L'arminuta Hot
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Meraviglioso!
Che bel romanzo, diretto schietto sincero incisivo toccante. Non c'è una parola di troppo. Una storia di abbandono ma anche di riappropriazione delle proprie radici. Di perdita ma anche di incontro e di rinascita in una forma forse meno elegante ma più vera. Ritrovare una sorella come Adriana non è cosa da poco.
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storie di abbandoni
"A volte basta poco e la vita cambia all'improvviso."
Sono solo 176 pagine ma ne "L'Arminuta" è racchiusa tutta la storia, fatta per lo più di abbandoni, della protagonista senza nome: una ragazza di tredici anni che un giorno viene rispedita dai suoi veri genitori, di cui fino a quel momento ignorava l'esistenza, sì, proprio come se si trattasse di un pacco postale.
È l'Arminuta stessa a raccontare quello che accade da quel momento in poi e nelle sue parole c'è tutto lo smarrimento che prova, il distacco nei confronti della numerosa famiglia con cui si ritrova a vivere e la difficoltà nel comprendere quello che è successo e soprattutto il perché.
Lei, sola, inerte, trova un sostegno in Adriana, la sorella minore con cui condividerà il letto e il mancato amore dei genitori.
Ho amato molto la scrittura di Donatella Di Pietrantonio: concreta, essenziale ed aspra, riflette perfettamente il contesto in cui è ambientata la storia e riesce a trasmettere tutte le sensazioni provate dall'Arminuta.
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A chi ama i libri introspettivi
L'ARMINUTA NON MI HA CONVINTA
L'autrice usa con maestria le parole, scrive molto bene e questo si intuisce subito leggendo le prime pagine di questa storia, ma il grosso difetto di questo libro è che il tema drammatico che ci viene proposto doveva essere trattato in maniera più cruda e reale.
Certo probabilmente è solo un gusto personale però a questa storia manca l'anima, ma ora mi spiego meglio.
Il libro tratta un tema delicato, l'Arminuta, è una ragazza che da piccola viene affidata ad alcuni parenti ricchi e a quasi quattordici anni viene "scaricata" ai genitori naturali, che però vivono in condizioni più umili.
Scopre di avere una sorella e tre fratelli e non riesce ad adattarsi alla nuova realtà sentendosi fuori posto.
Il libro è corto, si lascia leggere in un pomeriggio ma quello che mi ha convinto di meno è il fatto che la Di Pietrantonio non sia andata completamente a "indagare" nell'anima dell'Arminuta, delineando questo personaggio in maniera superficiale.
L'autrice decide di non approfondire i suoi personaggi, scelta a mio avviso poco felice, purtroppo ho trovato che l'Arminuta sia fredda e distante e resti solo una spettatrice senza diventare la protagonista della sua storia, quasi non sembra reale, non ha una vera e propria reazione.
Sembra un personaggio interessante, il fatto di essere stata abbandonata da entrambe le sue madri, quella biologica e quella adottiva, dovrebbe far scattare un'empatia immediata che però non nasce subito ma nemmeno verso la fine.
L'Arminuta vuole capire perché quando aveva solo sei mesi è stata affidata a una cugina e perché è stata restituita senza motivo così da un giorno all'altro e soprattutto chi delle due madri può considerare tale.
Perfino la parola "mamma" non ha significato per lei, è sicuramente in cerca di una sua identità che non riesce a trovare, anche se non fa nulla per cambiare le cose come dicevo ha un ruolo passivo.
Per i suoi genitori è come se non ci fosse questa identità, per loro lei è solo un peso.
Adriana, la sorella, è forse il personaggio più interessante ma che comunque rimane un po' in disparte ma il rapporto che si crea con l'Arminuta è sicuramente molto intenso e di complicità.
L'autrice usa sapientemente la sua capacità comunicativa, la sua scrittura è solida, asciutta ed essenziale però va a discapito di una storia che non riesce a convincere del tutto, che trasmette poco o nulla al lettore.
Il libro sembra essere solo di chi lo ha scritto, la Di Pietrantonio l'ha tenuto per sé e non l'ha mai lasciato andare e il lettore non riesce a immedesimarsi completamente in questa storia.
Ho trovato la prima parte molto più interessante, la descrizione di quella nuova realtà da come passi dalla ricchezza alla miseria, ma poi l'autrice cambia registro e ci fa vedere un lato meno realista e forse più forzato, che sia stato a favore di una maggiore vendibilità a livello editoriale? Però ne ha fatto le spese la storia che risulta "finta".
Un vero peccato.
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- sì
- no
Di chi sei figlia tu ?
L'arminuta, in dialetto "la ritornata" , per tutto il racconto non sapremo mai il nome della ragazza che un giorno ritorna dai veri genitori dopo che per 13 anni è stata cresciuta da un'altra famiglia che credeva la sua.
La mamma, che la ragazza ha scoperto non essere la sua vera mamma, soffre di una malattia di cui nessuno vuole parlare ma non può più prendersi cura di lei così viene restituita e accompagnata a destinazione da quello che ha sempre creduto essere suo padre che però non è suo padre, e lasciata come un pacco in un ambiente completamente diverso da quello a cui era abituata.
Lei, ragazza di città cresciuta tra discreti agi, si trova in campagna , a condividere una stanza con fratelli e sorelle di età diverse, maschi e femmine insieme, nemmeno un letto per dormire, il "padre" , quello vero, non ci aveva pensato e mai ci penserà e lei divide il letto con Adriana, la sorella minore, il volto adagiato al suo piede come unico contatto umano e conforto su un materasso logoro e con l'afrore di troppe notti di incontinenza.
Adriana si rivela un personaggio straordinario, che le fa da guida e sostegno nei passi travagliati della vita che la attende.
La vera famiglia dell'arminuta vive nella miseria che sfiora l'indigenza assoluta, quando viene messo qualcosa in tavola bisogna essere svelti ad accaparrarsi qualche pezzo pena restare a stomaco vuoto, persino continuare a studiare è un lusso , le parole sono poche come se la miseria avesse svuotato anche il cuore oltre che le tasche, ma i familiari dell'arminuta tutto sono tranne che poveri di cuore.
Però non c'è spazio per le smancerie, non ci sono abbracci, carezze, solo le botte quando qualcuno con il suo comportamento non segue i rituali imposti dalla miseria per campare di poco non avendo niente.
La giovane "arminuta" scopertasi figlia di due famiglie, affettivamente sembra non essere figlia di nessuno, si sente aliena nella nuova realtà ed è aliena anche per i fratelli maschi , Vittorio, il più grande, non la riesce neanche a riconoscere come sorella e le riserva più di un'attenzione che
si riserverebbe ad una donna più adulta ma non tua sorella, Sergio la considera quasi un'intrusa e solo Adriana la accoglie davvero .
Non ci sono mamma e papà solo "la madre" e "il padre" quasi a renderli figure impersonali , nella confusione dell'arminuta che non sa perchè quella che credeva sua madre l'ha "rimandata indietro" come un elettrodomestico guasto e che ora si chiede perchè a suo tempo la madre naturale la
affidò ad una cugina.
Troverà le risposte , le meschine motivazioni per cui la madre adottiva si è liberata della sua presenza ma continua ad aiutarla a distanza e anche il perchè la vera madre la affidò alla cugina.
Scoprirà che l'ignoranza non discrimina e fa la sua dimora tra i miseri e tra i più ricchi, in modo diverso ma ugualmente terribile.
Racconto breve, parole scarne, l'autrice non fa particolari approfondimenti psicologici, lascia che siano i fatti a spiegare tutto e far esplodere dentro il lettore il sentimento verso una storia toccante.
Molto bello.
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Orfana due volte
“Ripetevo la parola mamma cento volte, finché perdeva ogni senso ed era solo una ginnastica delle labbra. Restavo orfana di due madri viventi. Una mi aveva ceduta con il suo latte ancora sulla lingua, l’altra mi aveva restituita a tredici anni. Ero figlia di separazioni, parentele false o taciute, distanze. Non sapevo più da chi provenivo”
Indubbiamente un bel libro con una storia particolare e toccante: quella di una tredicenne che viene adottata da lattante e poi restituita alla famiglia di origine senza spiegazioni.
La protagonista, io narrante senza nome, viene indicata dalla gente del borgo con l’epiteto abruzzese di “arminuta”, ossia “la ritornata”, non senza velato disprezzo. E’ il dramma di una ragazzina che scopre non solo da un giorno all’altro di avere due madri, una adottiva e una biologica, ma che si trova abbandonata e scaraventata in un mondo che le appartiene solo per le origini, ma che in realtà le è sconosciuto, deve adattarvisi, deve entrare in una nuova logica, in una nuova visione del mondo e di sè.
Figlia unica coccolata e viziata, cresciuta per 13 anni nell’agiatezza, la protagonista si trova buttata nella casa dove è nata, dove la sua “vera” e numerosa famiglia, quella di sangue le è sconosciuta ed ostile.
Bisogna imparare ad essere sorella: sorella di Adriana, di Sergio, di Vincenzo e del piccolo Giuseppe. E non è semplice. Con Adriana nasce subito l’intesa e un forte legame (che continuerà in “Borgo sud”, altra opera della scrittrice), Sergio la disprezza e la tratta male, non riesce ad accettarla...ma il giovane Vincenzo nutre per lei un’attrazione che non le nasconde. Bisogna accettare una nuova vita, due genitori freddi, una comunità che la guarda con disprezzo quasi fosse una reietta, un borgo dove quasi nessuno parla l’italiano, ma il dialetto.
Sullo sfondo il mondo rurale di un Abruzzo senza tempo, i profumi, gli odori, i suoni di quella terra.
Secca, asciutta, la prosa della Dipietrantonio.
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Una splendida storia di legami
È una storia di legami, questa.
Una storia di legami che si stringono e di altri che si spezzano, anche violentemente, senza spiegazioni.
Di legami destinati a restare indissolubili, perché alcuni legami riguardano l'anima e l'essenza stessa delle persone.
Mamma, la madre, mia madre: è questa la chiave del romanzo.
L’Arminuta è una ragazza tredicenne che da un giorno all’altro si ritrova ad essere restituita (Arminuta=Ritornata) alla sua famiglia di origine da coloro che l’avevano cresciuta. Qui la protagonista fa la conoscenza con la povertà, l’anaffettività e con le asprezze della vita, ma conosce anche sua sorella, Adriana, un personaggio magnifico, irresistibile, che giganteggia per tutto il racconto.
Il rapporto che nasce e cresce tra l’Arminuta e Adriana tocca nel profondo per il suo sapore acerbo ma vivo, per la sua profonda sincerità, per la sua incrollabile solidità.
Il legame tra le due protagoniste costruisce un ponte tra questo splendido romanzo ed il lettore, un ponte sul quale ognuno che cominci a leggere questo libro sale con entusiasmo, affascinato da una storia appassionante. Un romando lungo il quale si pensa, si ride, si piange, si spera e si ama.
Ciò che colpisce nello scorrere delle pagine, è come la statura morale e la forza di due bambine riesca lentamente ad emergere da un mondo di bassezze, di sentimenti mai coltivati, di miseria economica e sociale, di tradimenti e abbandoni.
Non posso infine tralasciare la scrittura piacevolissima di Donatella Di Pietrantonio (di professione dentista!), molto agile, ma assolutamente concreta, che non si perde mai in inutili arzigogoli. E che regala dei lampi di vero genio, illuminando con poche e secche parole i momenti cruciali del racconto: “Sul cuscino mi aspetta ogni sera lo stesso grumo di fantasmi, oscuri terrori”.
L’Arminuta è uno di quei rari libri che, una volta letta l’ultima pagina stringi tra le mani per avere la certezza di possederlo veramente, per sentire che quella storia è entrata di diritto nel tuo immaginario personale e non ne uscirà più.
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“E tu di chi sei la figlia?”
Tredici anni, una sorella che non sa di avere. E dei fratelli che la salutano con un fischio o la ignorano. Non li conosce. Loro sono la sua famiglia per forza.
E’ l’agosto del 1975. Frequenterà la terza media.
Si lavano i piedi nella stessa bacinella, lei e la sorella, l’acqua si fa subito nera, dividono il letto, il sudore, l’odore di ammoniaca della sua urina calda. Nel buio denso di fiati cerca la pianta del suo piede da tenere sulla propria guancia. E’ la sua unica compagnia.
Eppure…Adriana. Un cenno di intesa. Solo un vago sguardo. O un tocco al volo sul braccio. Bastano a capire che è il momento di scappar via insieme. “Poi è venuta con una corsa breve e improvvisa, mi ha abbracciata. Avevo posato tutto sull’asfalto, l’ho stretta e baciata sulla fronte. Ci siamo mosse fianco a fianco senza dirci niente…”
Adriana che blocca il braccio della madre perché.. “non devi mena’ pure a essa.”
Adriana…che le dice ”quando scappi a me non ci pensi?” ci siamo stritolate in un abbraccio. E’ il Natale del 1976.
Vincenzo, in quell'attimo, occhi negli occhi dimenticando “chi eravamo”. E continuare a sentirlo, anche dopo, quando resta solo l’odore e i ricordi.
Sergio e i suoi cattivi scherzi.
Giuseppe che gattona e la guarda non riconoscendola. Ma solo all'inizio.
Quella madre, alla fine di se stessa, da salvare.
L’autrice è così brava a introdurci nella cucina spoglia e sporca, nella stanza da letto divisa con tutti gli sconosciuti fratelli, nel bagno già usato e chiazzato di acqua ovunque, nella continua ricerca di una spiegazione che tarderà ad arrivare e nel nuovo mondo di questa sorella che non ha un nome.
Arminuta si chiama, che nel dialetto abruzzese significa ritornata, restituita.
I brevi capitoli, anzi brevissimi, mi conducono a piccole dosi in una storia che sarebbe tristissima se non fosse un continuo riscoprire dolcissime e inaspettate attenzioni. Ovvia. Naturale.
Non l’ha mai chiamata. Non con quella parola strozzata, morta in gola. Mamma.
Mi commuovono i grandi slanci di amicizia e di affetto e di ricerca e di compagnia reciproca. Di comprensione.
E’un romanzo a tratti poetico con grandissimi slanci di passione, rabbia, disperazione, sentimenti che si rincorrono continuamente. Due sorelle, perché tali sono nella realtà, ma sorelle…perché lo diventano. Nella protezione, nell'aiuto, nell'intima condivisione, nella compagnia.
Chi dice che il mestiere di madre è uguale per tutti sbaglia. Per alcuni è ulteriormente più difficile e faticoso. Ma ci sono gesti, a volte solo sguardi, che restano, anche se ce ne accorgiamo solo dopo.
Ci sono sorelle che sono anche madri.
Avere due madri o nessuna, e non avere un nome. Il nome è tutto, ti fa sentire al mondo e accettata. Ed è ancora più importante che ti chiamino col nome che tu hai scelto per te, per sentirti, per riconoscerti.
“Lo sanno tutti. Lo sapevano tutti e io no.”
“Poi si è spogliata anche lei e ha lasciato i vestiti sulla sabbia tiepida, insieme alla sua paura. Si è affidata alla mia mano e siamo entrate, con la biancheria intima addosso. … mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza. Nella complicità ci siamo salvate.”
La sorella di tutti i giorni. Mi guarda. La guardo.
Il finale da solo vale tutto il romanzo. La sua poesia da sola vale tutto il racconto. Che è potente e bellissimo.
Buone prossime letture a tutti.
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Il dolore che si supera
Chi non ha avuto almeno un trauma nel corso della propria vita?
Donatella Di Pietrantonio riesce, attraverso la sua scrittura, ad esprimere appieno il dramma di una bambina, quasi adolescente, che si scontra con l’asprezza di una vita, troppo difficile per chi ancora deve capire come funziona a il mondo.
Il dolore dell’abbandono ci perseguita durante la lettura di questo libro e non possiamo fare a meno di non immedesimarci e farci coinvolgere dalla protagonista, che, riesce ad affrontare una peripezia di eventi quasi indicibile. Una bambina che come un arbusto appena nato, si piega, ma non si spezza. Una bambina che cresce in fretta a causa della vita.
La scrittrice narra delle sue terre d’origine, l’Abruzzo, in quegli anni 70 che vedevano sempre più accrescere il divario fra nord e sud, fra centro urbano e periferia.
Un libro amaro, ma che tiene incollati alla lettura; un libro che fa riflettere e ci pone di fronte alle grandi questioni della vita.
Un libro da leggere.
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Una storia graffiante
Ultimamente, così per caso, mi è capitato di leggere più di un libro che parlasse in qualche modo di adozione e abbandono. Prima "Il linguaggio segreto dei fiori" di Vanessa Diffenbaug (credo si scriva così), poi "Le luci nelle case degli altri" di Chiara Gamberale e infine "L'Arminuta". Dunque il tema rischiava di sembrarmi banale, ma, nonostante gli altri due libri siano più descrittivi, l'arminuta é il più bello dei tre. L'ho letto sotto vivo e insistente consiglio di un'amica che lo dichiarava la sua migliore lettura dell'estate. In effetti le mie aspettative sono state soddisfatte. Il merito di questo libro é una scrittura scarna e graffiante. L'autrice non ci dice mai più del necessario, non si sofferma mai a descrivere nemmeno i sentimenti ma ce li lascia intravedere, non racconta tutto, lascia immaginare. A volte ho pensato che la storia fosse troppo breve, avrei voluto saperne di più. Alcuni personaggi sono appena accennati, persino la protagonista spicca molto meno rispetto all'unico personaggio ben delineato che è la sorella Adriana, per la quale io da lettrice ho provato grande affetto. La madre adottiva Adalgisa é quella che secondo me richiedeva maggiore spiegazione e descrizione, resta invece un personaggio distante e scialbo, diverso da come lo si immagina all'inizio, che finisce per sembrare rude e cattivo più della distaccata madre naturale in cui invece si posso leggere i segni e le ferite del dolore che la rendono così. La decisione di Adalgisa di ridare indietro la ragazzina, per quanto venga spiegata alla fine del libro, rimane superficiale, non sembra una scelta dolorosa, anzi, é del tutto priva di affetto. Questo distacco però, pur lasciando un po' deluso il lettore che aveva immaginato qualcosa di diverso e più complesso, rende benissimo lo smarrimento e la sofferenza della protagonista. Tutto è alla fine ben delineato attraverso delle pennellate nette e decise che caricano di significato tutta la storia. Sicuramente non è paragonabile all'Amica geniale di Elena Ferrante, che racconta storie altrettanto graffianti ma si sofferma molto di più sulla psiche dei personaggi, con descrizioni efficaci e potenti. Tuttavia la potenza di questo romanzo é il riuscire a esprimere tutto in poche pagine. D'altronde il premio Campiello é più che meritato. All'inizio la lettura era scorrevole ma credevo non mi avrebbe lasciato molto, ma alla fine del libro mi sono ritrovata quasi in lacrime. Allora, non me ne sono resa conto subito, ma vuol dire che la storia ha funzionato!
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L'amica geniale -Elena Ferrante
Riportata
Questo romanzo di Donatella di Pietrantonio è stato un caso letterario, poi vincitore del Premio Campiello 2017. E’ ritenuto quasi unanimamente un piccolo capolavoro ma, anche se a malincuore, devo dissentire. Il romanzo è scritto bene, la storia è toccante, la lettura interessante, ma l’impressione è che tutto rimanga in superficie; manca l’approfondimento psicologico, la caratterizzazione dei personaggi è solo accennata, non va mai veramente a fondo. La di Pietrantonio mette davanti al lettore un tema importantissimo come la maternità (ma anche l’affido dei bambini) senza riuscire però a scuoterlo, a far sì che si ponga delle domande o almeno che sia partecipe. In due parole questo romanzo manca di passione, non mi ha emozionata e dopo qualche giorno di sedimentazione della lettura mi sono accorta che non mi è rimasto nulla. Credo che tutto questo sia dovuto tanto alla scrittura scarna, tagliente, senza fronzoli ma forse troppo povera che alla brevità del romanzo stesso, un po’ più di pagine non avrebbe guastato. A scusante della scrittura si può dire che il racconto è fatto dall’ arminuta stessa che è una bambina di 13 anni e quindi l’autrice si è dovuta calare nel linguaggio proprio di quell’età anche se, ripeto, rimane molto distaccato; interessante invece è la mescolanza di dialetto e italiano che da verve alla prosa risultando comunque leggibilissimo. La storia inizia con una bambina che viene rimandata alla sua famiglia naturale da quelli che credeva essere i suoi veri genitori; in un attimo la sua esistenza viene stravolta: passa da una vita agiata e piena di attenzioni a quella povera sia di denaro che di sentimenti della nuova donna che lei non riuscirà mai a chiamare mamma. Al posto della sua cameretta con i poster trova uno stanzone dove tutti dormono insieme, i genitori e gli altri fratelli, tre grandi, un bambino piccolo e una femmina, la piccola Adriana. E’ proprio lei che illumina con la sua figura questo libro, lei che dal primo momento la riconosce come parte di sé, la prende per mano e l’aiuta a vivere e a difendersi in quel mondo così ostile e sconosciuto. Il fratello più grande, Vincenzo, non la riconosce invece come suo sangue e se ne innamora come donna, in realtà innamorandosi di quello che a lui manca, di quello che lui non avrebbe mai potuto essere. Molto suggestiva è la giornata che i tre passano al mare. L’azione si svolge negli anni ‘70 in Abruzzo (il dialetto è quello, arminuta significa ritornata) tra un paese di montagna e la “città di mare” dove viveva prima; ma perché i genitori l’hanno rimandata indietro? E perché la prima madre, pur non volendo più né vederla né parlarle, l’aiuta con doni e denaro? E’ forse malata? Tutte queste domande avranno naturalmente una risposta, una triste, vigliacca risposta. A mio avviso la figura della madre “adottiva” è veramente spregevole, cosa che viene confermata nel troppo affrettato finale. Alla fine si dimostra una “donnetta” differentemente dalla madre naturale che, nella miseria, ha dovuto fare a suo tempo una scelta dolorosissima pensando che fosse per il bene. I genitori naturali sanno che la loro è una bambina speciale, la trattano con rispetto e hanno il loro modo rude di dimostrarle amore, quasi non credono che sia figlia loro tanto è diversa –“..sulla porta mia madre aveva avuto un ripensamento e si era voltata indietro. “alla scuola non ci so andata, ma stupida io non ci sono professore’ l’ho capito pure da sola che essa tiene il cervello per lo studio” Mi toccava la testa parlando… “ Vedo come posso arrangiarmi e la faccio continuare”…”-.
Non sapremo mai il nome de l’Arminuta: un nome implica che si è un individuo, lei invece per tutti i suoi genitori è stata solamente un fardello.
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Un vortice di emozioni
Vincitore del Premio Campiello 2017, ancora una volta le scelte della giuria mi consegnano un libro che lascia il segno come pochi.
Poche pagine intense e struggenti, che, affrontando un tema difficile e complesso, si rivelano in grado di toccare corde profonde come tomi ben più voluminosi spesso non riescono a fare.
L'"arminuta" è sinonimo di ritornata, soprannome dato alla ragazzina protagonista che,adottata da parenti dei genitori che non potevano avere figli, all'età di tredici anni viene riportata dalla famiglia naturale, senza troppe spiegazioni. Dalla vita agiata di città, di figlia unica amata e perfettamente educata,si ritrova catapultata da un giorno all'altro in un paesino di montagna, con una famiglia numerosa e in difficoltà economiche, dove si "tira avanti" e i rapporti sono fatti di poco dialogo e molta violenza. La mancanza di rapporto con la madre naturale, quasi del tutto anaffettiva e l'improvvisa sparizione della mamma adottiva, la lasciano smarrita, in cerca di risposte e di un nuovo equilibrio quasi impossibile da raggiungere, di fronte all'incapacità di rassegnarsi.
Con un linguaggio schietto ed immediato,sintetico ed incisivo,che mescola perfettamente italiano e dialetto,la scrittrice colpisce il cuore del lettore, ne fa vibrare le corde fino alle lacrime, portandolo dentro le sensazioni, lo smarrimento, la tristezza e la rabbia, l'ostinazione e la desolazione, la solitudine della protagonista.
Impossibile non essere coinvolti e solidali con questa ragazza rimasta senza madre eppure alla ricerca di punti di riferimento, avendo perso il più importante. La sua voce, narrando la storia che la vede protagonista, passa dal passato al presente, presentando un'adulta la cui vita sarà per sempre segnata dal dolore profondo subito in un'età tanto delicata come quella dell'adolescenza. I personaggi che la circondano, spettatori silenziosi e quasi incuranti del dramma che si sta consumando, presentano ed esaltano alla perfezione la contrapposizione delle due realtà, quello di città e quello di paese, quello di persone benestanti, educate ed istruite, contro quello di gente modesta che vive alla giornata, barcamenandosi tra poco denaro,poca cultura e tanti figli, difficili da educare ed inesauribile fonte di preoccupazione. Lo sguardo della protagonista, abituata a vivere in uno di questi mondi ed ignara dell'esistenza dell'altro, accentua ancor più le differenze tra stili di vita contrapposti e caratteri forgiati inevitabilmente dalle difficoltà,spigolosi e duri come la roccia della montagna in un caso, luminosi come le vetrine delle strade di città che mostrano una realtà falsata.
Un perfetto equilibrio, un vortice di emozioni, un linguaggio pulito che colpisce dritto al cuore e personaggi che non possono lasciarti indifferenti, insomma un insieme di caratteristiche che rendono questo un libro bellissimo e consigliatissimo.
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Le madri perdute
Era da tempo che volevo leggere questo libro. Dopotutto, durante i miei giri in libreria sembrava attirarmi a sé in tutti i modi: la sua ubiquità, la copertina con quella ragazzina dallo sguardo magnetico, il titolo particolare, la fascetta del Premio Campiello; tutto sembrava gridare nella mia direzione: "Comprami! Leggimi!". Alla fine l'ho fatto, per dirvi quanto possa essere importante per un libro anche il modo in cui ti viene messo davanti agli occhi. Quando l'ho iniziato, infatti, non ero ben consapevole di cosa stessi andando a leggere, l'ho scoperto pian piano.
Poi ho scoperto che l'Arminuta è una parola del dialetto abruzzese che sta per "La ritornata". Quello di Donatella di Pietrantonio, infatti, è la storia di un ritorno e di un abbandono (o forse più di uno?). Lo stile dell'autrice è sicuramente particolare, che in certi tratti si avvale del dialetto abruzzese per caratterizzare la storia e dare un tocco di unicità all'ambiente e ai personaggi, senza mai risultare incomprensibile né richiedere un impegno particolare.
La cosa che più mi ha affascinato, tuttavia, sono i legami che l'autrice crea tra i personaggi: ben descritti, ben differenziati in base alle persone legate, credo siano il vero punto di forza di questa storia. Non si può non provare empatia e tenerezza per il rapporto che si crea tra la nostra protagonista e la sua "nuova" sorella; un rapporto d'amore sincero germogliato nel bel mezzo della lordura: "un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia".
Sono convinto, tuttavia, che questa storia possa emozionare di più le persone che hanno vissuto traumatici abbandoni; persone che siano maggiormente in grado di immedesimarsi nella protagonista e provare empatia per lei. Ecco, credo che questa sia quello che distingue un buon libro (quale è L'Arminuta) da un capolavoro: il grande scrittore si vede da come riesce a raccontare qualcosa in modo che il lettore la senta sua, anche se è un'esperienza che non ha mai vissuto. Molti grandi scrittori del passato erano d'accordo su quest'aspetto e anch'io, da lettore, sono d'accordo. Questo è quel che manca a "L'arminuta".
Inoltre, ho avuto anche qualche perplessità a livello narrativo, soprattutto per quanto riguarda i comportamenti di alcuni personaggi, in particolar modo la madre adottiva della protagonista.
La nostra protagonista è una ragazzina che, improvvisamente, è costretta a tornare dalla sua vera madre. Sì, perché la sua vera madre (che aveva già fin troppe bocche da sfamare), l'aveva affidata a una sua parente che non era in grado di avere figli. Ma adesso le cose sono cambiate; la sua famiglia adottiva non può più tenerla per motivi misteriosi (che scopriremo verso la fine) e la nostra protagonista è costretta a tornare dalla sua "vera" famiglia. Peccato che le cose siano molto diverse dal passato. Abituata a vivere in mezzo agli agi, a ricevere un'ottima educazione e a godersi il mare e la parte migliore della città, adesso l'arminuta si ritroverà a vivere di stenti. Il cibo è una rarità, l'igiene piuttosto precario, mentre l'affetto è una cosa di cui si deve fare praticamente a meno. La sua vera famiglia non è quello che si definirebbe un tranquillo focolare, bensì un gruppo di persone riunite tra quattro mura scrostate in cui ci si guadagna ogni cosa col duro lavoro e in cui la disciplina è impartita a suon di ceffoni.
Nulla si salva in quell'ambiente; nulla, a parte quel fiore cresciuto nell'oscurità e che rappresenta l'unico vero tesoro in un mare di melma.
"Nel tempo ho perso anche quell'idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. È un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure."
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Chissà
Filo conduttore del romanzo è il tema dell'abbandono, che all'inizio la scrittrice dipana con una certa abilità. Si intuiscono emozioni realmente vissute, vecchie pagine di diario riprese, episodi autobiografici rielaborati.
La prima parte è densa di realismo e i segni che la miseria lascia nell'anima e nel corpo dei personaggi arrivano senza filtri, così come le sensazioni controverse che suscitano.
Poi le tinte forti si attenuano, o per meglio dire si annacquano, la trama accusa qualche forzatura, risente di un certo sentimentalismo e diventa un tantino autoreferenziale.
Più di un lettore apprezzerà la svolta buonista, ma di fatto la narrazione perde in mordente e qualità.
Perché virare su contenuti da fiction televisiva quando con un po' di coraggio si poteva realizzare un'opera letteraria di spessore? Esigenze commerciali o talento limitato? Chissà.
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Sentirsi di nessuno
Romanzo breve che trasuda italianità, con intercalari in dialetto che lo rendono vivo e parlante. Lo stile è fatto di parole schiette, scabre, che ben descrivono gli strappi della vita che la bambina protagonista del libro ha dovuto subire. Il libro ci racconta il suo punto di vista, la sua voglia di accettazione, la sua voglia di amore, la sua voglia di calore. E tutto questo passa attraverso momenti di infinita malinconia e solitudine, come quando la senti dire che si sente un pacco, come quando assisti al momento in cui si accende una candelina su una pasta per festeggiare, da sola, il suo compleanno, come quando ti racconta che sul cuscino trova sempre un grumo di fantasmi, come quando senti tutte le sue domande, tutti i suoi perché. Il mondo le fa cadere in testa tutti i pezzettini in cui si è rotto. Le sue domande bruciano in bocca. Ma queste pagine, che sono intrise, a modo loro, di sentimenti molto forti, sono anche un messaggio di quanto la vita è capace di renderci forti.
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Una donna "ritornata"
Una storia dirompente ed ammaliatrice con una ragazzina che da un giorno all’altro perde tutto: casa, amiche, affetto incondizionato dei genitori. Comincia per lei, l’Arminuta (la ritornata) una nuova e diversissima vita. Un’autrice che possiede le parole per dire l’abbandono, affrontare il tema della maternità, della responsabilità, della cura con rara intensità espressiva. Una storia senza tempo in un mondo dal sapore antico dove si mescolano brutalità ed arretratezza. La ragazza ritorna ai genitori naturali dopo essere stata allevata per anni da quelli che riteneva i suoi genitori. Trova fratelli ovunque, poco cibo, biancheria sporca. Comincia una silenziosa ricerca della verità. Le madri risultano essere fragili, ambivalenti, imperfette, pur se perdonabili. Solo la complicità con la sorella Adriana rinfranca la protagonista che racconta la delusione, il rancore, la paura, l’incapacità di adattamento ad un ambiente estraneo. Una scrittura sintetica intrappola emozioni, sogni infranti, lacerazioni, una vertigine emotiva inserita in un contesto rurale e genuino, l’Abruzzo, terra ruvida e aspra, dove si congiungono lacrime e dignità. Costruito sul dolore della perdita e il desiderio di inclusione, il romanzo è bello, amaro, e struggente. Particolarmente intenso, senza sbavature, sa intrappolare emozioni forti, raccontare le storie dei “vinti” e la solidarietà tra donne, acido ma accogliente, sa toccare corde profonde con rara elasticità dialettica. Ricco di incursioni dialettali e geografiche, affianca alla dolcezza del mare, l’asprezza dell’entroterra montuoso. Coniuga memoria ed oblio con parole scabre e schiette,
“una grana spigolosa piena di luce.”
Un libro di rara intensità e fascino.
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le due madri
Una voce narrante di cui non sapremo mai il nome racconta la sua dolorosa storia, fatta di abbandoni e di ritorni, di dubbi e di sconcertanti verità.
Siamo in Abruzzo, negli anni Settanta: dopo tredici anni una bambina viene inspiegabilmente riconsegnata alla sua prima, vera, madre. La donna che fino a quel momento si è occupata di lei e che la bimba ha da sempre chiamato mamma, ora non può più tenerla con sé. La famiglia a cui è stata restituita la vede come un'estranea e la tratta con una certa ostilità. Cresciuta nel benessere della città, tra lezioni di nuoto e di danza, brava a scuola e sempre ben vestita, la ragazza si ritrova, apparentemente senza un valido motivo, in un'abitazione malmessa e sovraffollata, sporca e maleodorante; è stata lasciata come un pacco in mezzo a persone che parlano solo il dialetto e usano tra loro modi bruschi, se non addirittura violenti. Il cibo a tavola scarseggia, i fratelli la imbarazzano e il maggiore, Vincenzo, la considera già una donna alla quale rivolgere le sue attenzioni. Solo la piccola Adriana, la sorellina di appena dieci anni, si lega fin da subito alla “ritornata” regalandole tutto ciò di cui lei ha bisogno: affetto, protezione, complicità.
La storia de “L'arminuta” è la ricerca di una verità che si stenta a comprendere e che ancora più difficilmente si riesce ad accettare.
Ho letto questo libro tutto d'un fiato: non sono riuscita a staccarmene fintanto che non sono arrivata all'ultima riga. Il modo di scrivere dell'autrice è molto coinvolgente: asciutto, ma così incisivo e tagliente da far chiaramente percepire tutto il dolore, la solitudine, il senso di colpa, la vergogna della protagonista. Insieme a lei sono rimasta sconvolta dalla povertà umana e materiale della sua famiglia d'origine, mi sono commossa di fronte alle tragedie che l'hanno colpita, mi hanno intenerita i gesti generosi della piccola Adriana. L'aspetto che più ha destato la mia coscienza è però quello relativo alle figure delle due madri. Ho continuato a pormi delle domande su di esse, sui motivi delle loro scelte. Seppur di estrazione sociale e culturale diversa, hanno agito in modo simile, rinunciando, di fatto, ad una figlia. In un primo momento non ho potuto che disprezzarle, poi ho colto in esse il dramma di una scelta sofferta e senza via d'uscita. Sono vittime, come la protagonista, di una mentalità ottusa e maschilista che anziché mettere in primo piano i bambini, preferisce salvaguardare le convenzioni, il perbenismo e gli egoismi degli adulti. Ma anche nelle situazioni più buie ci sono episodi che riportano luce e speranza. Amiche, vicine, insegnanti: tante sono le occasioni, anche in questo libro, in cui la solidarietà femminile crea una rete di aiuto e di sostegno; credo che l'autrice abbia voluto lasciarci questo messaggio: le donne riescono sempre a trovare la forza per superare le difficoltà. "Avevo dentro, oltre la paura, una forza luminosa" (p. 109)
Ogni donna può essere una buona madre, sia che abbia figli propri, sia che si occupi di creature da lei non direttamente generate purché sappia davvero accogliere le esigenze dei più piccoli che chiedono innanzitutto di essere ascoltati.
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La "restituita"
In un Abruzzo di qualche decennio fa la vita di una ragazzina di 13 anni viene sconvolta da un avvenimento inatteso: viene restituita dai genitori che, fino a quel momento, ha creduto tali alla sua vera famiglia di cui non conosceva l’esistenza.
"Restavo orfana di due madri viventi. Una mi aveva ceduta con il suo latte ancora sulla lingua, l’altra mi aveva restituita a tredici anni".
Scaricata come una merce da chi ha sempre considerato genitori inizia, per colei che sarà chiamata da tutti “L’arminuta”, la restituita, una vita completamente diversa da quella precedente. Da un giorno all’altro, senza apparente motivo, perde tutto: l’affetto incondizionato dei genitori, una casa confortevole, le amiche più care, una vita normale. Passa dal calore della propria casa in una cittadina sul mare al gelo di un focolare sconosciuto, in un paesino di campagna, catapultata in un mondo che la priva degli agi, della serenità.
"Ero figlia di separazioni, parentele false o taciute, distanze. Non sapevo più da chi provenivo".
Ora vive in una casa piccola, buia, con tanti fratelli di cui non conosceva l’esistenza e che parlano solo dialetto, poco cibo a disposizione ed una madre che non l’ha mai accettata, e una bocca in più da sfamare è un problema per chi lotta quotidianamente con un demone chiamato miseria.
"Io non conoscevo nessuna fame e abitavo come una straniera tra gli affamati. Il privilegio che portavo dalla vita precedente mi distingueva, mi isolava nella famiglia".
Nessuno si accorge di lei, nessuno si ricorda del suo compleanno
"I genitori l’avevano scordato nel tempo trascorso senza di me e Adriana ignorava la mia data di nascita".
"Nel tempo ho perso anche quell’idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. È un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure.”
Ma in questo deserto affettivo unico conforto è la presenza della sorellina Adriana che divide il letto con lei e riesce a colmare il vuoto scavato nel suo cuore. Pian piano si instaurerà tra di loro una complicità che le darà la spinta per andare avanti.
Una storia di abbandoni scritta in maniera incisiva che penetra nell’anima.
Meritatissimo Premio Campiello 2017.
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Storia di un abbandono
Ho comprato il libro perché mi ha incuriosito il titolo e perché mi è stato consigliato da conoscenti, lettori appassionati ma critici.
E' una storia ambientata in una realtà di miseria dove i sentimenti sembrano scarsi come i soldi; la protagonista è una bambina che viene adottata da una zia benestante; ma quando è adolescente, viene restituita alla famiglia d'origine senza spiegazioni. Naturalmente soffre molto del distacco da quella che reputava la sua vera madre; si convince che ci fosse un motivo grave perché non vuole dubitare dell’affetto di chi l’ha allevata fino ad allora. Ora deve chiamare mamma e papà i suoi genitori originari, due estranei poveri e ignoranti; e, da figlia unica quale era, si trova ad avere quattro fratelli rumorosi; per fortuna riesce a stabilire un rapporto di complicità con due di loro, Adriana e Vincenzo.
È il diario amaro di un’arminuta* che si sente respinta, abbandonata, ignorata dalla persona di cui si fidava di più. A volte gli adulti tacciono una verità scomoda per comodità o paura di ferire; ma così facendo, causano grandi sofferenze e minano l'autostima di chi le subisce.
Il romanzo non si limita alla protagonista e ai suoi sentimenti ma descrive la realtà in cui viene a trovarsi, una realtà dura, grama, difficile da vivere e da accettare; c’è chi lavora duramente e chi cerca di fare soldi in altri modi per sfuggire al destino dei genitori e delle persone che lo circondano.
Dal testo: "Solo a pochi passi l'ho vista e mi sono fermata di colpo. Occupava una sedia alta, dallo schienale rozzamente intagliato, come un rustico trono all'aperto. Era vestita di un grembiulone abbottonato sul davanti, del colore dell'ombra che la copriva. Sono rimasta lì a guardarla, incantata dalla sua fiabesca imponenza". (a pagina 112).
"Sono rimasta sulla sedia, senza aiutarla. Il principio di una rabbia feroce lievitava nello stomaco. All'inizio mi ha tolto le forze, risucchiato il sangue da ogni vena. Mi sono sfilata le scarpe con una fatica da vecchia stanca. Ho lisciato un attimo il raso, le ho annusate dentro cercando l'odore spensierato dei piedi di una volta. All'improvviso, come per un'iniezione dall'effetto istantaneo, un'energia distruttiva mi ha invaso". (a pagina 99)
* restituita
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L'abbandonata
L'Arminuta: la ritornata. Questo il titolo del bellissimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio. Leggendo però mi verrebbe da aggiungere: l'abbandonata. E' la storia infatti di una ragazzina di tredici anni che viene abbandonata due volte, da due famiglie, da due madri viventi.
La protagonista si racconta e ci racconta la sua terribile, sconvolgente e incomprensibile esperienza con un linguaggio diretto in una prosa essenziale e ipnotica. Bastano poche parole e siamo già dentro il racconto, che si svolge in Abruzzo, nel 1975. Non si riesce a smettere di leggere: siamo di fronte ad uno di quei riuscitissimi romanzi in cui una vicenda toccante, drammatica e commovente si sposa con modo di raccontare coinvolgente e trascinante. Ci troviamo in casa con l'Arminuta, tra piastrelle sporche, ragazzi affamati e genitori che sanno comunicare solo con le botte. Ma non siamo cresciuti lì: perché siamo lì? Se fino al giorno prima avevamo altri genitori, un'altra casa, vivevamo in un'altra città, con altri amici...
Qualunque essere umano rimarrebbe sconvolto, ed è quello che succede anche alla piccola Arminuta, che non finisce mai di chiedersi il perché di ciò che le sta accadendo.
Nella desolazione affettiva e comunicativa in cui viene scaraventata, la nostra protagonista troverà un appiglio a cui aggrapparsi per non annegare nell'infinito mare della solitudine e dell'abbandono: una sorellina minore, Adriana: così insicura e bisognosa d'amore ma anche così pratica e pronta alla vita.
Tutte le figure genitoriali escono sconfitte dalla storia narrata: incapaci e resi cattivi da un egoismo esasperato, in egual misura i “benestanti” ed i poveracci. Gli altri adulti sono comunque impotenti e non hanno i mezzi per alleviare la sofferenza di molti ragazzi avviati ad un destino di sofferenze e morte.
Un romanzo che ci mette di fronte ad una situazione estrema e incomprensibile che però riconosciamo subito come possibile e verosimile; allora non possiamo che essere con l'Arminuta e Adriana: andiamo avanti, non smettiamo di sperare, ci attacchiamo alle poche persone buone ed umane che incontriamo sulla nostra strada.
“Ci siamo fermate una di fronte all'altra, così sole e vicine, io immersa fino al petto e lei al collo. Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza. Ora ci somigliamo meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella complicità ci siamo salvate.”
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I figli della miseria
“Nel tempo ho perso anche quell’idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. È un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure.” Così descrive l’arminuta, la ritornata, protagonista del bellissimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio, il vuoto generato in lei dall’abbandono. Respinta incomprensibilmente da una madre amorevole, strappata, ancora adolescente, a una vita confortevole e immersa, poi, in una realtà scomoda, dura da accettare come luogo di appartenenza, fatta di miseria e miserie, di volgarità e squallore, l’arminuta sopravvive nell’ansiosa ricerca della verità, di una verità accettabile che non sia irreparabilmente mortificante.
Così inizia la sua crescita, dolorosamente divisa tra l’amore per colei che ha sempre chiamato mamma e lindifferenza per “la madre” l’estranea che l’ha ceduta nonostante l’avesse messa al mondo. Così sradicata, senza più punti di riferimento questa adolescente ferita, rientrata a far parte di un mondo di diseredati, stabilisce nuovi vincoli affettivi con i fratelli, privilegiando la sorella Adriana che riesce in piccola parte a colmare il vuoto abissale lasciato nel suo cuore dal tradimento delle due madri.
La vicenda, ambientata in un Abruzzo aspro tra gente che si esprime quasi solo in dialetto, rende magnificamente l’idea dei luoghi e delle tradizioni locali. Donatella Di Pietrantonio è riuscita a toccare tutte le corde del sentimento, senza mai eccedere, con sobrietà e equilibrio: ci ha regalato un romanzo bellissimo, scritto benissimo, con uno stile molto particolare, che avvince e incanta.
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La ritornata
Tredici anni è l’età del ritorno al paese, ad un’esistenza di prima che nemmeno sapeva esistere. Perché lei, che un nome di battesimo non lo possiede e che è detta da tutti “arminuta”, la ritornata, è stata scaricata come una merce, come un pacco. Sino al giorno prima abitava con quelli che credeva essere i suoi genitori in città, la sua vita era semplice ma ordinata in quei suoi doveri quotidiani dettati dallo studio, da quelle sue passioni quali la danza e il nuoto. Il giorno dopo, il risveglio in un luogo che tutto sa tranne che di casa, in un luogo dove non vi è calore e dove non è altro che una tra “i tanti” figli. Eh si, perché oltretutto, ella che era sempre stata figlia unica, eredita pure la bellezza di sei o sette fratelli che, ovviamente, la rifiutano. Tutti, tranne la piccola Adriana, con cui divide il letto e le notti insonni, e Vincenzo, il maggiore che proprio però non riesce a vederla come sorella.
Ed è in questo focolare spento che scopre una nuova realtà. Si spoglia pian piano di quegli agi che sino ad allora l’hanno coccolata, si riscopre essere l’unica a parlare in italiano quando tutti gli altri sono forbiti di un dialetto che lei materialmente non conosce, ed ancora, apprende quella che è la fatica della sopravvivenza perché la sua famiglia natia è povera, combatte ogni giorno con la miseria. Ciascuno deve fare il suo, deve guadagnarselo quel rigatone al sugo o quella polpetta di pane che al pranzo o alla cena sono serviti, deve guadagnarselo quel mezzo metro di non intimità dove ciascuno ha possibilità di dormire.
Ma la più grande mancanza non è data dall’assenza di quella villetta sul mare in cui è cresciuta, da quel maglione in più che le veniva comprato, da quella bicicletta ora sgonfia che era soltanto sua, la vera mancanza è l’affetto, il calore e la comprensione umana. Adesso ella non è altro che una bocca in più da sfamare e quell’educazione ed istruzione che le è stata offerta e che le ha garantito prospettive migliori, è ciò che di fatto maggiormente la confina nell’estraneità. Perché ciò è avvenuto, si chiede. Non si sei mai comportata male, anzi, è sempre stata una figlia modello. Non ci sono alternative, di dice, la “madre adottiva”, doveva per forza essere affetta da una grave malattia, altrimenti non l’avrebbe mai restituita. Questa è l’unica spiegazione plausibile. O almeno così crede, la giovane protagonista di questa opera. E non può non confidarci, non sperare in questa soluzione, ha bisogno di avere una ragione a cui appigliarsi per giustificare il suo ritorno, il suo essere abbandonata, per non sentirsi un oggetto che inspiegabilmente – e senza una vera ragione – ha terminato al sua utilità.
Un abbandono, quello subito, che mai la lascerà, che mai potrà essere accantonato in un angolo del passato, in un cantuccio del cuore.
«Nel tempo ho perso anche quell’idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. E’ un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco spazio che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure» p. 100
Un abbandono, questo, che le impedirà di identificare il nome “mamma” con una persona. Perché, chi e cosa è stato per lei, una madre?
«Restavo orfana di due madri viventi. Una mi aveva ceduta con il suo latte ancora sulla lingua, l’altra mi aveva restituita a tredici anni. Ero figlia di separazioni, parentele false o taciute, distanze. Non sapevo più da chi provenivo. In fondo non lo so neanche adesso» p. 108
Con “L’arminuta” Donatella di Pietrantonio ha dato vita ad un romanzo forte, intenso, commovente, crudo. Un elaborato dove la ricerca della verità si mixa alla sofferenza dettata dall’abbandono, dalla perdita di certezze, di fondamenta. E vi riesce con equilibrio, misura, empatia. Non cade mai nella compassione, nella pietà. Ogni espressione utilizzata è asciutta, aspra, tenace, ruvida, ed al contempo emozionante, solidale, ma mai miserevole e/o propria di odio e/o astio verso quella situazione in cui la protagonista viene a trovarsi.
Anzi. L’Arminuta è una ragazza che dalla sua sofferenza impara e ricostruisce il suo personalissimo percorso. Un cammino fatto di studio, ma anche di affetti riscoperti, in particolare per quella sorellina, Adriana, che con la sua pipì notturna, le sue ossa accentuate, le sue mani sporche, i suoi capelli unti e arruffati, il suo italiano sbagliato e la sua profonda saggezza, le restituisce la voglia e la capacità di amare ed essere amata.
«Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho imparato la resistenza. Ora ci somigliano di meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella complicità ci siamo salvate» p. 163
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“Orfana di due madri viventi”
Ci sono romanzi che partono in sordina, lasciandoti brancolare per pagine e pagine in attesa di capire dove si vuole andare a parare, e poi ci sono romanzi come “L’arminuta”, che ti catturano immediatamente e non ti lasciano fino alla fine. Dalla prima riga, una ragazzina tredicenne ti prende per mano e, con i suoi occhi acuti e spaventati, ti mostra il mondo come appare a lei, il mondo confuso e ribaltato di chi ha visto, all’improvviso, andare in frantumi ogni certezza e ogni punto di riferimento.
Perché a quell’età sei fragile come un fiore di cristallo e le poche solidità le trai dalla famiglia. Invece, da un giorno all’altro, ti dicono che mamma e papà non sono le persone che ti hanno allevato. La tua casa non è più l’accogliente villetta sul mare che ti ha visto crescere. All’improvviso la tua famiglia diventa un’altra. Otto persone sconosciute da chiamare genitori e fratelli. Tre stanze troppo piccole da chiamare casa, in cui tutto sembra scarseggiare: il cibo, l’igiene e, soprattutto, l’affetto. Devi abituarti al dialetto, alla promiscuità, a condividere un letto che puzza di urina e a non sprecare niente perché nulla si può più dare per scontato, neanche un piatto di pasta al sugo.
Da pulcino di casa da coccolare, ti trasformi nell’ennesima bocca da sfamare. Uguale agli altri figli ma in fondo anche diversa, perché quegli anni vissuti negli agi pesano. Ti hanno offerto un’educazione e prospettive migliori, certo, ma in fondo ti hanno anche destinato all’estraneità. Ed è così che ti senti. Lontana dalla famiglia che ti ha concepito e poi abbandonato. E ormai lontana anche dalla famiglia che ti ha allevato ma che, infine, ha così facilmente rinunciato a te. Senza motivo. A martellare come un tamburo per tutte le pagine è infatti sempre la stessa domanda, che batte ritmicamente nel cuore e nella testa: perché?
“Oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. E' un vuoto persistente, che conosco ma non supero”.
Donatella di Pietrantonio ha saputo dare vita a un romanzo straordinariamente intenso e commovente, raccontandoci la sofferenza di un abbandono e la silenziosa ricerca di una verità inspiegabile. Lo ha fatto con equilibrio e misura, senza alcuna concessione al pietismo. Le sue sono parole scabre e asciutte, perché il mondo dell’arminuta ha il volto aspro e tenace delle rocce brulle, la ruvidezza della vita dell’entroterra abruzzese, il terribile vuoto dello sradicamento. Eppure sono anche parole emozionanti, che arrivano dritte al cuore con grande potenza, perché possiedono la forza di una ragazzina che non si è arresa all’odio e al pregiudizio. Una ragazzina che, dalla deflagrazione della propria vita, è stata capace di ricostruire un nuovo significato per le parole madre, famiglia, amore. E tra le macerie si erge la figura della sorellina Adriana, con le sue mani sporche, il suo italiano sbagliato e la sua pratica saggezza. E’ grazie alla sua complicità e al suo amore che il cuore dell’arminuta può tornare a battere. E il nostro a scaldarsi.
"Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho imparato la resistenza. Ora ci somigliano di meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo."
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Una vita di abbandoni
Una storia ruvida, fatta di emozioni soffocate e di abbandoni. L’Arminuta non ha neanche diritto a un nome. Per tutti, là in quel paese lontano dalla città, lei è l’Arminuta, la ritornata.
Dopo tredici anni passati in un nido caldo e amorevole, come un uccello che non sa ancora volare è stata buttata fuori dal nido, senza spiegazioni, e, ammaccata dentro, con una pena infinita, è approdata in un altro nido. Trova una famiglia, un’altra, ma capisce che questa è quella vera e che quella donna trasandata, avara di parole e di affetto, è la madre che l’ha partorita e data via. Scopre di avere una sorella, più giovane di lei di età ma con una conoscenza della vita quasi da adulta, una che forse bambina non lo è mai stata.
Scopre di avere dei fratelli più grandi che, come Adriana, la sorella, sono cresciuti come piante selvatiche e hanno messo radici e spine per difendersi dalla vita visto che i genitori sono preoccupati per lo più a mettere insieme il pranzo con la cena e non c’è tempo per preoccuparsi a come crescere i figli.
In quell’altra vita lei era la più brava della classe, andava a danza e in piscina, aveva amici e cresceva nella spensieratezza dei suoi anni. In questa nuova famiglia il padre è una figura di secondo piano, si sa che lavora in fornace, che aspetta stipendi arretrati e che è pieno di debiti. La madre, con l’ultimo dei figli che le gattona intorno, manda avanti come può la famiglia, chiusa nella sua apatia, trascina la sua vita come trascina le sue ciabatte, incurante dei figli e della loro esistenza. Solo quando uno dei figli maschi, Vincenzo, muore in un incidente stradale, quel grumo di emozioni che evidentemente covavano sotto braci apparentemente spente, esplode e la sua reazione è di ritirarsi dal mondo e passare le sue giornate distesa a letto, gli occhi sbarrati sul nulla.
E come due naufraghe alla deriva, un sodalizio complice nasce tra le due sorelle, così diverse ma entrambe affamate di affetto e di cure e imparano ad amarsi anche nella loro diversità.
Gli ottimi voti riportati alla licenza di terza media fanno frequentare alla protagonista un liceo in città vivendo a pensione presso una famiglia procurata dalla prima madre che mai si fa vedere ma che agisce per la sua protetta. Un’altra famiglia, altre persone con cui condividere la quotidianità, la disperante sensazione di essere un pacco che va spostato secondo disegni a cui lei non è dato di capire.
Ma l’Arminuta, esausta da questi continui spostamenti che le sconvolgono la vita, non demorde dal ricercare quella che per lei è la sua unica madre e che crede ammalata, altro motivo non può esserci dal momento che non l’ha più richiamata a sè. Ma una amara verità le viene crudelmente rivelata dalla sorella: la tanto desiderata madre non era ammalata ma aveva una brutta gravidanza e ora aveva avuto un figlio, quel figlio cercato per anni che lei era andata a sostituire. Ora con un nuovo compagno il figlio tanto cercato era arrivato e lei non sarebbe mai più ritornata dalla sua unica madre. Un altro ennesimo abbandono e proprio da colei che avrebbe dovuto amarla più di tutti.
La forza lacerante dell’odio si sostituisce nel suo cuore a quella dell’amore e le sue notti si fanno ancora più insonni, popolate da orribili fantasmi.
Il racconto si chiude intorno allo svolgersi di un pranzo tra Adalgisa, è questo il nome della madre che ha allevato l’Arminuta, il suo nuovo compagno, la protagonista e la sorella, pranzo che, per come si svolge, suggella l’unico vero affetto su cui l’Arminuta può contare: la sorella Adriana.
La scrittura dell’autrice è scabra, tagliente, non lascia spazio a sentimentalismi ma plasma i suoi personaggi con la forza della disperazione e dell’assenza.
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Ritorno al passato per chiarire il futuro
" L' Arminuta ", la ritornata, ha il volto incredulo e sofferente di una tredicenne, inopinatamente abbandonata da quella che ha sempre creduto essere la propria famiglia, con cui è cresciuta, per entrare in una neo dimensione che scopre essere il proprio nucleo originario ( i veri genitori ).
Vive immediatamente un senso di svuotamento, sottrazione, perdita di quella che, amata in quanto mamma, da oggi è divenuta semplicemente madre, termine svuotato del proprio significato primario.
È costretta, così giovane, ad interrogarsi sul mondo degli adulti, dei coetanei e a ridefinire il concetto di se' e tutto quello che un tredicenne vive e percepisce del proprio mondo, d' improvviso fragile e senza certezze.
Siamo alla metà degli anni '70, in un Abruzzo arroccato nella asprezza dei propri abitanti, una terra arida, povera, con una pronunciata ambivalenza tra un pezzo di costa aperto al mare ed una montagna involuta, retrograda, intrisa di rituali secolari, da sempre svuotata di spiritualità e tenerezza famigliare.
La giovane protagonista vive un dramma personale, uno sradicamento che acquisisce un senso nell' immaginario ( la possibile malattia della madre adottiva ) passando da una vita piena ed agiata di una cittadina di mare, con genitori adottivi ( uno zio e la moglie ) colti ed attenti, cultura, amici, agiatezza, ad un azzeramento, l' origine, quel ritorno ai genitori reali, in un' area esclusa e sottratta alla civiltà.
È una famiglia allargata in una casa ristretta, prevalgono sguardi sprezzanti, sporcizia, indifferenza, noncuranza, è una caduta verticale in una vita con altre priorità, una quotidiana lotta per la sopravvivenza e una miseria che oltrepassa la fame oltre un forte disgusto per l' assenza dì ogni possibile condivisione.
Sospinta in un reale neppure immaginabile, con la speranza di un imminente ritorno al passato, dopo il rifiuto e la rabbia, sbircia, scruta, conosce, instaura legami dapprima solo obbligati, poi anche affettivi, con il respiro lento e malinconico di una vita diversa.
Ma il proprio afflato, ( è una brillante studentessa ), quel passato che ne aveva forgiato la diversità, inevitabilmente la riporterà all' origine ( la città ), lo studio è sempre stato nelle sue corde, anche se nuove e sorprendenti rivelazioni ne segneranno il destino.
Lei stessa è cambiata, il vissuto ed i traumi invero rimarranno per sempre e ciò che il mondo degli adulti le ha fatto è imperdonabile.
I temi di " L' Arminuta " abbracciano la complessità dei rapporti famigliari, la contrapposizione tra affetti e vita, desideri infantili ed adolescenziali inseriti e rigettati in un mondo adulto crudele, egoistico, indifferente, impreparato. C' è chi ricerca la felicità ed il completamento personale dimentico degli affetti e dei desideri figliali e chi è distratto, anaffettivo, violento, retrogrado e non ha tempo ne' attitudini socio-culturali per affrontare e partecipare ai bisogni altrui.
L' intelligenza e la sensibilità della protagonista la legheranno ad una dimensione dolce-amara, unendola a due fratelli ( in un sentimento d' amore e di amicizia ), in particolare alla sorella minore Adriana, sola e desiderosa di certezze affettive solide e durature.
Negli anni rimarranno sonni irrequieti ed un senso di ansia per quella sorella, accompagnata da oscuri terrori e fantasmi del passato. Il senso di non appartenenza e sradicamento è perenne, come la non consuetudine al ritorno. La complicità ne segnerà la salvezza e da Adriana apprenderà la forza della resistenza.
Il dramma adolescenziale sta nella propria invisibilità ed in quell' abbandono per il quale ad un certo punto si finisce con il colpevolizzare se stessi. Rimane l' idea di essere figlia di separazioni, parentele false o taciute, distanze, non sapendo più da chi si proviene.
Dentro di se' la parola mamma, ripetuta a vuoto centinaia di volte, e la certezza di essere orfana di due madri viventi, profondamente diverse, ma unite dalla propria noncuranza. ..." Io ero semplicemente l' Arminuta, la ritornata, parlavo un' altra lingua e non sapevo più a chi appartenere..."
È un romanzo intenso, sorprendente, costruito sul dolore della perdita ed un desiderio di inclusione in un mondo che al contrario ci ha respinto, abbandonato, dimenticato.
È una voce che ci parla di lunghi silenzi, di una vita ancestrale basata su gesti ripetuti, selvaggi, dove la violenza è sempre stata norma, educazione, senso di appartenenza ed accudimento, ma anche le buone maniere, la condivisione, la raffinatezza, l' agiatezza possono rivelarsi un mondo all' improvviso sconosciuto ed astratto.
Ed allora, rimane solo cio' che siamo intimamente, abbiamo vissuto e siamo diventati.
Frasi spezzate, come quella vita, dialoghi tronchi, secchi, aspri, pungenti, espressioni dialettali che affettano l' aria ed odorano di terra, e quella marcata fisicità che accomuna lunghi silenzi, sguardi selvaggi ed assenze protratte. Ogni parola sembra, quasi pudicamente, addentrarsi nel dolore della protagonista. Ogni gesto è un pezzo di storia, respira di antico, di tradizione, anche di solitudine e disperazione. Ogni personaggio è parte di un universo complesso per essere espressione di se'.
La protagonista, a tutti gli effetti, è una ragazza che si sente orfana e si traveste da mamma ( non madre ), declinando progressivamente il vuoto esistenziale con un maturazione prematura e necessaria, o semplicemente dando voce alla bellezza dell' amore e della speranza giovanile spintasi oltre ogni limite e sopportazione, perché un grande dolore ( elaborato il trauma) rimane ma può generare un nuovo senso di appartenenza e condivisione, con se' e con gli affetti più cari.
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La ritornata
"Ero l'Arminuta, la ritornata".
Questo è un libro sul senso di appartenenza, sul concetto di famiglia.
Sulla lacerazione di chi si è visto privare delle proprie radici e si ritrova alla ricerca di una normalità perduta, ignorando quale luogo sia "casa", quale luogo sia "una madre".
"La parola mamma si è annidata nella mia gola come un rospo che non è più saltato fuori.
Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza.
È un vuoto persistente, che conosco ma non supero".
Alzarsi una mattina e scoprire, all'improvviso, non solo che coloro che hai sempre creduto i tuoi genitori in realtà non lo sono, ma allo stesso tempo sapere che non ti vogliono più....che vogliono "restituirti" a coloro che non ti hanno mai voluta.
Avere due mamme e non averne nessuna: essere orfana di due madri viventi.
Una l'aveva ceduta con il latte ancora sui capezzoli, l'altra l'ha restituita dopo 13 anni.
"La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure".
La paura di ritrovarsi catapultata da un ambiente pulito, amorevole e silenzioso ad una casa affollata, sporca e soprattutto "affamata", dove si sgomita per una fetta di prosciutto e si divide un materasso impregnato di urina.
La paura di dover festeggiare il proprio compleanno da sola, perché nessuno se ne è ricordato, nella rimessa, con un dolcetto e una candelina sopra, autosussurrandosi gli auguri e sentendo un applauso immaginario.
La paura di dover subire le scelte altrui e dover ancora e ancora separarsi da qualcuno, lacerare i legami...
La paura di non sapere perché chi l'aveva cresciuta non la volesse più...e poi la paura di scoprirlo.
Ma una perdita nasconde spesso anche una scoperta, un ritrovamento...e così l'Arminuta scopre la bellezza di avere una sorella che la ama dal primo istante.
E la loro complicità le salverà entrambe.
Questa è una storia dura, aspra, come duro e aspro è l'Abruzzo degli anni '70 in cui è ambientata e non poteva che essere raccontata con parole schiette, affilate, potenti nella loro semplicità.
Un romanzo spigoloso, ma accogliente, dove...nonostante tutto...non c'è spazio per l'odio.
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