano persone che occuperanno, loro malgrado, un posto di primo piano nella storia di quel periodo ed oltre.
L'autrice narra le enormi e tragiche vicende con stile frugale, umile, minuzioso e senza eccessi, riuscendo sempre a circostanziare gli eventi in modo utile e coerente all' idea primaria voluta e che sta al fondo della sua biografia familiare cioè un romanzo filtrato dal suo personale ricordo.
"Il mondo, appariva dopo la guerra enorme, inconoscibile e senza confini. Mia madre tuttavia riprese ad abitarlo come meglio poteva. Riprese ad abitarlo con lietezza....Il suo animo non sapeva invecchiare e non conobbe mai la vecchiaia, che è starsene ripiegati in disparte piangendo lo sfacelo del passato. Mia madre guardò lo sfacelo del passato senza lagrime, senza mai portarne il lutto." pag 164
Così e ancora, sfogliando le pagine, vediamo avanzare e presentarsi, parenti amici conoscenti, personaggi illustri e sodali, appartenenti o meno alla comunità ebraica, colti nelle loro qualità umane e definiti con vocabolario familiare, nei loro temperamenti e dubbi, limiti e certezze, si chiamino essi Olivetti, Einaudi o Pavese e siano essi insigni scienziati, avvocati, scrittori, editori, balie o ciarliere sartine.
"....nel corso della mia infanzia e adolescenza mi proponevo sempre di scrivere un libro che raccontasse delle persone che vivevano, allora, intorno a me. Questo è, in parte, quel libro: ma solo in parte, perchè la memoria è labile, e perchè i libri tratti dalla realtà non sono spesso che esili barlumi e schegge di ciò che abbiamo udito e visto".
Lettura e ascolto molto intensi: lei sembra starti accanto che racconta con la sua voce, prima di bambina poi di donna. Pare quasi non volerti disturbare o imbarazzare con i suoi complessi problemi di ragazza ebrea vissuta nel periodo fascista e allora ti conforta mettendoti al corrente, senza che te lo aspetti, di aneddoti su fratelli e parenti narrandoli sottovoce con garbo e anche ironia per mitigare il dispiacere di lei che scrive e anche di me che leggo. In qualche passaggio mi pareva di ascoltare mia nonna e mia madre private a lungo anch'esse dell' affetto di un loro congiunto, e rifletto dunque di come il ricordo si fa racconto e di come questo a sua volta possa sollecitare una riflessione sull' essere figli del proprio tempo.
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il baco del calo del malo
Racconto autobiografico e insieme affresco di un mondo perduto; un passato che riaffiora solo grazie al ricordo di una lingua viva e così “famigliare” da depositarsi in ogni piccola piega della memoria. Solo così Natalia può restituire la spensieratezza e la serietà dei discorsi fatti in casa, solo attraverso questo può raccontare del piccolo universo umano e intellettuale che in un tempo difficile e lontano dall’io che scrive ha gravitato attorno la famiglia Levi.
A chi ha già letto servirà forse sentire frasi come «non fate negrigure» o «non leccate i piatti! Non fate sbrodeghezzi! non fate potacci!» per sentire la necessità di sfogliare un’altra volta le pagine di questo magnifico racconto; a chi non lo conosce ancora, basterà magari invece l’onnipresente filastrocca «il baco del calo del malo; il bece del chelòe del melo» per farsi incuriosire da una storia triste e dolcissima come la vicenda che la innesta.
Insomma, per tutti quanti è indispensabile rimediare!
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Autobiografia senza biografa
Ritratto personalissimo e pudico della famiglia dell'autrice, in cui attraverso le semplici frasi del loro parlare quotidiano, si snodano le vicende di personaggi tutt'altro che ordinari.
Attorno ai Levi ruota con naturalezza la Torino borghese, ebraica e antifascista del trentennio '30-'50 e la loro vita si intreccia con quella di alcuni uomini come Adriano Olivetti e Cesare Pavese.
Di loro, come per tutte le principali figure descritte nel romanzo autobiografico, la Ginzburg sceglie solo pochi tratti, ma acutissimi e distintivi, con la sensibilità di una bambina che tutt'a un tratto si ritrova matura.
Di Olivetti: "...ricorderò sempre la sua schiena china a raccogliere, per le stanze, i nostri indumenti sparsi [...]. E aveva, quando scappammo da quella casa, il viso di quella volta che era venuto da noi a prendere Turati, il viso trafelato, spaventato e felice di quando portava in salvo qualcuno."
Di Pavese: "L'amore lo coglieva come un travaglio di febbre. Durava un anno, due anni; e poi ne era guarito, ma stralunato e stremato, come chi si rialza dopo una malattia grave."
Uno stile dunque lucido, essenziale, colloquiale, ma che centra sempre il bersaglio.
Gli eventi sono narrati per sottrazione, ossia togliendo molti particolari e lasciandone alcuni di per sè insignificanti, ma importanti nella memoria dell'autrice e nei quali riconosciamo universalmente l'unicità della sua famiglia.
Il padre burbero e pionieristico (andava a "skiare" ben prima dell'avvento del turismo di massa) e la madre eterea e ottimista (anche in mezzo alla bufera fascista, che comunque risparmiò tutti i Levi), appaiono quasi ingessati nei loro cliché e nel loro "lessico famigliare" ripetuto, che sembra di conoscerli da sempre.
E immediatamente viene da pensare a come tutte le famiglie in fondo si rassomiglino, nonostante le enormi differenze dettate dagli eventi, proprio per l'esistenza di alcune parole e delle espressioni uniche che le caratterizzano.
Tornando allo stile, la sottrazione più evidente riguarda proprio l'autrice, che preferisce raccontare poco di sè ed essere spettatrice ironica e defilata nell'ombra delle innumerevoli case abitate dai Levi:
"La casa di Via Pastrengo era molto grande. C'erano dieci o dodici stanze, un cortile, un giardino e una veranda [...]; era però molto buia, e certo umida, perché un inverno, nel cesso, crebbero due o tre funghi."
Unico appunto che mi sento di fare a questo capolavoro è che, a furia di sottrarre ed omettere, le neanche 200 pagine del libro sono troppo poche; si vorrebbe conoscere qualcosa in più, ad esempio sulla prematura scomparsa del marito Leone Ginzburg, o su Turati e Salvatorelli.
Ma del resto dolore, politica e giudizi personali trovano rarissimo spazio nel "Lessico": sarà stato per snobismo, indolenza, o semplicemente per scelta?
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Sbrodeghezzi, Sempiazzi!!
Scritto tra la metà di ottobre e la metà di dicembre del 1962 e di poi pubblicato per la prima volta nel 1963, “Lessico Famigliare” è un romanzo di memorie, quelle della famiglia dell’autrice, ricordi che vengono narrati allo “stadio di elaborazione” ovvero conformandosi a quelle reminescenze che erano proprie di una bambina e successivamente di una ragazza che vi assisteva originariamente con l’ingenuità unica dei primi anni di vita e successivamente con la consapevolezza che l’età adolescenziale e pre-adulta comporta ma altresì privandole di quelle considerazioni che sarebbero consone e consentite alla Ginzburg scrittrice ormai madre, moglie, letterata. E’ un libro in cui la stessa Natalia è poco presente, figurando pochissime volte in prima persona, scelta volontaria finalizzata a dar spazio a quelle che erano le esperienze e le realtà dei suoi cari, con quei genitori con quei linguaggi e quelle espressioni così contrastanti con quelle solite nelle altre famiglie, con quei fratelli così diversi da loro e ciascuno con differenti interessi e mutevoli crescite, ma anche con quegli amici al tempo ancora ignoti e che oggi sono divenuti storia.
Con questo romanzo assistiamo a quelli che sono gli avvenimenti da pochi anni prima dell’ascesa del Fascismo agli anni immediatamente successivi, sino ai primi anni ’60, a voler essere pignoli. I fatti vengono descritti non con il proposito di ricreare un quadro obiettivo e fedele del periodo affrontato bensì con lo scopo di far rivedere al lettore quello che era il clima del tempo; la Seconda Guerra Mondiale vista da dentro, osservata e percepita con gli occhi e con lo sguardo di chi l’ha vissuta.
Stilisticamente il testo fa largo uso del tempo imperfetto per descrivere le situazioni presenti, di realtà familiare nonché del trapassato prossimo utilizzato per indicare un ragionamento compiuto, per inquadrare in una determinata dinamica temporale uno specifico ragionamento, di una prosa fluente, frasi brevi.
Molteplici sono anche i riferimenti a Proust, Verlaine, Croce, ma anche a Pavese che “arrivava da noi mangiando ciliegie [..] quelle ancora piccole e acquose, che avevano, lui diceva «sapore di cielo» p. 146”, Pitigrilli, Turati, Adriano Olivetti, Leone Ginzburg, Einaudi (e la relativa nascita della casa editrice), Fermi, e tutti gli altri protagonisti di quella che è stata l’Italia della prima metà del Novecento. Soprattutto relativamente a Cesare Pavese chiaro è il legame di amicizia intercorrente tra la nata Levi e quest’ultimo, non nascondo di aver sinceramente apprezzato alcuni passaggi ad esso relativi.
E’ uno scritto che può piacere come non, non faccio mistero di averlo trovato a tratti freddo, distaccato, malinconico, incompleto ma anche di averne apprezzati altrettanti aspetti, tra questi la prospettiva descritta capace di trasportare chi legge direttamente negli anni delle persecuzioni razziali, della censura, della paura, della resistenza. A tal proposito piacevole è riscoprire di personalità che ad oggi sono astratte e conosciute dalle nuove generazioni come un ricordo, un mito lontano ed inconsistente. Durante la lettura è interessante apprendere di queste figure, valutarne pregi e difetti, sentirsi al loro fianco, vivendo con i loro occhi della dittatura, della sua ascesa, ma anche della ripresa.
Non indimenticabile, ma sicuramente da leggere.
«Era, il dopoguerra, un tempo in cui tutti pensavano d’essere dei poeti, e tutti pensavano d’essere dei politici; e tutti s’immaginavano che si potesse e si dovesse anzi far poesia di tutto, dopo tanti anni in cui era sembrato che il mondo fosse ammutolito e pietrificato e la realtà era stata guardata come di là da un vetro, in una vitrea, cristallina e muta immobilità. Romanzieri e potei avevano, negli anni del fascismo, digiunato, non essendovi intorno molte parole che fosse consentito usare; e i pochi che ancora avevano usato parole le avevano scelte con ogni cura nel magro patrimonio di briciole che ancora restava. [..] Ora c’erano di nuovo molte parole in circolazione, e la realtà di nuovo appariva a portata di mano; perciò quegli antichi digiunatori si diedero a vendemmiarvi con delizia. E la vendemmia fu generale, perché tutti ebbero l’idea di prendervi parte [..]; ma poi avvenne che la realtà si rivelò complessa e segreta, indecifrabile e oscura non meno che il mondo dei sogni; e si rivelò ancora situata di là dal vetro, e l’illusione di aver spezzato quel vetro si rivelò effimera » p. 165-166
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È l'esposizione ordinata di fatti e avvenimenti del passato dell'autrice quali risultano da un'indagine critica, letteraria e lessicale volte ad accertare sia la verità di essi, sia le connessioni reciproche per cui è lecito riconoscere in essi un'unità di sviluppo. Storia familiare, dunque, della scrittrice in una Torino d'inizio secolo, precisamente il periodo che va dagli anni venti agli anni cinquanta. Natalia, ultima di cinque figli, è la voce narrante che, col fascino della fanciullezza e il rispetto della verità, ripercorre con la mente una successione di avvenimenti passati le vicende dei suoi cari e ne fissa il linguaggio, i motti, i modi di dire e le abitudini radicate. Molti sono i protagonisti, primo tra tutti è il padre Giuseppe Levi: la casa riecheggia delle sue urla e delle sue risate. Tenero e dispotico non tollera le cattive maniere e mal sopporta i modi goffi e impacciati della sua cerchia. Tentare un breve riassunto non è cosa facile: è una storia che ruota su se stessa, proponendo a brevi intervalli lo stesso fraseggio che lentamente conquista il lettore, col risultato di divenirgli intimo, consuetudinario, amichevole e cordiale. Vengono annotate con distacco le liti tra i fratelli, i primi amori della sorella, le leziosità della madre. Casa molto frequentata quella dei Levi: ci vive anche la domestica a volte affiancata da una sarta chiamata dalla padrona di casa per la confezione di abiti. Sono numerosi gli amici di famiglia, tutti quanti chiamati per nome. È un elenco ampio e sorprendente il salotto di casa Levi: riunisce il fior fiore del mondo intellettuale, Torinese e non d'allora. Alla narrazione delle vicende fa da sfondo la storia: si ha l'ascesa di Mussolini, le leggi razziali e la Resistenza. Temi che vengono affrontati con naturalezza e pudore, soprattutto la prigionia del padre e la morte del primo marito della Ginzburg, la quale riesce a conservare freschezza e semplicità tipiche della sua narrativa. Tra autobiografia e memoria il libro è un insieme di ricordi che il trascorrere del tempo rende labili e imprecisi. Viene riprodotto e lanciato un messaggio chiaro da parte dell'autrice a fronte della frantumazione e dispersione familiare causati dalla guerra, dai lutti, dalla separazione e dalla lontananza: quello delle frasi, del linguaggio, di tutte quelle espressioni che sorreggono e fanno riconoscere l'un l'altro i membri del clan. Questa pronuncia di locuzioni ha capacità d'unione , di serenità, d'aggregazione degli antichi rapporti della vita trascorsa, la coscienza di un nucleo familiare che cessa d'esistere, ma grazie alle parole sopravvive nel tempo. È il linguaggio il fondamento della famiglia, esiste finché viviamo, si ricrea e resuscita nei posti più reconditi, impensabili e lontani della terra. È proprio questo messaggio inequivocabile, i nostri fratelli, i genitori, gli amici che sono i testimoni di quello che siamo stati e che ora non saremo più.
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Indagine lessicale
Dialetti a parte la lingua italiana, è ovvio, è la stessa per tutti gli abitanti del Bel Paese, così come sono condivisi dall’intera popolazione modi di dire, frasi fatte, frasi celebri e luoghi comuni. Ma ogni piccola comunità fa suoi in particolare certi termini ed espressioni tipiche che appartengono solo a chi ne fa parte e che permettono a questi membri di identificarsi e di riconoscersi tra loro. Ciò accade bene o male in tutte le famiglie e la descrizione di questa sorta di “lessico famigliare” è il pretesto con cui Natalia Ginzburg descrive un lungo pezzo di storia dei Levi, la sua famiglia, raccontandola in prima persona ma con un distacco degno del miglior cronista. Vengono così fuori gli strani aggettivi usati dal padre Giuseppe per apostrofare comportamenti e modi di essere che non gli vanno a genio (negrigure, sempiezzi, sbrodeghezzi), frasi dette da questo o quel parente o amico in una determinata occasione e che, rimaste alla storia, vengono ripetute ironicamente ogni qualvolta si presenta una circostanza analoga (non siamo venuti a Bergamo a fare campagna), giochi di parole (il baco del caco del malo) e via dicendo. Il libro della Ginzburg non si limita però a questa indagine lessicale. In un’Italia alle prese prima con il fascismo e poi con un difficile dopoguerra l’autrice narra vicende più meno importanti della sua famiglia: discussioni, litigi, amori, matrimoni, ma anche l’attiva partecipazione dei suoi membri all’antifascismo e alla resistenza che porterà il padre e i fratelli chi in galera chi in esilio e le interessanti amicizie che frequentavano la casa e in cui si possono annoverare personaggi del calibro di Adriano Olivetti, Felice Balbo, Vittorio Foa, Luigi Einaudi e Leone Ginzburg. Ma particolarmente interessanti risultano i legami con Filippo Turati, che i Levi nascosero e aiutarono a scappare quando era braccato dal regime e con Cesare Pavese, di cui la scrittrice ci offre un romantico e malinconico ritratto e propone una sentita riflessione riguardo la sua morte per suicidio che forse è la parte più bella del libro. Scorrevole e piacevole, questo romanzo permette di rivivere in chiave tutto sommato simpatica un difficile periodo storico del nostro paese e da al lettore lo stimolo per giocare con la lingua e con le proprie abitudini sollecitandolo a fare mente locale sul “lessico famigliare” che usa in casa, al lavoro o con gli amici.
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Semplice, forse troppo...
Lessico famigliare. Quale famiglia non inventa le proprie parole, i propri modi di dire? Con uno stile semplice l'autrice descrive la sua infanzia, quasi come se a parlare fosse una bambina. Poi però la bambina cresce, non può continuare a vedere le cose come se fosse una bambina e invece lei lo fa. E lo stile e il punto di vista rimangono semplici, forse troppo.
Apprezzabile o meno. L' autrice non scrive per il lettore, scrive per se stessa.
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Lessico familiare.
"Che asino che sei!Che sempiezzi!Che sbrodeghezzi!"....
La particolarità di questo romanzo è che l'autrice racconta la storia della sua famiglia come se lei non facesse parte di tale agglomerato, ma come se fosse stata al di là di un vetro da dove vedeva tutto ciò che avveniva tra le pareti di casa sua (i dialoghi, le discussioni, le sfuriate e grandi risate del papà, la mamma sempre calma e pacata che non riesce mai a portare rancore, i caratteri dei fratelli e delle sorelle tutti gli uni diversi dagli altri..) in un lasso di tempo che va da prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, durante e il periodo immediatamente successivo.
In quella casa ci passano molti personaggi "famosi": Turati, Pavese, Balbo, Adriano e Alberto Olivetti tutti però descritti in modo molto approssimativo. Secondo me sarebbe stato molto più piacevole la lettura se il romanzo fosse stato raccontato soffermandosi di più sui personaggi, il loro modo di pensare, le loro gioie, i loro dolori..
La forza, invece, di questo libro è che ci fa capire che uno durante il corso della vita si può allontanare dalla sua famiglia di origine, ma ci sarà sempre un filo strettissimo che lo lega indissolubilmente a tale ambiente e affetti, basta che nella sua mente riaffiori un "espressione" usata solo fra quelle mura e la magia e fatta!
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un libro per tutti, così complesso che è riuscito
Recensione a Lessico famigliare, Einaudi, Torino 1963-1999
di Natalia Ginzburg.
Alcuni vocaboli e non altri, alcuni modi dire, così come certi argomenti, al pari di un orologio da polso o di qualsiasi altro feticcio di casa vanno a incasellarsi nei ricordi dei componenti del nucleo parentale. E’ così che prende corpo un lessico famigliare. Da un’operazione mnemonica, di recupero linguistico. Che cosa ha fatto Natalia Ginzburg nel suo Lessico famigliare, uscito a stampa nell’ormai lontano 1963 e scritto di getto in pochi mesi poco prima della data di pubblicazione? A messo mano al lessico di casa. Si è attaccata ai tic linguistici uditi in casa dal burbero professore di anatomia che era suo padre, dall’affabile e sbadata casalinga che era la madre, dai fratelli, tutti più grandi di lei, e dalla cerchia dei parenti e degli amici più prossimi, per mettere insieme un concentrato di ricordi che fosse rappresentativo di quella famiglia, sullo sfondo di quarant’anni di storia d’Italia. Grossomodo, dall’avvento del fascismo alla fine degli anni Cinquanta. Si badi, la famiglia Levi (che era il cognome della scrittrice da nubile) non era una famiglia qualunque. Ebreo, professore universitario il padre, cristiana, di estrazione borghese la madre. Il cognato, ovvero il marito della sorella Paola, è Adriano Olivetti, l’industriale a capo della fabbrica omonima, a cui lo sviluppo culturale e sociale di chi lavorava alle sue dipendenze stava a cuore non meno delle sorti economiche dell’azienda, che seppe mantenersi competitiva a livello mondiale anche dopo di lui. Natalia sposerà Leone Ginzburg, intellettuale di prestigio e antifascista che morì in carcere durante la guerra. Insieme i Ginzburg, anche se in tempi diversi, avranno un ruolo di primo piano nelle scelte culturali della Einaudi, condividendo il lavoro con gli altri importanti intellettuali che gravitarono intorno alla casa editrice di Torino. I fratelli di Natalia, dopo aver partecipato attivamente al movimento antifascista, si ritaglieranno ruoli importanti nelle professioni. E fin qui per dire chi erano i Levi e con chi si accompagnavano.
E ora veniamo al lessico. Ci sono le parole e le espressioni ormai diventate celebri, come il “non fare malegrazie” detto dal padre ai figli nell’invitarli di continuo a un maggior contegno, oppure “sei un asino” espressione tipica, sempre del professor Levi, per dare dello screanzato al primo dei figli che gli venisse a tiro. Ma quello che ci ha veramente restituito la Ginzburg scrittrice è farci sentir camminare per casa i Levi, sentirli passare dalle studio, dalle camere da letto al soggiorno per pranzo e per cena, e qui discutere come ogni altra famiglia. Ci ha dato una rappresentazione di vita famigliare attraverso un racconto fatto di espressioni quotidiane, dettagli minimi di vita domestica, amicizie e frequentazioni basate su incontri semplici. Si usciva di casa, si facevano quattro passi lungo corso re Umberto o lungo qualche altra via centrale di Torino e così si incontrava sempre qualcuno. Il tutto, sullo sfondo di eventi nazionali e mondiali tra i più importanti e drammatici del Novecento, eventi che, appunto, sono stati lasciati volutamente sullo sfondo, affinché non appannassero con la loro urgenza storica e psicologica, la naturalezza dei personaggi che li hanno vissuti giorno dopo giorno, momento dopo momento.
Si è scritto, per mano di alcuni degli eminenti recensori di questo fortunatissimo libro, che l’olocausto, ovvero l’evento più drammatico per una famiglia ebrea nel periodo storico di riferimento, non viene praticamente mai nominato direttamente. E anche il fascismo, così come l’antifascismo attivo dei Levi sembrano solo accennati, quasi come fossero stati un banale inghippo per la tranquillità dei membri della famiglia e degli amici più prossimi. Sappiamo che non fu così, ovviamente. Tuttavia nel libro si tace la storia degli accadimenti che sconvolsero il mondo per non togliere naturalezza alle persone chiamate sulla ribalta dell’intreccio narrativo. Vi si accenna soltanto qua e là in riferimento a cosa è capitato a questo o quel personaggio, amico o parente che sia.
Ma il vero capolavoro la Ginzburg l’ha fatto nelle scelte linguistiche e di focalizzazione della voce narrante: la sua voce di bambina, di ragazza, di figlia, di moglie, di madre, di intellettuale scrittrice. Tutte queste voci e i connessi punti di vista sono montati con una costruzione temporale molto movimentata sul piano dell’intreccio, così che Natalia bambina vede e descrive le cose ma poi il commento viene lasciato alla ragazza o alla donna ormai adulta, quando non direttamente alla scrittrice con la sua schietta sensibilità talentuosa, per ritornare ancora alla bambina o alla ragazza che vive l’evento in presa diretta. Il linguaggio della voce che narra si fa mimetico del parlato, del colloquiale e famigliare. La tecnica narrativa utilizzata è quella dell’understatement, ovvero del raccontare senza eccedere nei dettagli, senza voler dire tutto e subito, quanto piuttosto nell’omettere e nel ripulire il racconto in favore di ciò che è veramente essenziale, affinché quello che resta, sia quello che veramente merita di assurgere a valore di simbolo.
Se è vero, parafrasando l’incipit di Anna Karénina, la cui traduzione italiana ancora in circolazione è ancora quella di Leone Ginzburg, che tutte le famiglie felici si assomigliamo, mentre quelle infelici lo sono ciascuna a suo modo, allora un lessico famigliare per diventare veramente unico dovrebbe appartenere a una famiglia infelice. O, meglio a una famiglia infelice a suo modo. Che non necessariamente vuol dire infelice per tutti. Ecco, forse la famiglia Ginzburg era infelice a suo modo e a suo modo felice. La differenza con tutte le altre famiglie e che ora la sua vicenda appartiene alla storia della letteratura mondiale, proprio come quella dei Karénina che ci ha lasciato Tolstoj.
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Mi piace il padre
E’ la terza o quarta volta che lo leggo. Ci sono libri che a ogni rilettura ti piacciono di più. Capolavori, si chiamano.
La Ginzburg ricorda la propria famiglia attraverso fatti, luoghi e persone, e nel farlo rievoca con maestria i gesti, le frasi e le parole quotidiane, che diventano quasi più importanti dei fatti. A chi legge sembra di VEDERE la madre che fa il solitario, al mattino, dolce affettuosa colta e incapace di vivere senza una serva, sembra di UDIRE le urla del padre autoritario e dispotico, sembra di RESPIRARE l’aria della montagna dove la famiglia va in vacanza per tutta l’estate, sembra di SENTIRE le parole di una bambina che racconta dei suoi familiari, e questa bambina è l’autrice, con quel suo ricordare le cose più semplici con un linguaggio semplice …. Ma si sa che “una facile lettura è dannatamente difficile da scrivere”
Il personaggio che amo di più è il padre Giuseppe: impulsivo, iroso, inflessibile, caparbio, ma in fondo tenero, di quella tenerezza timida e, quasi per necessità di difendersi da essa, rivestita di rudezza. Indimenticabili i modi di dire di questo professore di anatomia: “Non fate sbrodeghezzi! Non fate potacci! Non siete gente da portare nei loghi!” (in caso di maleducazione a tavola) “Quel tipo mi è sembrato un bel sempio!” (giudizio su una nuova conoscenza) “Che sempia che sei! Che asina!” (complimenti alla moglie) “Voi vi annoiate perché non avete vita interiore!” (ai famigliari) “ M’importa assai a me di morire!” (quando si rifiutava di scendere nei rifugi antiaerei).
Mi piace perchè è una persona autentica, coraggiosa, coerente, che non si fa condizionare, che non teme il giudizio altrui. Mi piacciono gli uomini così: con grandi difetti e grandi virtù. Mio padre, mio marito, il mio prof di italiano delle magistrali. Non mi affascinano le persone troppo diplomatiche, troppo cortesi, troppo ordinarie, troppo a modo. Quelle che non si arrabbiano mai, che vogliono piacere a tutti e non scontentare nessuno. Quelle che non hanno il coraggio di mostrare anche il proprio lato oscuro.
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Lessico famigliare piacevolissimo
E’ la storia vera della famiglia Ginzburg, la famiglia della scrittrice, tra Milano e Torino. La storia di una famiglia con il padre ebreo, tutti antifascisti, nel periodo tra il fascismo e gli anni 50. Una storia anche movimentata, molti di loro finiscono reclusi nelle carceri fasciste, spesso appoggiano clandestinamente esponenti socialisti (memorabile la fuga di Turati, amico di famiglia, verso la Francia, con tappa notturna a casa loro a Torino). Ma questi fatti importanti, nella loro cornice storica, rimangono da sfondo alle vicende ben piu’ intime e quotidiane della famiglia. Insomma dei pantofolai dalla vita spericolata. Come ogni famiglia, ha un lessico, fatto di frasi fatte e ripetute, ognuno le proprie. Simpaticissimo il padre, gran personaggio, con tutta la sua filosofia di vita e definizioni relative. Simpatici tutti, la madre, i fratelli e le sorelle, ognuno col suo carattere, ognuno con la sua parte di parole, definizioni, giudizi.... piano piano si entra nel linguaggio della famiglia, e, finito il libro, talvolta viene da usare qualche loro espressione!
‚’Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice e’ infelice a suo modo.’’ Lev Tolstoj.
Libro da leggere assolutamente in casa, si consiglia di attendere l’autunno per avere un’atmosfera piu’ indicata. Meglio dopo aver mangiato una pasta fatta in casa condita con olio e tartufo nero a scaglie sottili (piatto un tempo popolare), accompagnata da un vino Bonarda dell’Oltrepo pavese.
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