Le città invisibili
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Poema d'amore alle città
“Che cos’è oggi la città per noi? Penso d’aver scritto qualcosa come un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città.” Immedesimandosi nel celebre Marco Polo, Calvino immagina di trovarsi al fianco dell'imperatore Kublai Khan. Il sovrano tartaro chiede al suo interlocutore di intrattenerlo con i suoi racconti di viaggio, dimostrando particolare interesse verso la descrizione delle città da lui visitate. Com'è ovvio quando c'è di mezzo Calvino, il resoconto dell'esploratore veneziano prenderà una piega ben diversa rispetto alle aspettative del Khan e dello stesso lettore. Quelle descritte dall'autore, infatti, sono città invisibili, oniriche, immaginarie, città che hanno nomi di donna e che non sono riconducibili a quelle reali, se non per qualche aspetto che può richiamarne alla memoria qualcuna di quelle esistenti. Città spesso fuori dallo spazio e dal tempo, che Calvino divide in una serie di bizzarre categorie associate a sentimenti, a luoghi, ad aggettivi, a sostantivi, che a volte si ripetono e che danno il titolo ai vari capitoli, ognuno dei quali ha l'obiettivo di generare uno spunto di riflessione. La stessa città può assumere aspetti diversi a seconda di chi la guarda. Quella vista da chi ci entra per la prima volta non è la stessa che vede chi ne è appena uscito, come diversa ancora può essere per chi ne è talmente affascinato da perdervisi o per chi semplicemente ne dà uno sguardo superficiale di passaggio. Avremo quindi ora le città e il desiderio, ora le città e gli occhi, passeremo dalle città sottili alle città e i morti, visiteremo le città continue e arriveremo fino alle città e il cielo, in un racconto variopinto, poliedrico, coinvolgente, fantasioso come solo Calvino può essere. Scritto in maniera saltuaria, un pezzo per volta, nel corso di diversi anni, questo libro subisce le influenze dei diversi stati d'animo dell'autore, delle sue letture, dei suoi spostamenti, dei discorsi fatti con gli amici, quasi fosse un diario su cui riversare sensazioni, stati d'animo, ispirazioni, fantasie, trasformando tutto ciò in quei luoghi immaginari che diventano le città invisibili. "...Dunque è davvero un viaggio nella memoria, il tuo! – Il Gran Kan, sempre a orecchie tese, sobbalzava sull’amaca ogni volta che coglieva nel discorso di Marco un’inflessione sospirosa. – È per smaltire un carico di nostalgia che sei andato tanto lontano! – esclamava, oppure: – Con la stiva piena di rimpianti fai ritorno dalle tue spedizioni! – e soggiungeva, con sarcasmo: – Magri acquisti, a dire il vero, per un mercante della Serenissima! Era questo il punto cui tendevano tutte le domande di Kublai sul passato e sul futuro, era da un’ora che ci giocava come il gatto col topo, e finalmente metteva Marco alle strette, piombandogli addosso, piantandogli un ginocchio sul petto, afferrandolo per la barba: – Questo volevo sapere da te: confessa cosa contrabbandi: stati d’animo, stati di grazia, elegie! Frasi e atti forse soltanto pensati, mentre i due, silenziosi e immobili, guardavano salire lentamente il fumo delle loro pipe. La nuvola ora si dissolveva su un filo di vento, ora restava sospesa a mezz’aria; e la risposta era in quella nuvola. Al soffio che portava via il fumo Marco pensava ai vapori che annebbiano la distesa del mare e le catene delle montagne e al diradarsi lasciano l’aria secca e diafana svelando città lontane."
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Città immaginate, città immagazzinate
«Viaggi per rivivere il tuo passato? – era a questo punto la domanda del Kan, che poteva anche essere formulata così: Viaggi per ritrovare il tuo futuro? E la risposta di Marco: - L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.»
Perché leggere Italo Calvino? Perché leggere “Le città invisibili”? Quante volte ci chiediamo il perché del nostro essere o non essere attratti da un’opera o da un autore, quante altre ci avviciniamo a quello stesso autore anche o solo per “dovere” per poi ritornarvi in età diversa, anche adulta, e riscoprire completamente una prosa narrata. Tante volte non sappiamo spiegarci il motivo. Altre cerchiamo comunque delle risposte che potrebbero trovare fondamento in una caratteristica intrinseca del titolo, delle descrizioni, o anche solo del nome. Tuttavia, però, spesso e volentieri un vero perché non c’è, è l’autore come il libro a chiamarci. E allora non è semplice nemmeno trovare un perché alla scelta di “Le città invisibili”, scritto classe 1972, dove prevale la tecnica combinatoria e dove ad essere protagoniste sono città poetiche, fantasiose, avveniristiche ed ancora le riflessioni su molteplici temi che si susseguono tra loro.
È innegabile quanto l’opera sia intrisa e influenzata dalla semiotica e dallo strutturalismo. A far da padrone una serie di intrecci con baluardo il dialogo tra Marco Polo e Tartari Kublai che avvia e apre ogni capitolo. La narrazione si dipana tra città reali mescolate ad altrettante frutto dell’immaginazione, dei sogni, dei viaggi, della fantasia. L’imperatore deve essere attratto, incuriosito, trattenuto. Imperatore che, a sua volta, lo riempie di domande. Da qui una struttura in apparenza composta da nove capitoli che si suddividono internamente in 55 città con nome di donne e a loro volta suddivise in altrettante 11 categorie, dalle città della memoria sino a quelle nascoste. “Le città invisibili” è nel concreto un poliedro che consente a ciascuno di vedere il proprio preferito finale. E non è forse così già la vita stessa nonché la lettura che essendo soggettiva a un suo diverso finale di volta in volta? Ed ancora, è possibile dare un vero ordine alla realtà per natura in disordine? Trovare il proprio posto, il proprio ordine nel mondo, realizzare i propri obiettivi?
«L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.»
Tra sogni, desideri, paure, immagini che nascono nell’immaginario e che seguono regole assurde con altrettante differenti prospettive. Ancora una volta a far da padrone è il ricordo, tema caro all’autore. Cos’è il tempo, cos’è la morte, cos’è il desiderio? Tematiche, queste, che sono consone al narratore e che non mancano di far breccia e tornare nei suoi scritti. Ed esattamente come per ogni opera a sua firma, ancora una volta, siamo davanti a un componimento da gustare un poco alla volta, senza fretta, senza dover correre. Un viaggio che si lascia gustare ed assaporare, un viaggio che si scandisce in un intercedere semplice e con un ritmo ben cadenzato che non delude le aspettative e che trattiene, ancora una volta, tra sogno e realtà.
«È delle città come dei sogni: tutto l'immaginabile può essere sognato
ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni
sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un'altra.
- lo non ho desideri né paure, - dichiarò il Kan, - e i miei sogni sono composti o dalla mente o dal caso.
- Anche le città credono d'essere opera della mente o del caso, ma né l'una né l'altro bastano a tener su le loro muro. D’una
città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.
- O la domanda che ti pone obbligandoti a rispondere, come Tebe per bocca della Sfinge.»
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Pensieri in forme di città
Con questo libro, che desideravo leggere da molto tempo ma che solo ora sono riuscito a recuperare, ho avuto la conferma della genialità di Calvino; una genialità che, tuttavia, in certi casi è difficile da afferrare. A qualcuno potrebbe apparire come un pregio, ma per quanto mi riguarda è quello che non mi ha permesso di amare totalmente “Le città invisibili”. Per come la vedo io, il genio completo è colui che riesce anche a rendere al meglio al mondo il frutto di questo dono. È assolutamente apprezzabile il modo in cui l’autore si abbandoni ai viaggi della sua mente; sono ammirevoli i voli pindarici che esegue nella sua immaginazione e che prova a esprimere col padroneggiamento assoluto della nostra lingua. Tuttavia, è difficile entrare in un mondo e in una concezione di esso che, a volte, diventa quasi comprensibile soltanto alla mente che l’ha partorito.
“Le città invisibili” è una raccolta di pensieri che prendono la forma di città, o di città che prendono forma di pensieri. Non si tratta di un romanzo, ma di descrizioni estetiche e allegoriche di alcune città di fantasia, per la maggior parte surreali. Alcune descrizioni sono favolose: queste città prendono improvvisamente vita nella mente del lettore grazie all’immensa maestria di Calvino, che riesce a materializzare città assurde, che nulla hanno delle città che siamo abituati a osservare giorno dopo giorno; eppure ci appaiono quasi reali, assolutamente possibili, e cariche di una suggestione che nessuna città terrestre potrebbe avere. Oltre alle vivide immagini però, ci troveremo ad affrontare i pensieri che le forme di quelle città fanno nascere, con la figura dei suoi abitanti, che possono rappresentare vari lati della natura umana.
Ogni descrizione è collegata dai dialoghi tra l’imperatore Khan e Marco Polo, che è il narratore e descrittore delle città di cui ci ritroveremo a leggere, visitate nel corso dei suoi viaggi. Ma sono viaggi reali? Chissà.
“Le città invisibili” è un esperimento audace, unico, che probabilmente andrebbe letto con l’attenzione che riserveremmo a dei componimenti poetici. La loro brevità, in effetti, è uno degli aspetti che suggerirebbe questo approccio. Credo proprio che lo rileggerò, in futuro, per provare a cavare di più da queste parole che Calvino ha messo insieme, e che lo elevano comunque su un gradino più alta sulle scale della mia stima letteraria.
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
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Piacevole
Le citta´ invisibili e´ un classico della letteratura italiana contemporanea, ad opera di quel genio letterario di Italo Calvino, che personalmente amo molto. Marco Polo racconta a Kublai Khan tutte le citta´ che ha attraversato durante i suoi viaggi, rispondendo a una domanda quasi primordiale: perche´ sono state fondate alcune citta´? Cosa le spinge a non morire e a sopravvivere alla storia?
E cosi´ troviamo la citta´ fondata da uomini in cerca della stessa donna, apparsa loro in sogno, e questa citta´ si annicchila in se stessa, e´ ritorta in mille cunicoli che non portano a nulla.
Oppure c´e´ la citta´ sepolta, dove le persone vivono come talpe, sfasciate nei corpi dall´umidita´ della terra.
Insomma, la lettura e´ piacevole, sembra una favola. Purtroppo pero´ non vi ho trovato una morale, un qualcosa che rimanesse a parte l´incanto e le belle parole.
Ok, c´e´ l´ultimo capitolo, e sopratutto l´ultimo paragrafo. Quello e´ da sottolineare.
L’impero del surreale
Una serie di creazioni surreali figlie dei racconti di Marco Polo, che ogni sera appagano la curiosità, la cupidigia e le manie di grandezza dell’Imperatore dei Tartari Kublai Khan. L’uno voce narrante, l’altro orecchio attento ed ammaliato, ospiti di una sontuosa reggia orientale, scompaiono e ritornano ciclicamente, lasciando che siano le città invisibili a vestire il ruolo di protagoniste della scena.
All’interno di questa particolarissima cornice si susseguono le evocazioni di luoghi impossibili, leggendari, trasfigurazioni della follia e delle contraddizioni umane, popolati non di rado da apparizioni femminili che riecheggiano come metafora di promesse idilliache ma costantemente palesantesi effimere ed illusorie al concludersi di ciascun racconto. C’è davvero qualcosa di prodigioso nella capacità di questi miracolosi capoluoghi del sogno di sorgere in tutta la loro complessità davanti agli occhi del lettore.
Le vie dell’immaginazione si intrecciano con quelle della realtà e si resta stregati da una narrazione che si appella ad un linguaggio aulico, carica di poesia, misteri e rivelazioni.
Le poche pagine di questo romanzo, più unico che raro nel suo genere, si potrebbero leggere tutte d’un fiato, ma sono solo la lentezza e la concentrazione a permetterci di assaporare l’atmosfera dei luoghi onirici richiamati, di cogliere l’ambiziosa architettura dell’opera e di carpire le profezie più recondite.
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Città invisibili o città utopiche?
“Viaggi per rivivere il tuo passato?- era a questo punto la domanda del Kan, che poteva anche essere formulata così: Viaggi per ritrovare il tuo futuro? E la risposta di Marco:- L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà”
Le città invisibili è un opera di Calvino pubblicata nel 1972, nella quale prevale l’utilizzo della tecnica combinatoria, essendo influenzato dalla semiotica e dallo strutturalismo. Il punto di partenza di questi intrecci sta nel dialogo tra Marco Polo e l’imperatore dei Tartari Kublai Khan che apre ogni capitolo. Marco Polo descrive città reali mescolate a città immaginarie frutto dei suoi viaggi e della sua fantasia per attirare l’attenzione dell’imperatore. Quest’ultimo, difatti, riempie costui di domande sul perché della descrizione di quella o quell’altra città, sul perché non descrive la sua città e su come fa a sapere tutto ciò. Il dialogo si snoda in nove capitoli con un ulteriore divisione interna: 55 città denominate con nomi di donne, suddivise in 11 categorie, dalle città della memoria alle città nascoste. Si presenta come un libro poliedro, in quanto ognuno può seguire il raggruppamento che vuole o vedere finali dappertutto. Difatti, non vi è una fine univoca.
Calvino, tramite la figura di Marco Polo tenta di dare un ordine alla realtà, in quanto vige il disordine e la complessità che generano l’inferno in cui siamo costretti a vivere ogni giorno. La “fine” del romanzo mi ha colpito molto, perché vi è tale citazione: “E’ l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme e i due modi per non soffrirne sono: Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. In sostanza tenta di spiegare come l’individuo da sempre vive una lotta dentro se stesso: adeguarsi alle regole della società, di conseguenza conformarsi rinunciando allo sviluppo di un Io personale oppure discostarsi dalla società. Se sceglie quest’ultima via, verrà etichettato come diverso, deviante, colui che presenta un comportamento difforme alle norme vigenti all’interno della società ma che in un certo senso sviluppa mete, obiettivi e valori propri. Dall’altra parte può riferirsi anche alle relazioni interpersonali che tendiamo a costruire all’interno della società. Piuttosto che legarci passivamente in maniera uguale a tutti o ai soggetti potenti, bisogna scegliere con cura chi avere accanto e sapergli dedicare tempo e spazio. In un certo senso sembra un inno alla cura, a prenderci cura di chi ci vuole nella sua vita.
Tuttavia, queste città invisibili sono anche sogni che si nascondono dietro i desideri, le paure degli individui. Nascono dall’immaginario, seguendo regole assurde, prospettive ingannevoli e fluiscono nella nostra mente con pura fantasia. Calvino gioca molto con il tema del ricordo e della memoria lo si vede nella città di nome Irene: “La città per chi passa senza entrarci è una, e un’altra per chi ne è preso e non ne esce; una è la città in cui s’arriva la prima volta, un’altra quella che si lascia per non tornare; ognuna merita un nome diverso; forse di Irene ho già parlato sotto altri nomi; forse non ho parlato che di Irene”.
All’interno delle città delineate, il tempo, la morte e il desiderio sono tematiche ricorrenti, si sfida il lettore a riuscire a cogliere il significato nascosto e l’ordine personale. Ogni concetto e valore si rivela duplice, quindi implica una rete entro la quale vi sono molteplici e infiniti percorsi da percorrere che portano ad altrettanti infinite e plurime ramificazioni.
“Anche a Raissa, città triste, corre un filo invisibile che allaccia un essere vivente a un altro per un attimo e si disfa, poi torna a tendersi tra punti in movimento disegnando nuove rapide figure cosicché a ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa d’esistere”.
E’ un gioiello di opera, un capolavoro che mi ha conquistato dalla prima pagina, come dice lo stesso autore è un vero inno d’amore alle città. Si parte dalla costruzione di una buona città per la formazione di un ottimo individuo e di conseguenza di un rispettoso cittadino. Ogni essere vivente può essere paragonato ad una città appena fondata che ha bisogno del rispetto delle norme e dell’amore dei suoi cittadini per mantenere ordine e sicurezza. Per gli scettici, può sembrare un libro utopico descritto dalla mente visionaria di un autore che cerca di immaginare un mondo che non esiste. Per chi invece legge con una mente aperta e critica potrà leggerne il vero significato: E’ un viaggio da gustare con lentezza, a piccoli sorsi attenzionando in ogni dettaglio le singole città con le loro particolarità. Una miriade di immagini che investono il lettore che cercano di trovare tramite il linguaggio il modo di comunicargli i diversi simboli presenti. Ognuno poi darà la sua personale interpretazione, visione delle cose.
“Se uomini e donne cominciassero a vivere i loro effimeri sogni, ogni fantasma diventerebbe una persona con cui cominciare una storia d’inseguimenti, di finzioni, di malintesi, d’urti, di oppressioni, e la giostra delle fantasie si fermerebbe”.
Per tutti coloro che sognano una città solo per loro, una città su misura del proprio sè. Per chi si vuole lasciare cullare dalla rete di Calvino e per tutti coloro che hanno desiderio di vedere materializzarsi le proprie fantasie. Vi lascio con le parole della prefazione dell’opera che secondo me racchiudono la vera essenza dell’opera:
“Cos’ è oggi la città, per noi?” Penso d’aver scritto qualcosa come un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città. Forse stiamo avvicinandoci a un momento di crisi della vita urbana, e Le città invisibili, sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili ”.
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Piccole tessere del regno smisurato
“(...) il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina.”
Sulla scalinata del palazzo reale, il Gran Khan ascolta i racconti sul suo regno, sin dove esso si estende. Perché un re, costretto nella sua reggia, può conoscere i suoi domìni meno di un qualsiasi viaggiatore.
Chi gli siede accanto non è un viaggiatore come gli altri: è il veneziano Marco Polo, che ha girato le terre di quello sterminato regno d'Oriente, conoscendolo attraverso gli abitati che i sudditi vi hanno edificato.
Cinquantacinque città, quelle che lo straniero descrive, e tutte hanno un nome di donna: Zora, Maurilia, Valdrada, che si specchia nell'acqua come sia due città gemelle, Eutropia, Aglaura, Ersilia, fatta di fili tesi tra gli spigoli delle case, Melania, i cui abitanti vivono, rappresentano delle parti e nella morte si danno il cambio, Perinzia e tante altre.
Sulla scalinata del palazzo Marco Polo racconta, Kublai Khan ascolta, a volte vede immagini di città e chiede al viaggiatore in quale punto del regno si trovi ciò che lui immagina; altre volte si convince che quelle città narrate non esistono, o presto non esisteranno; o ancora che Marco Polo in qualche modo racconti sempre della stessa città, la sua Venezia.
Surreale più che debitore dei simboli, “Le città invisibili” è stato definito da Pier Paolo Pasolini il più bel libro di Italo Calvino. Vi si racconta di luoghi che si diluiscono in oggetti, connessioni, contraddizioni, incantesimi.
Cinque ritratti per ognuna delle undici sezioni dello scritto: le città vengono descritte per la memoria che conservano, i segni che le riepilogano, gli scambi che ospitano, gli occhi che sono in grado di attirare, il desiderio che contengono, il cielo che lambiscono, il nome che portano, i morti che continuano a viverci. Infine le città “sottili”, la cui linea di confine tra una cosa e il suo contrario è molto labile; le città “nascoste”, che recano in sé magie non facilmente decifrabili; le città “continue”, che riescono a rinnovarsi incessantemente.
E' tutto questo non è ancora il libro, perché il filo della narrazione è dato da un ulteriore racconto: quello del narratore (Marco Polo) che descrive le città all'ascoltatore (Gran Khan), tacendo del fatto che essi hanno alle loro spalle lo spettatore (il lettore). A volte, poi, i due soggetti si scambiano i ruoli: è Kublai Khan a raccontare di città mai viste, chiedendo a Marco Polo di abbinarle alle proprie visioni. Espediente narrativo – quello del racconto nel racconto – che regala al libro uno splendido alone di nostalgia, l'opportunità di rincorrere il paradosso e, in ultimo, una nuova occasione di riflettere sull'esistenza.
Alla fine le città invisibili sono il contrario delle nostre città invivibili (come sosterrà l'autore), o forse sono il racconto di quello che gli uomini hanno voluto creare, o forse di quello che non sono riusciti a creare pur intendendolo fare (in quanto monadi, gli uomini non sono in grado di fondare un luogo che realizzi una volontà unanime). O forse c'è ancora un'altra spiegazione, che non è dato intravedere...
E' il pregio di questo volume (e il motivo di tante interpretazioni e studi che lo hanno riguardato, fin nei meandri della sua costruzione logica, posto che davvero ci sia): Calvino medesimo affermò che libri come questo superano l'intenzione del loro autore e diventano piena proprietà del lettore. Un indizio anche questo?
“Forse l'impero, penso Kublai, non è altro che uno zodiaco di fantasmi della mente.
-Il giorno in cui conoscerò tutti gli emblemi,- chiese a Marco, -riuscirò a possedere il mio impero, finalmente?-
E il veneziano: -Sire, non lo credere: quel giorno sarai tu stesso emblema tra gli emblemi.-”
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Ciò che inferno non è
Incontri un libro per caso, un vecchio tomo dalle pagine sgualcite che si intromette lungo il tuo cammino. Non era ciò che cercavi eppure l'hai trovato e fin dalle prime pagine ti rendi conto che avresti voluto trovarlo prima e farne il tuo tesoro.
I libri parlano, raccontano storie che sono lontane da noi eppure quasi si riescono a toccare, si riesce ad annusarne gli odori buoni o cattivi che siano. Calvino in questo libro ha la capacità di raccontare una storia mutevole come mutevoli sono i lettori. Le città invisibili narrano una storia diversa ad ogni lettore, narrano la sua storia e su di lui si plasma pagina per pagina. Un romanzo profondamente metaforico scaturito dalla penna di un grande maestro della letteratura italiana.
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quadri possibilistici
Quando un libro arriva a farsi spazio e vivida breccia in ogni tuo interstizio ti chiedi come mai il destino è stato cosi scorretto ma paziente nel fartelo incontrare solamente ora.
Una pazienza saggia, tardiva ma probabilmente consona.
Il titolo “Le città invisibili” mi ha sempre affascinato,perché in lui é già intrinseco l'antitesi di queste due parole,prese nude e crude nella loro oggettività più semantica.
E' buffo associare qualcosa di immateriale,inafferrabile alla parola“città” il cui significato é un agglomerato di materia che si manifesta su se stessa in un divenire,in un ruolo che ci circonda racchiudendoci tutt'ora.
Anche la mia fascinazione si é altrettanto materializzata in ogni singolo racconto che costituisce questo gioiello criptico ma immediato,ammaliante e leggero come la struttura del dormiveglia
Un opera nata da appunti meticolosi e poi strutturata in maniera brillante,geniale, manifestandosi in un'ampiezza corposa e sfuggente,lasciando perennemente un ritmo interlocutorio e pregno di voluttà immaginativa.
Le chiavi di letture sono molteplici e nascondono altre serrature che spero un giorno di poter aprire;man mano si sono fatti strada,in me,perimetri sconfinati,inesistenti che possono racchiudere e trasmutare le nostre paure,i nostri sogni,i nostri desideri destabilizzandoci ma dandoci anche la certezza di un concetto ambizioso del desiderio di armonia che conquista la maggior parte dei nostri cuori.
Immaginare infinite possibilità racchiude in sé un ottimismo implicito.
Annullare e mettere in discussione l'idea persuasiva di perfezione é una spinta all'umiltà degli infiniti simboli abbarbicati nella nostra mente.
Ho chiuso questi micromondi surrealistici,queste città dai nomi femminili dimenticati da far schioccare in bocca a voce alta e qualcosa in me é cambiato e non ne sono ancora del tutto cosciente
E' come aver visto realmente per una frazione di secondo in uno spazio prolungato la torre di Babele o essere incappati nella devozione della Sfinge a porci le domande fondamentali.
Non c'é un ritorno dalla bellezza sospesa e anelata perché lei ci possiede da sempre e con corteggiamenti anomali ci richiama a sé.
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Genio e sperimentalismo
Uno dei romanzi più complessi di Calvino: per contenuti, struttura, influssi e impostazione culturale. Sicuramente un prodotto del suo genio creativo immerso negli sperimentalismi degli anni settanta.
Il contenuto apparente: le città invisibili
Sembra una contraddizione in termini: attribuire l’apparente contenuto a realtà invisibili, le città invisibili. Ma è una costante in Calvino che, fin dalla trilogia de “I nostri antenati”, si è occupato - nell’ordine - di un personaggio fisicamente dimidiato, di un eroe rampante e arboricolo, di un’entità cavalleresca inesistente. Contraddizioni viventi o personificazioni di fantasmi umani.
Ogni capitolo è introdotto dal dialogo tra Marco Polo e l’imperatore dei Tartari: Kublai Khan interroga l’esploratore sulle città del suo sterminato impero. E Marco Polo descrive città reali o immaginarie, suscitando interesse e attenzione nel Gran Khan.
Le cinquantacinque città descritte da Marco Polo hanno nomi di donna e sono il simbolo della complessità reale da imbrigliare nella struttura il meno possibile rigida di un’opera.
La struttura e la letteratura combinatoria
Tecnicamente, il romanzo pubblicato nel 1972 rappresenta – per ammissione dello stesso autore (“questo libro è fatto a poliedro, e di conclusioni ne ha un po' dappertutto, scritte lungo tutti i suoi spigoli”) – un esperimento della letteratura combinatoria.
I dialoghi di Marco Polo e Kublai Khan sono una cornice, un telaio. All'interno dei nove capitoli, il lettore può assumere un ruolo attivo e giocare a “gatto e topo” o a “nascondino” con l’autore, cercando le combinazioni cifrate dell’opera e i significati.
Le città sono organizzate in undici categorie: memoria, desiderio, segni, le città sottili, scambi, occhi, nome, morti cielo, le città continue, le città nascoste.
Il lettore può valutare se seguire la sequenza proposta dall’autore, oppure visitare le città per categorie o addirittura spigolare a proprio piacimento saltando di palo in frasca. Un tradizionalista come me, incantato dall’originalità di Calvino, ha ovviamente seguito pedissequamente l’ordine narrativo impartito dall’autore. Ma non escludo, in futuro, una lettura più creativa ed egoriferita dell’opera.
L’impostazione culturale tra simbolismo, utopia ed esistenzialismo
Ne “Le città invisibili” ho ritrovato tutti i principali influssi culturali del novecento, sintetizzati in un’opera potentemente simbolica, plastica nell’architettura organica e fotografica nelle tappe.
La ricerca di Calvino riscopre le valenze oniriche illuminate dalla teoria psicanalitica: le città sono sogni perché “tutto l'immaginabile può essere sognato, ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un'altra”.
Il sogno poi sconfina in una nuova proposta di utopia: destrutturata, discontinua, immaginifica, cavalcando una realtà che non è concreta, ma fluida, ideale, fantastica.
I temi del ricordo e del tempo evocano Proust in modo nuovo, mentre l’angoscia del disordine – che sia questa la matrice dell’ansia struttural-semiotica di Calvino? – fa rivivere l’esistenzialismo di Sartre nel fuoco dell’inferno reale. Con una proposta: vi sono due modi per affrontare “l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme” . “Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Come dire, delle due l’una: o conformarsi o ribellarsi…
Un romanzo che fornisce sempre nuovi spunti
Come quello che anima "Invisible cities", rappresentazione ispirata alle città invisibili di Italo Calvino. Se queste sono "luoghi della mente", per riprodurre in modo nuovo la pièce di Christopher Cerrone il regista Yuval Sharon ha scelto la Union Station di Los Angeles. Un'orchestra, otto cantanti e sette ballerini, coreografati da Danielle Agami, sono collegati da un sistema di microfoni e auricolari senza fili. Gli stessi strumenti vengono forniti a duecento passanti, che decidono liberamente quale delle parti dell'opera vogliono ascoltare e se rapportarsi con gli interpreti… (notizia liberamente tratta da “Repubblica on line”).
Bruno Elpis
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La bellezza invisibile della città
Grigio. Colore di passiva neutralità e di agghiacciante monotonia. Non possiede la passione del rosso, la speranza del verde, la serenità del giallo, la purezza del blu e neppure la raffinata cupezza del nero. Atono, spento, omogeneo. Non ha emozione, sentimento,vitalità e neppure infonde emozione, sentimento e vitalità. E' impersonale e inespressiva freddezza .
Pensate se questo gelido pigmento si estendesse mano a mano, secondo un processo lento ma pur sempre inesorabile. Pensate se gradualmente inghiottisse il verde dei campi, l'oro del sole, l'argento della luna, il blu del mare e del cielo. Pensate se il mondo divenisse esclusivamente grigio. Pensate se la vita divenisse esclusivamente grigia. Allora ogni sentimento appassirebbe, ogni energia si estinguerebbe e l'uomo infine crollerebbe in un abisso di fiacchezza e inespressività.
Vi sembra un incubo lontano mille anni luce dalla realtà ma non è così. Pensateci bene. Aggiungete al grigio smog, cemento, spazzatura e fetore. Non vi viene in mente niente? E se vi parlassi allora di inurbamento, cementificazione, metropoli, periferie? Ora è tutto più chiaro!
I canoni di costruzioni delle città d'oggi tendono al guadagno, alla speculazione, all'ammassare e non si preoccupano dell'abbellire, del rendere l'ambiente migliore dal punto di vista ecologico ed estetico. Sentirsi circondato dal bello stimola comportamenti nobili, retti, moralmente belli. Tuttavia, sebbene l'aspetto poco invitante, milioni di persone si ammassano nella città. Ma perché la città? E soprattutto perché la città di oggi? Che cosa si cela dietro facciate di vetro e condomini di cemento, sotto catrame e strade ipertrafficate? La città può avere una qualche bellezza nascosta?
Risponde a tutto in ciò in maniera affascinante e allo stesso tempo enigmatica Italo Calvino(1923-1985), con il suo “ultimo poema d'amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città”: Le città invisibili, pubblicato per la prima volta nel 1972.
Partiamo ab ovo. Che cosa sono le città? “Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni di un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell'economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi.” Ecco l'essenza delle città ,la loro bellezza intrinseca invisibile essendo coperta da tonnellate di edifici e di materiali da costruzione.
Da questa definizione, Italo Calvino, librandosi nelle ali della fantasia che (appare paradossale) non superano mai i confini della realtà, dà vita a un'opera all'apparenza breve ma ricchissima di riflessioni, discussioni e meditazioni di una vita che, grazie a uno stile sublime e incantevole, si proiettano in città verosimilmente impossibili. Queste ultime vengono “classificate” in undici sezioni costituite ognuna da cinque città (con nomi femminili e classicheggianti) eterogenee ma comunque con un tratto in comune. Allora troviamo:
1. Le città e la memoria dove “la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee della mano”.
2. Le città e il desiderio dove luogo abitato e desiderio si fondono nella mente del viaggiatore e del cittadino.
3. Le città e i segni dove segnali e cartelli vanno a marcare l'essenza stessa dell'abitato.
4. Le città sottili dove vengono esplorate città astratte ma rasenti la realtà.
5. Le città e gli scambi dove i commerci avvengono in maniera particolare e con mercanzie particolari
6. Le città e gli occhi dove lo sguardo assume il posto centrale
7. Le città e il nome dove il nome del luogo influenza la natura dei suoi abitanti
8. Le città e i morti dove aldilà e mondo vivente vanno a braccetto
9. Le città e il cielo dove il firmamento non è mai posto in secondo piano
10. Le città continue dove le città non finiscono mai
11. Le città nascoste dove le città celano altre città.
Il tutto poi è amalgamato dai discorsi tra il meditabondo mercante veneziano Marco Polo ( l'ideatore di tutte le descrizioni delle città presenti nell'opera) e del suo malinconico imperatore Kublai Khan, desolato perché mai riuscirà a comprendere razionalmente il suo sterminato impero.
Calvino,con il suo stile profondo ma non pesante, raffinato ma non intricato e attraverso i filosofici pensieri e le perle di saggezza di Marco Polo, affronta la tematica della città non da un punto di vista apocalittico e scettico ma da un punto di vista antropologico: più dello spiegarsi le ragioni della cementificazione e dell'urbanizzazione si chiede quali sono “le ragioni segrete che hanno portato gli uomini a vivere nelle città, ragioni che potranno valere al di là di tutte le crisi”. E inoltre si domanda anche quali sono le soluzioni per superare la nostra frenetica vita, “quell'inferno che abbiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”.
Nonostante la presenza di contenuti così interessanti, la fluidità della lettura e lo stile ammirabile dell'autore, alla fine ho provato un forte senso di amaro in bocca. Non è stata la particolarità della impostazione dell'opera a provocare ciò ma l'enorme profondità di pensiero di Calvino. Ho sentito di aver colto solo la scorza, non l'essenza. Ho provato un senso di vuoto e di incapacità di catturare ciò che si trova al di sotto dell'evidente, la profondità della profondità del messaggio dell'opera. Anche alcuni dei dialoghi tra Kublai Khan e Polo sono apparsi appartenere ad un progetto, ad un disegno che ahimè non non ho decifrato completamente.
Malgrado ciò l'opera continua ad affascinarmi e ,chissà, con qualche anno di distanza riuscirò a raggiungere il cuore di questo piccolo ma geniale monile, che vi consiglio vivamente. Buona lettura!
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Un ultimo poema d'amore alle città
“Che cos’è oggi la città per noi? Penso d’aver scritto qualcosa come un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città.”
Da una conferenza di Calvino tenuta a New York nel 1983
Il fantastico in Calvino è quanto di più ancorato alla realtà che ci possa essere. Per certi aspetti l’avveniristico nelle sue opere è un ritorno a un mondo più a misura d’uomo, un rientro nel perfetto ordine della natura da cui con il tempo ci siamo allontanati credendo di non essere sue semplici parti, ma dominatori. Del resto nel Barone rampante quella vita vissuta sugli alberi del bosco, anziché rinchiuso fra le quattro mura domestiche, è una metafora di un’evidente ritorno a una primigenia libertà che l’essere umano, nel tempo, ha sacrificato in funzione di un gretto principio di tornaconto, così come l’armatura che rinserra il Cavaliere inesistente richiama la spersonalizzazione dell’uomo che trascorre molto del suo tempo fra le lamiere di un automobile.
I primitivi all’inizio vivevano in una grotta, poi costruirono capanne, magari le une vicine alle altre per evidente difesa, ma conservando così quel principio di libertà che rende l’umano isolato quando vuole, senza togliergli la possibilità di contatto con i suoi simili. Le attuali città, fatte da condomini di molti appartamenti, finiscono invece con l’essere celle di un alveare in cui trascorrere il minor tempo possibile, forzatamente, e dentro rigide norme che, anziché regolamentare la convivenza, di fatto l’impediscono. Si conosce tutti e non si conosce nessuno; in strada c’è lo stesso scenario di una vita frenetica in cui le possibilità di contatto sono sporadiche, un saluto, per educazione, e via.
Quindi in Calvino il fantastico non è una società avveniristica e tecnologica, ma un ritorno al passato, un desiderio, forte, ma anche sussurrato, affinché l’uomo ritrovi la sua strada e la sua naturale collocazione.
Se poi vogliamo avere un esempio di scrittura del “fantastico” ai suoi massimi livelli occorre per forza di cose leggere Le città invisibili, un libro che è necessario quasi spiluccare come se i vari capitoli fossero gli acini di un grosso grappolo d’uva. Del resto l’intento dell’autore non è solo quello di darci una rappresentazione metafisica della realtà, ma anche di stimolare le nostre percezioni sensoriali affinché possiamo costruire un nostro libro sul suo libro partendo dalla base che ci viene offerta. Se il pretesto è un resoconto di Marco Polo all’imperatore Kublai Kan del regno che ha attraversato e delle città che ha visto e conosciuto, tutte identificate da nomi femminili vagamente classicheggianti, in effetti lo scopo è quello di far giungere il lettore in un’altra dimensione, in cui l’aggancio con la realtà si affievolisce per lasciare spazio allo sviluppo della fantasia secondo la volontà di ognuno.
Così è possibile leggere descrizioni di questi agglomerati urbani, completamente diversi l’uno dall’altro, perché diversi sono i loro abitanti, non coincidenti sono le loro necessità e i loro desideri.
Se già questo è molto, occorre considerare i dialoghi surreali fra Polo e l’imperatore all’inizio e alla fine di ogni descrizione, quasi una cornice del discorso che è il fulcro di tutta l’opera, vale a dire entrambi tendono ad avere una visione di questi abitati trascendentale, ben oltre l’aspetto materiale delle costruzioni, ma volto alla ricerca di un significato, che potremmo definire assoluto e divino pur in una dimensione umana, non solo delle città, ma anche dei suoi abitanti, e dell’uomo in generale.
La loro visione della città è funzionale agli uomini che ne fanno parte e al centro del tutto vi sono proprio essi, così che il grande agglomerato urbano non sia semplicemente uno stanco e depauperante dormitorio, destinato progressivamente a svuotarsi, ma uno spazio in cui, anziché relegare i suoi abitanti, li proietti verso una libertà sempre più ampia.
Il vivere comune non deve essere motivo di un isolamento individuale, perché in caso contrario la città muore e i suoi abitanti, già morti dentro, l’abbandonano. Ritorna quindi un tema caro a molti letterati, cioè quell’incomunicabilità a cui sembra destinata sempre di più l’umanità.
Il grande insegnamento di Calvino è però che è sempre possibile intraprendere o riallacciare un dialogo, lo stesso che Marco Polo e Kublai Kan intrecciano nel corso delle pagine, pur essendo due esseri del tutto isolati e prigionieri dei loro ruoli, il primo reduce da un deserto che non è solo quello che ha attraversato, ma che l’animo umano tende a costruire quando cozza contro la chiusura altrui, e il secondo, per la sua natura d’imperatore, ristretto nella gabbia d’oro della sua funzione.
Per quanto possa sembrar strano, Calvino, con la sua grandiosa fantasia, non avrebbe potuto descrivere meglio il tema della città in funzione degli uomini in contrapposizione di quella che, giorno dopo giorno, nonostante i proclami di politici ed architetti, diventa un luogo di dissociazione.
Le città invisibili finisce con l’essere, con il suo alone poetico, un atto d’amore, forse l’ultimo, per quell’agglomerato di case, di persone che vogliono vivere e non vegetare, e che noi chiamiamo genericamente città.
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