La luna e i falò La luna e i falò

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Calderoni Opinione inserita da Calderoni    01 Marzo, 2021
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Tutto si ripete, ma poco si equivale

È il romanzo in cui tutto si ripete, ma poco si equivale. Gli esempi abbondano, ne scelgo due: il falò del cadavere di Santina ripropone un rituale arcaico, però in questo caso brucia una spia fascista e non un innocente agnellino e dunque emerge il principio di giustizia umana, non del gesto superstizioso; il rogo della Gaminella di Valino è un atto di protesta contro lo sfruttamento dei contadini, non contro gli dei. Pavese invita, perciò, non allo scoraggiamento fatalista ma ad un cauto e fermo intervento sulle dinamiche dell’esistenza individuale e collettiva. Scritto nel 1949 e pubblicato nella primavera 1950, La luna e i falò propone tutte le classiche opposizioni costitutive della narrativa di Pavese: città-campagna, infanzia-maturità, virilità-femminilità, passato-presente, azione-contemplazione, struttura circolare-conclusione aperta. È funzionale, in tal senso, il resoconto di viaggio per mettere a confronto il luogo e il tempo di partenza e di arrivo con nel mezzo il processo mentale del viaggiatore che rammenta il passato e lo paragona al presente. Chi è il viaggiatore? È Anguilla, un bastardo cresciuto sulle colline delle Langhe e successivamente emigrato. Decide di tornare per una breve villeggiatura estiva nei luoghi natii. Durante il soggiorno vicino a Canelli, egli scende all’inferno e trova solo fantasmi sanguinanti. Comprende di aver fatto bene ad emigrare sottraendosi all’arretratezza economico-sociale, alla passività cupa e alla disperazione cieca delle terre in cui era cresciuto. Pertanto, Anguilla soffre al ritorno, soffre nel rivedere le abitazioni in cui è divenuto grande (la Gaminella e poi la Morra), ma nel contempo si apre un varco di libertà: è un uomo giusto perché ricerca il benessere personale e parallelamente gli interessi di emancipazione collettiva. Emblematico è il rapporto che instaura con il giovane storpio di nome Cinto, che viene salvato da Anguilla dal circolo vizioso in cui si trovava coinvolto che era del tutto simile a quello vissuto anni addietro dallo stesso protagonista. Anguilla, dopo circa vent’anni in paese, ne ha vissuti altrettanti in giro per il mondo (ha raggiunto anche l’America, ma l’America che ci propone Pavese è del tutto diversa da quella che ci aspetteremmo: le immagini a stelle e strisce, infatti, sono notturne e sono ambientate in un deserto ed in una pianura iper-coltivata). Torna nelle Langhe da vacanziero forte dalla sua occupazione da commerciante. Sa che, essendo un trovatello, sarà ancora più complicato il suo nuovo incontro con la comunità d’origine perché riaprirà vecchie ferite, accumulate nei primi vent’anni di vita ricchi di mortificazioni. Eppure Anguilla non demorde e reagisce. Come detto, cerca di invitare tutti i suoi ex compaesani a varcare la “soglia di Canelli”. Ad accoglierlo in paese c’è il suo grande amico d’infanzia, ovvero Nuto, sul quale erano riposte grandi aspettative in passato essendo sveglio ed intelligente. Invece Nuto non ha avuto la stessa intraprendenza di Anguilla e a distanza di due decenni non può far altro che la guida ad Anguilla in un territorio che non ha lasciato. Nuto, perciò, racconta quello che è accaduto in quel lasso di tempo, ma dimostra di non essere evoluto, anzi Pavese cerca di paragonarlo costantemente ad Anguilla per esaltare ancor di più il protagonista dell’opera. Anguilla, infatti, nel momento del suo ritorno non ha più nulla da apprendere, se non le spicce notizie di cronaca di paese, da Nuto, che invece nell’infanzia era stato un suo punto di riferimento imprescindibile. Si può, dunque, considerare la vacanza nelle Langhe un bilancio esistenziale complessivo di Anguilla: all’attivo c’è l’essersi mosso, al passivo non aver mai trovato l’amore. Non l’ha conosciuto da piccolo bastardo durante l’infanzia e l’adolescenza, non l’ha scovato in giro per il mondo, dove l’unica donna che ha avuto veramente a cuore Anguilla è stata Teresa a Genova. Il rapporto di Anguilla con la femminilità, in effetti, è un altro grande tema del romanzo: le due prime donne che gli hanno fatto battere il cuore, Silvia ed Irene della Morra, faranno una brutta fine, mentre alla più giovane delle tre sorelle della Morra, Santina, è riservato il finale, anch’esso particolarmente tragico, come accennato all’inizio. Ultimi due aspetti. Il primo riguarda i nuclei familiari: sono tutti praticamente in crisi, tranne quello di Nuto mai rappresentato in scena. Gli anelli deboli sono i padri di famiglia, incapaci di reggere le sorti (gli esempi abbondano ma basta citare per tutti Valino che si ammazza). Il secondo, invece, è relativo al titolo che richiama alle credenze superstiziose del popolo contadino, alle lune e ai falò per l’appunto, che verranno ribaltate nel loro significato. Non è un caso, tra l’altro, che Pavese parli di questa tematica in un romanzo, considerato che nello stesso arco di tempo stava curando per Einaudi, in veste di direttore editoriale, una collana di antropologia.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    23 Aprile, 2019
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ALLA RICERCA DELL'INFANZIA PERDUTA

“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”

“Ripness is all”, la maturità è tutto, scrive Pavese in esergo a “La luna e i falò”, citando il “Re Lear” di Shakespeare: citazione ambigua quanto mai se si pensa che Anguilla, il protagonista del romanzo, venti anni prima è partito, anzi “scappato” dal paese, per fare fortuna in America, e ora, quarantenne – e quindi nel pieno della “maturità” – ritorna e ricorda con nostalgia i tempi della sua infanzia. In questo doppio movimento – partenza e “nostos”, ritorno – si concentra il senso del romanzo, che è soprattutto ossimorico: da una parte c’è la denuncia della povertà, dell’ignoranza e delle condizioni sociali arretrate e ingiuste (la mezzadria) in cui versa la maggior parte della gente delle campagne, dall’altra la nostalgia elegiaca e affettuosa (“Cos’avrei dato per vedere ancora il mondo con gli occhi di Cinto, ricominciare in Gaminella come lui, con quello stesso padre, magari con quella gamba…”) con cui Anguilla risuscita e sublima i ricordi di una campagna “mitica” che la trasferta in America gli aveva fatto dimenticare. In questo rapporto dialettico rientra l’alter ego del protagonista, quel Nuto che non si è mai spostato dal Belbo, non ha viaggiato ed è rimasto a lottare nel suo piccolo pezzo di terra per cambiare le cose. Anguilla e Nuto rappresentano le due facce della stessa medaglia, due proiezioni dello scrittore, quella per cui il mondo è più grande di Gaminella, del Salto e della Mora e bisogna andare al di là di Canelli (e di Alessandria e di Genova…) per conoscere la vita, e quella invece di chi è radicato nella terra come una pianta o un sasso, di chi ha bisogno di una casa, di un pezzo di terra, di un paese per riconoscersi e dire “ecco chi sono”. Emblematico a questo proposito è il confronto con l’America, terra di alienazione e solitudine, priva di passato (“Di dove uno venisse, chi fosse suo padre o suo nonno, non succedeva mai di chiederlo a nessuno”). Persino i falò del titolo sono caratterizzati da questa dualità, essendo al contempo forza rigeneratrice della terra e simbolo di morte e distruzione (l’incendio della casa del Valino, la morte di Santina). Ed è proprio questa dicotomia che impedisce ad Anguilla di portare a buon fine la sua ricerca del tempo perduto: se un suono, una faccia o un sapore sono in grado di riportargli alla mente gli episodi dimenticati di un’infanzia mitica, l’impatto rude e non sublimato con la prosaica realtà contadina (la tragica fine della casa in cui è cresciuto, la morte delle persone che conosceva un tempo, e in particolare le tre sorelle della Mora) lo restituiscono alla sua triste condizione di individuo scisso ed esiliato. La maturità di cui si parlava all’inizio, quindi, è una maturità in negativo, ovverossia la sottomissione al proprio destino, sia esso quello di Anguilla o di Nuto.
La prosa spoglia e diretta di Pavese possiede, soprattutto nella prima parte del romanzo – quella in cui Anguilla impara a riconoscere posti e sensazioni di una volta – un notevole afflato poetico, in cui l’uso sapiente del dialetto e un realismo di stampo verghiano si allargano alle suggestioni del mito tipiche di certa letteratura americana. L’impianto narrativo è semplice e lineare, quasi schematico nei personaggi e nella successione dei capitoli, pur con intelligenti scarti temporali (come nel XXX e nel XXXI capitolo, in cui la rovina di Irene e Silvia precede, pur essendogli cronologicamente posteriore, il felice ricordo di una festa trascorsa dal protagonista con le due sorelle) e qualche sporadica accensione onirico-simbolica (l’episodio notturno nel deserto americano). A mio avviso la seconda parte soffre di qualche squilibrio, sbilanciato com’è nella rievocazione della storia degli abitanti della Mora, e la chiusa è un po’ drastica (dando all’uccisione di Santina ad opera dei partigiani un rilievo che avrebbe richiesto forse una preparazione più meditata, una maggiore suspense), ma nel complesso “La luna e i falò” è un romanzo potente e suggestivo, sicuramente uno dei migliori della letteratura italiana del Novecento.

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    22 Marzo, 2019
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Ritorno a un paese scomparso

Chi mi conosce, sa che come lettore sono un esterofilo di quelli veramente patologici. Durante i primi anni della mia carriera di lettore sono davvero pochi gli autori italiani che mi sono ritrovato a leggere: sarà per le esperienze scolastiche traumatiche (tra cui “I promessi sposi” e il galeottissimo “Il fu Mattia Pascal”), ma fino a poco tempo avevo davvero di che vergognarmi quando un convinto “nazionalista” si faceva avanti e mi poneva la fatidica domanda: “e di autori italiani? chi hai letto?”
Ansia, panico.
Beh, devo dire che negli ultimi tempi mi sto rimettendo in riga e pur rimanendo un esterofilo convinto sto scoprendo autori di assoluto valore: Calvino, Sciascia… e conto di aggiungere altri alla lista. Si può dire che Pavese possa rientrare tra questi? Nì; almeno per quanto mi riguarda.
“La luna e i falò” è una storia che ha al centro il ritorno di un uomo, chiamato Anguilla, nel suo paese natale; un uomo che in questo paese non era altro che un servitore e un lavoratore per una famiglia più facoltosa, che possiede questa proprietà chiamata Mora. Dopo la sua esperienza “oltre Canelli”, fino in America, l’uomo si aspetta di tornare in paese quasi come un eroe; invece trova un paese che a stento si ricorda di lui e che all’apparenza ha conservato tutte le sue caratteristiche, variando solo gli interpreti: quello che lui era anni prima, adesso lo è il giovane Cinto; quello che era il sor Matteo ora è il Valino… o almeno così sembra all’apparenza. Nel frattempo è venuta la guerra a cambiare tutto, sotto la superficie.
Lo stile dell’autore in certi tratti è magnetico, ti cattura e la lettura scorre che è un piacere; in certi altri si fatica un po’ ad andare avanti. Devo dire che in certi tratti il procedere degli eventi suscita curiosità, e accadranno alcune cose (una in particolare) che lasceranno il lettore spiazzato: un crudo colpo di scena che davvero non mi aspettavo e che ha ravvivato moltissimo il mio interesse. Tuttavia, non c’è un grande approfondimento della psicologia dei personaggi: quello che più di tutto viene messo in risalto è il contesto del paese, la differenza che passa tra le classi sociali e come la guerra ha influito e si è insinuata in questo ambiente, lasciandovi un segno indelebile. Quello che più colpisce, durante i numerosi flashback che vedono il protagonista lavorare nella Mora, è la netta divisione che vi è tra i lavoratori e i proprietari terrieri: il nostro Anguilla non penserebbe neanche lontanamente a una storia romantica con una delle figlie del suo padrone; nemmeno l’amore potrebbe distruggere una simile barriera, nonostante gli spasimanti di quelle giovani donne siano perlopiù degli imbecilli e dei poco di buono. Il distacco è netto, si avverte distintamente; solo in pochi e brevi attimi si sente uno scricchiolio, ma non sarà altro che una breve illusione. Quella linea non la si può varcare, e a nulla conta il fatto che “il sangue è rosso dappertutto”.
L’autore descrive questo contesto con vera maestria, eppure non posso dire che mi sia trovato davanti a una lettura indimenticabile.
Pavese: rimandato.

“E Nuto a dirmi: - Cosa credi? la luna c’è per tutti, così le piogge, così le malattie. Hanno un bel vivere in un buco o in un palazzo, il sangue è rosso dappertutto.”

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siti Opinione inserita da siti    12 Settembre, 2017
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SONO TORNATO: TUTTO È CAMBIATO, TUTTO È UGUALE

Pavese, uomo delle Langhe, racconta nel suo secondo romanzo, edito nel 1950, il ritorno di un uomo delle Langhe, il ritorno di un girovago bastardo che cerca ancora la sua identità. È la storia di Anguilla, nato e cresciuto nelle Langhe e io narrante di questo testo. La sua identità è costruita sul suo vissuto, lui sa solo di essere stato un bimbo senza famiglia, allevato poi da contadini in cambio di un sussidio, per proseguire la sua crescita, dopo la morte del padre adottivo, come garzone presso un’altra cascina. Ha dunque una storia e si è gradualmente creato un’identità, torna dall’America, deluso e amareggiato, sperando di ritrovare ciò che il suo ricordo ha cristallizzato. Ma la vita è fugace, pur essendo nelle Langhe tutto uguale, alla fine niente è uguale. Le persone, i luoghi, gli eventi sono altri. È terminata la guerra e la terra restituisce ancora i cadaveri dei tedeschi sepolti, su nelle colline. La lotta partigiana ha segnato territorio e persone, la fame ancora di più. Per alcuni lui non è più il bastardo da prendere in giro, qualcuno nemmeno si ricorda più di lui ed egli vive un senso di infinito sconforto nel mancato riallineamento del ricordo con la realtà. Lui ricorda tutto: la cascina Gaminella, la Mora, le sue tre padroncine delle quali narrerà l’infausto destino. Perfino Nuto, il suo caro amico, è diverso. Sparita l’aura mitica, è uomo fatto , non più il ragazzo grande mitizzato dal più piccolo. Tutto delude e incupisce nella terra della luna e dei falò, nei luoghi dove ancora le credenze popolari hanno diritto di esistere anche se qualcuno le taccia di superstizione. Avvicinandosi il momento di lasciare la probabile terra natia (neanche di questo ha in fondo certezza), Anguilla può solo rimettersi al suo destino, quello che per lo meno gli permette di aiutare Cinto, il piccolo nuovo Anguilla confinato nella disgrazia della sua misera vita. È un romanzo diretto, crudo, reale che riassume la poetica dell’autore: componimento di certa matrice autobiografica a esprimere angoscia esistenziale e il difficile “mestiere di vivere”.

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catcarlo Opinione inserita da catcarlo    05 Marzo, 2017
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Il difficile ritorno

Con il susseguirsi dei romanzi, la scrittura di Pavese si fa più densa, così che i testi si accorciano diventando al contempo più sfaccettati, ricchi come sono di molteplici spunti e sensazioni. Inevitabile che fra queste pagine, le ultime pubblicate dall’autore piemontese, il processo sia giunto a un significativo livello di perfezionamento andando a innervare un libro che emoziona in profondità lasciando a più riprese il lettore ad annaspare meravigliato nell’abbraccio di lunghe descrizioni interiori ed esteriori che mettono sovente in secondo piano il dialogo. Lo scrittore prima blandisce dipingendo una sorta di idillio agreste per poi disturbare narrando con dolente partecipazione l’asperità della vicenda umana sino a inserire una nota di gotico delle Langhe nella sventurata famiglia del Valino. Poco dopo la fine del secondo conflitto mondiale, il protagonista, che come al solito parla in prima persona, torna da uomo realizzato nel paese dove è cresciuto trovatello con il soprannome di Anguilla, prima nella povera casa del Padrino (grazie ai contributi elargiti a chi si prendeva un orfano da sfamare) e poi nella signorile tenuta della Mora: un insopprimibile desiderio di fuga l’ha portato prima a Genova e poi negli Stati Uniti, dove il suo spaesamento è reso da un’atmosfera tanto distaccata e sterile quanto appassionata è quella che avvolge i luoghi d’orgine, finchè le radici non hanno chiamato. Ritrova il vecchio sodale Nuto che, al polo opposto, è rimasto accanto alla propria gente e – al suo fianco anche quando cerca di opporvisi – penetra a fondo nella realtà locale scoprendo che le ombre prevalgono sulle luci. I piani temporali risultano intersecati, con il passato che tende a prendere il sopravvento attraverso episodi più lunghi, mentre quelli che descrivono il presente sono limitati sovente a solo un paio di pagine: indipendentemente dall’estensione, i singoli capitoli sono spesso dei piccoli racconti a sé, lavorati con cura alla ricerca di un equilibrio interno. E’ come se, dopo il luminoso piano sequenza iniziale che coglie la valle del Belbo piena di sole (l’io narrante vi trascorre le vacanze estive), Pavese utilizzasse uno zoom per stringere la visuale addosso alla piccola comunità mettendo in luce magagne antiche e nuove: oltre alle feste di piazza e al lavoro dei campi (della vigna) che a un ragazzo pare un’esperienza comunque vivificante, ci sono le piccole miserie di ogni giorno, i bisogni concreti e quelli fittizi, le difficoltà delle relazioni interpersonali. Il crollo dei punti di riferimento giovanili è al contempo un ritratto dell’imprevedibilità dell’esistenza, con il caso che a volte gioca a dadi con i poveri – ad esempio, la triste fine del Padrino - e una certa debolezza spirituale che frega i benestanti (sempre meno benestanti di qualcun altro) come la in apparenza intoccabile famiglia del Cavaliere: impossibile non vedere un certo parallelismo nei destini delle sorellastre di Anguilla e delle figlie viziate del padrone della Mora. Uomini che mirano ai soldi o alla roba (poca o tanta che sia), botte, femminicidio: durissimo è il destino delle donne in questo libro, fino alle angoscianti scene nella povera fattoria del Valino al cui ineluttabile fato riesce a sfuggire solo Cinto, il piccolo storpio in cui il protagonista un po’ si rivede. Una storia, quest’ultima, che spiega, assieme alla detestabile figura del parroco, come, malgrado i sogni e le speranze, non molto sia cambiato tra prima e dopo la guerra che Nuto ha vissuto a fondo anche se non ne parla volentieri, in fondo è pur sempre un piemontese. Solo quando pensa che Anguilla non riesca del tutto a capire, lo trascina con sé in faticose camminate su per le colline - in mezzo a una natura matrigna, tra sterpi ed erbacce ingiallite e sassi, ben lontana dalla dolcezza della vigna – nell’attesa di rievocare l’orrore che genera l’esperienza bellica quando tocca da vicino in una chiusa secca e terribile.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    01 Novembre, 2016
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"...quelle stelle non erano le mie..."



Questo è un libro color seppia, e non solo per la copertina, è un libro che ha la consistenza delle fotografie ingiallite, che si sgretolano fra le mani...
C'è dentro il senso più intimo e profondo di "paese", quello in cui nasci e che t'ingabbia, ma anche quello che, se riesci ad andar via, è lì ad aspettarti e ti chiama, ti chiama, ti chiama...
Mentre leggi senti il sapore della terra cotta dal sole, l'odore dei falò che vivacizzavano i raccolti, che "portavano bene"...e la luce della luna, quella luna fonte di credenze e superstizioni.
Ma senti anche i crampi della miseria, quella rabbia di una vita senza sfogo che porta gli uomini a prendere a cinghiate mogli e figli...ad ammazzarli, ad ammazzarsi.  
Il protagonista della nostra storia, Anguilla, nasce "bastardo", viene cresciuto da una famiglia che lo accoglie in cambio della "mesata", destinata a chi prendeva in casa i bambini dell'ospedale.
E lui era oroglioso di valere 5 lire.
Cresce con le sorellastre e, in seguito ad una grandinata distruttrice, va a lavorare alla Mora...
Poi ha dovuto scegliere se andare via e conoscere il mondo...o credere per sempre nella luna e nei falò.
A volte crescere vuol dire andarsene, e lui, figlio di nessuno, per trovare se stesso e una propria identità è andato via...prima Genova, poi addirittura l'America, la California...ma, ad un certo punto, si è reso conto che, nonostante il portafoglio gonfio, "quelle stelle non erano le sue"...ed è tornato.
Ma siamo all'indomani della Liberazione...e di quel che era stato, nel suo paese, è rimasto poco più di niente: Anguilla ritrova solo Nuto, il suo amico più "grande", il suo mentore, che si è fatto uomo, come lui del resto.
Conosce Cinto, un ragazzino zoppo che gli ricorda se stesso, la sua infanzia..che vive proprio nelle terre che sono state la sua casa.
E proprio quelle terre, piene di ricordi, saranno teatro del più grande dei falò...ma stavolta non si tratterà di un falò "che porta bene", questo porterà solo morte, la morte di tre persone disperate: la famiglia di Cinto.
E con un altro tragico falò si chiude il libro, un rogo che ha ridotto in cenere un'altra  persona del passato di Anguilla...
Questo è stato l'ultimo libro scritto da Pavese, un libro amaro, sulla disillusione...
Anguilla, triste e amareggiato, parte...e di lui non sapremo mai più nulla.
Anche Pavese partirà, ma di lui sapremo con certezza che non tornerà mai più.

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GPC36 Opinione inserita da GPC36    16 Ottobre, 2016
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La ricerca delle radici


Non vi è nelle pagine di Pavese l’immagine delle Langhe “Patrimonio dell’umanità”, dei paesaggi dove il lavoro dell’uomo ha rimodellato la natura, creando un habitat perfetto in cui i vigneti disegnano sontuosi panneggi e, poco più in alto, le schiere ordinate di noccioleti testimoniano la possibile armonia tra le coltivazioni e l’utilizzo industriale, in una scenografia dominata sullo sfondo luminoso dalla sagoma forte del Monviso che stacca dalla catena alpina.
Il mondo di cui parla Pavese, le Langhe dall’inizio del secolo sino al 1948, è ben altra cosa: un luogo di ricordi umili, di lavoro duro, il mondo di una comunità in cui il benessere era di pochissimi, ma dove si creavano solidi rapporti umani. Un mondo racchiuso fra S. Stefano Belbo e Canelli, dove “per farcela a vivere non bisogna mai uscirne” come dice Nuto, l’amico ritrovato, al protagonista del romanzo, un ‘io narrante’ di cui non viene detto il nome, ma solo il soprannome di Anguilla. Un mondo che crea un forte radicamento, da cui il protagonista, forse perché trovatello senza un luogo di nascita (“bastardo” come si autodefinisce), ha trovato la forza di staccarsi, emigrando negli Stati Uniti nel periodo del fascismo e della guerra. É però sufficiente incontrare in America un emigrato piemontese che gli parli di Nuto e delle Langhe per fargli sentire un richiamo tanto forte da lasciare tutto per tornare, avvertendo il bisogno di “mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più di un comune giro di stagione”.
Se al ritorno trova considerazione e rispetto perché era riuscito ad andarsene per tornare benestante, non trova però le facce e le mani che avrebbero dovuto toccarlo e riconoscerlo: di tanta gente viva allora resta solo Nuto a fargli riallacciare i rapporti con il tempo andato, pur essendo anche lui cambiato, segnato dagli anni e dagli eventi, ormai un uomo che ha appeso al muro il clarino con cui suonava nelle sagre per dedicarsi al lavoro e alla famiglia, “Quel che restava era come una piazza l’indomani della fiera, una vigna dopo la vendemmia, il tornar solo in trattoria quando qualcuno ti ha piantato”. Una comunità in cui i cambiamenti non erano soltanto dovuti agli anni trascorsi, ma anche, più dolorosamente, alla profonda ferita lasciata dalla guerra e dalla lotta di liberazione.
È però ancora viva la cultura contadina che attribuisce ai cicli della luna un ruolo importante per le attività agricole e che per rendere il raccolto più succoso confida nei falò, accesi nella notte di san Giovanni per bruciare i sarmenti, tanti da illuminare nel passato tutte le colline. Su uno dei falò, il più tragico, si chiude questo ritorno nel passato: un falò che segna anche una lacerazione dei rapporti sociali nella comunità, cui la guerra aveva portato.
Il linguaggio essenziale, segnato da piemontesismi, è una perfetta espressione del soggetto narrante e dello stile neo-realistico di Pavese. Presente e passato si fondono in un unico narrativo, segnando la forza del legame con i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, senza che si avvertano le cesure del flashback, se non per il periodo in cui “Anguilla” parla delle esperienze di emigrato negli Stati Uniti. Un ritorno intriso di malinconia, quando i ricordi portano le immagini delle figlie del proprietario che abitavano la villa in cui lavorava da ragazzo, allora viste come entità quasi mitiche, inavvicinabili e che si sono perse nel corso della vita; o nel ritorno al casolare dove era cresciuto con la famiglia cui era stato affidato e che poi si era dispersa. Qui incontra Cinto, ragazzo che resterà drammaticamente orfano, che lui aiuterà a riscattarsi da un futuro di povertà e che rinsalderà così il suo radicamento con questi luoghi. Invece, dopo l’ultima pagina del romanzo, si interromperà per sempre il rapporto di Pavese con le Langhe e con la vita.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    30 Settembre, 2015
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Un solo io, una sola memoria: Cesare-Anguilla.

Scritto nel 1949 e pubblicato pochi mesi prima del suicidio dell’autore nel 1950, “La Luna e i Falò” è considerato il punto di arrivo della poetica di Pavese poiché capace di ripercorrere le linee guida già presenti nelle sue precedenti opere e di trasporne le tematiche in una prospettiva simbolica in grado di unire tanto i ricordi d’infanzia a Santo Stefano Belbo quanto le ragioni dell’antifascismo nonché l’elaborazione del mito sviluppata negli anni.
Il quarantenne Anguilla, dopo essere emigrato in America dove ha vissuto a lungo, fa ritorno nella sua terra d’origine; le Langhe. Orfano adottato da una famiglia di contadini che abita alla cascina della Gaminella, presso Santo Stefano Belbo, il giovane era stato costretto in un primo momento a trasferirsi alla cascina della Mora a seguito della morte del padre adottivo e di poi a fuggire negli Stati Uniti per scampare alla dittatura fascista.
La Guerra è ormai finita, ma il rientro è amaro per il nostro protagonista che prende atto del fatto che il mondo della sua memoria non esiste più, lo stesso podere dove è cresciuto è adesso abitato dalla famiglia Valino. Un rapporto quasi padre-figlio stringe con Cinto, figlio zoppo dei nuovi residenti; ama trascorrere il tempo in sua compagnia passeggiando nelle campagne delle langhe. Questi fugaci incontri permettono all’uomo di rievocare e vivere la propria infanzia e adolescenza, reminiscenze che vengono altresì accentuate ed avvalorate da Nuto, un falegname che negli anni della giovinezza ha rappresentato la figura paterna di riferimento per Anguilla nonché ex partigiano che assurge all’onere di dover descrivere gli orrori della guerra civile contro i nazifascisti, un evento che ha radicalmente cambiato la vita di tutti.
La tragedia incombe quando la situazione economica del podere precipita e Valino in un raptus di follia compie uno dei gesti più aberranti possibili.
Il romanzo è suddiviso in trentadue brevi capitoletti aventi ad oggetto quando un episodio descrivente una breve scena narrativa quando lo sviluppo della reminescenza del protagonista; questa struttura sottolinea da un lato l’importanza del ruolo della memoria e dall’altro quello della trasfigurazione del ricordo stesso in un simbolo che generalmente nella poetica di Pavese è inattivo ed inerte fino a che noi non li riconosciamo tramutandolo in strumento di lettura ed interpretazione della realtà.
Il rimpatrio è sinonimo di confronto con quest’ultima: Anguilla si interroga sulla sua condizione di orfano, sulle sue origini, sulla sua mancanza di radici arrivando a constatare l’assenza di un luogo natale al quale sentirsi affettivamente legato. Più questo desidera tornare agli inizi, a quel che è stato e più realizza che quegli emblemi, quei ricordi personali che hanno scandito la sua esistenza sono stati cancellati dalla brutalità della Guerra, dalla storia. Ed il falò, originariamente rito ancestrale e propiziatorio per la fertilità dei campi, diviene congegno di morte e distruzione sia nel caso di Valino che nell’esecuzione di Santina.
Un componimento di grande impatto, avvalorato dall’inconfondibile penna di Pavese, da gustare un poco alla volta pagina dopo pagina. Originariamente letto una decina di anni fa, ho ancora viva in me quella grande sensazione di malinconia e di perdita che l’autore tramite la voce del suo protagonista è stato capace di trasmettere.

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Riccardo76 Opinione inserita da Riccardo76    19 Agosto, 2015
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Addio amico mio

Anguilla un orfano accudito da semplici contadini, destinato ad una vita di povertà e duro lavoro nei campi, fra le fantastiche vigne delle Langhe piemontesi, decide di andare in America per fare fortuna. Successivamente alla Liberazione torna ai suoi luoghi d’infanzia e gioventù e si incontra con il suo vecchio amico Nuto, questi lo accoglierà e lo accompagnerà alla riscoperta dei luoghi e delle persone del passato. In questo romanzo Pavese va alla ricerca di quel legame che unisce il paesaggio alle persone che lo vivono, va alla scoperta dei perché e i perché le radici possano essere un richiamo così forte, una parte fondamentale di ogni singola esistenza. Cito dall'antologia della critica una frase di Italo Calvino in relazione a questo grande romanzo:

“Ciò che egli cerca non è soltanto il ricordo o il reinserimento in una società o la rivincita sulla miseria della sua giovinezza; cerca il perché un paese è un paese, il segreto che lega luoghi e nomi e generazioni.”

L’importanza che Pavese da hai luoghi è fondamentale, paesi che sono protagonisti al pari dei personaggi, terre che sono vive, non fanno semplicemente da sfondo, sono “persone” vere e proprie. La ripetizione dei nomi dei luoghi: Canelli, Alba, Neive, Calosso, Gaminella, Costigliole e tanti altri sono, a pare mio, la conferma al concetto di territorio come personaggio.

“La prima cosa che dissi, sbarcando a Genova in mezzo alle case rotte dalla guerra, fu che ogni casa, ogni cortile, ogni terrazzo, è stato qualcosa per qualcuno e, più ancora che al danno materiale e ai morti, dispiace pensare a tanti anni vissuti, tante memorie, spariti così in una notte senza lasciare un segno. O no? Magari è meglio così, meglio che tutto se ne vada in un falò d’erbe secche e che la gente ricominci.”

Pavese stesso lo testimonia con questa frase che a mio parere è favolosa e ricca di contenuti.

La storia è ambientata in luoghi tutt'oggi favolosi, che in parte conosco personalmente e che sono legati a tanti bei ricordi, tanti profumi, tanti sapori che non dimenticherò mai. Aria di festa e di vendemmia fra amici, bellissime esperienze passate insieme ad un amico speciale che purtroppo ho appena perso. Per questo motivo ho deciso di leggere questo romanzo, proprio adesso che lui non c’è più. In quella favolosa casa di campagna a Costigliole, paese citato nel libro, lascio un pezzetto del mio cuore, Amico caro ovunque tu sia sarai sempre con me, e questa storia che tanto mi ricorda il nostro legame sarà per me fondamentale.

Addio.

P.s. perdonate la divagazione un po’ triste, ma scrivere in questo periodo mi aiuta.

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Radici Opinione inserita da Radici    10 Luglio, 2015
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Il viaggio di Pavese-Anguilla

Stile asciutto, concreto, senza fronzoli come la vita dell' Anguilla (soprannome del protagonista e IO narrante della storia).
Pavese ci fa vivere le sue emozioni e idee, la sua stessa vita, attraverso La luna e i falò.
La storia è per lo più avvolta da un velo grigio, di tristezza, un lungo viaggio a ritroso per ritrovare se stessi.
Riti contadini,amici e storie ritrovate, la vita nei paesaggi bucolici del dopo guerra, la consapevolezza di mondi totalmente diversi,
dall' America a un paesino del Piemonte e la capacità di viverli entrambi.

Sapere che: "nella gente,nelle piante,nella terra c'è qualcosa di tuo" è un'emozione bellissima,
condivisa con noi dallo scrittore con la narrazione della vita di Anguilla. Non è un libro facile, non per lo stile o il lessico,
ma semplicemente per il messaggio che vuole dare. Personalmente ritengo che a volte sia la nostalgia di un tempo passato
o non vissuto a farsi sentire, che la mancanza del luogo in se. Molto forte e d'impatto l'immagine di fare
determinati gesti per ritrovare gli stessi del passato. Un libro che alla fine ti lascia il nodo in gola per l'empatia
con il personaggio e lo stesso Pavese, ma con la serenità di sapere chi sei e a cosa appartieni. dando quasi un significato al viaggio della vita.

Lettura consigliata a tutti, specialmente a chi torna a casa, alle sue radici, per scendere dal treno con il libro in mano e il sorriso sulle labbra.

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l' Alchimista - Paulo coelho
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Mr. A Opinione inserita da Mr. A    26 Giugno, 2014
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Ritorno alle radici

Scritto nel 1949 , quattro anni dopo la Liberazione, "la luna e i falò" rappresenta l'ultimo romanzo di Pavese (morto nel 1950).
La storia è narrata in prima persone dal protagonista, soprannominato Anguilla, che dopo la liberazione torna nel suo paese d'origine in Italia, dopo un lungo periodo d'assenza passato in America.
Insieme al suo amico Nuto, Anguilla ripercorre la sua giovinezza trascorsa al paese del Belbo (in Piemonte) alla fattoria della Mora, insieme a sor Matteo e alle tre figlie: Irene, Silvia e Santa.

I 32 capitoli del romanzo sono un continuo andirivieni tra passato e presente, i due piani narrativi si intrecciano nei racconti, spesso tristi, che Anguilla rivive con il suo amico Nuto, racconti che porteranno il protagonista in un bellissimo ma sofferente viaggio nel tempo, alla riscoperta delle sue antiche radici.

da "La lune e i falò" ne esce un affresco meraviglioso e squisito della vita contadina nel periodo dell'immediato dopoguerra.Nel romanzo vengono ad intrecciarsi i temi civili della resistenza partigiana e della lotta contro la dittatura fascista, con le vicende interne dei personaggi che ne fanno da protagonista, in una storia semplice e drammatica che reca con se molta malinconia.
L'uomo ancora una volta spaccato dalle guerre, si ritrova in un mondo in cui non riesce a riconoscersi e per farlo deve trovare appiglio nei valori, nell'affetto dei cari, nei ricordi, nella luna e nei falò...

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chicca Opinione inserita da chicca    13 Agosto, 2013
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Chiediti chi sei

Davvero bello questo romanzo di Pavese, molti ritengono contenga il bilancio conclusivo della sua opera di scrittore e , forse anche della sua vita , dato che pochi mesi dopo la pubblicazione del romanzo Pavese si toglierà la vita.
Sicuramente i parallelismi tra la vicenda narrata e la vita dell' autore non possono essere considerati semplici coincidenze, egli mette nel romanzo molto della sua vita , delle sue idee, delle sue passioni.
Ma veniamo alla trama, Anguilla ,il protagonista e io narrante spiega il perchè del suo ritorno al paesello delle Langhe piemontesi dalla America dove ha fatto fortuna.
Egli ripercorre la sua vita fin dall'abbandono della madre sul sagrato del duomo di Alba, il suo ritorno diventa così una ricerca delle proprie origini e di quella identità che può racchiudersi in valori, credenze, superstizioni ( da qui la luna e i falò ) oppure solo nel paese,nella terra, come dice lui stesso in questa celebre frase:
"Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti."
Lo stile narrativo è scarno e asciutto, non cade nel generico, nel facile e nel convenzionale. Non per niente Pavese fa parte come Vittorini del filone neo-realista, anche se mantiene comunque una scrittura in lingua italiana e non utilizza mai termini dialettali, predilige piuttosto un italiano informale-colloquiale.

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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    12 Mag, 2013
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Un messaggio di speranza

Cesare Pavese ha scritto questo romanzo nella seconda metà del 1949 e la pubblicazione è avvenuta nell'aprile del 1950, quattro mesi prima del suo suicidio.
Con questa premessa “La luna e i falò” rappresenta un vero e proprio testamento spirituale, un'opera complessa densa di significati e un messaggio di speranza per un mondo nuovo.
Il protagonista, Anguilla, è un bastardo cresciuto nella miseria dell'anteguerra e che ritorna nel suo luogo di origine, un paese delle Langhe, a conflitto terminato, dopo aver fatto fortuna in America.
Il romanzo viaggia su due piani paralleli che si intersecano mirabilmente: uno è quello del passato, con velati rimpianti a un'epoca sì di stenti, ma anche di traboccanti entusiasmi giovanili; l'altro è il presente con l'incontro con il suo amatissimo amico e maestro Nuto.
Insieme i due ripercorreranno il passato e ne faranno una comparazione con il presente.
I dialoghi con Nuto, già partigiano e ora marxista non politicizzato, sono oggetto di profonde riflessioni, dove il personaggio dell'amico rappresenta la logica coerente dell'anima, ben conscio che in una guerra civile ci sono ragioni dall'una e dall'altra parte che non possono essere trascurate se la vita deve continuare senza le premesse di un nuovo conflitto.
In questo quadro si innesta il messaggio di speranza dell'autore; Anguilla, infatti, vede il futuro nel personaggio di Cinto, l'orfano storpio che abita nella sua vecchia casa e in cui idealmente si rivede.
La menomazione gli impedirà come ha fatto lui di fuggire da questo ambiente di miseria e di conoscere il mondo, ma proprio perché è di una generazione che non deve fare i conti con la guerra è puro, incontaminato da una tragedia che invece, in un modo o nell'altro, ha segnato indelebilmente chi l' ha vissuta.
Sotto l'aspetto dello stile narrativo, la descrizione del paesaggio, della miseria che in alcuni casi può portare alla follia è quanto di più efficace abbia mai letto.
I personaggi vengono delineati con brevi e concise frasi e i dialoghi fra Anguilla e Nuto hanno il pregio di creare un'atmosfera che coinvolge il lettore, rendendolo partecipe, quasi presente.
In “La luna e i falò”, inoltre, i riferimenti autobiografici, già presenti nelle opere precedenti, assumono una connotazione maggiore, quasi preponderante, così che non è difficile identificare, per certi versi, il personaggio di Anguilla con lo scrittore.
Si tratta quindi di un'opera complessa, dove la maturità artistica di Pavese raggiunge il suo punto più elevato e dove probabilmente ha detto tutto quello che aveva da dire, un testamento inconscio di chi non si sentiva più parte di un certo mondo al punto di togliersi da lì a poco la vita.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    24 Novembre, 2012
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La luna e i falò di Cesare Pavese

Non mi sembra un paradosso affermare che La luna e i falò di Cesare Pavese è un romanzo in bianco e nero. Scritto nel 1950, appartiene al miglior neorealismo italiano: si pensi a Roma città aperta di Rossellini (1945), Ladri di biciclette (1948) e Umberto D (1952) di De Sica. Nel romanzo di Pavese, però, non è la città, ma il mondo contadino che fa da sfondo ed è protagonista al tempo stesso della narrazione. Una prosa limpida rende la lettura immediata e scorrevole: la parola corrisponde esattamente al suo significato, senza alcun abbandono a metafore o allegorie, ma con qualche sporadica libertà dialettale.
La narrazione procede in prima persona, nella migliore tradizione autobiografica, che lascia il dubbio sulla perfetta coincidenza tra protagonista e autore; come sempre in questi casi, il racconto viene filtrato dal punto di vista del narratore. Qui la storia procede come un viaggio nella memoria di un giovane emigrato che torna al paese d’origine dopo aver fatto un po’ di fortuna. Ma è proprio sull’origine che si richiama immediatamente l’attenzione del lettore: del protagonista-narratore non ci viene detto neanche il nome, ma solo il soprannome Anguilla; di lui si sa però che è un bastardo, allevato da contadini con la prospettiva di disporre in futuro di braccia valide da impiegare nei lavori dei campi.
Radici fragili, dunque, quelle di Anguilla, radici superficiali come quelle delle viti piuttosto che profonde come quelle di altri frutti. Eppure l’esigenza di un ritorno alle origini è così naturale nell’uomo che Anguilla non esita a tornare nei luoghi dell’infanzia anche a costo di rinnovare umiliazioni e ferite sofferte; e il realismo descrittivo di Pavese suscita profumi e odori penetranti, crea immagini di corpi deformati dalla fatica dei campi, dipinge scene di coralità campestre, con una tecnica quasi cinematografica, dove la parola fa da supporto all’immagine e l’immagine dà significato alla parola.
I ritmi della vita contadina sono inevitabilmente legati al succedersi delle stagioni e alle credenze popolari: dunque la luna non è solo l’astro che diffonde il suo raggio luminoso accentuando il mistero nascosto tra le vigne delle Langhe, ma è il punto di riferimento per le attività contadine, così come i falò vengono accesi per evocare la pioggia con l’umidità evaporata dal terreno.
Il racconto di Pavese, però, non concede nulla all’idillio: la tragedia della guerra civile che dilania l’Italia degli anni quaranta, è in agguato nel racconto ed esploderà alla fine, come esplode la vita di chi, consumato da ritmi faticosi e stressanti, non regge alla durezza del lavoro quotidiano e compie una strage: è il caso di Valino, che lascia il piccolo storpio Cinto alle cure di Anguilla e Nuto.
L’amore stesso s’accompagna alla morte, come nel caso di Irene e Silvia le cui esistenze si concludono tragicamente: quasi un presagio nella storia personale di Pavese. E la più bella delle tre sorelle, Santa, non sfugge a un tragico destino. In cerca d’una felicità sempre negata, come le sue sorelle, si lascia andare ora all’uno ora all’altro, incurante se siano d’opposti schieramenti politici. Il suo corpo straziato dalla fucilazione verrà arso sul luogo stesso dell’esecuzione: da esso si alzerà il più crudele e macabro dei falò. Come a voler affermare che non c’è luogo, neanche il più lontano dalla lotta civile e politica, dove la pace possa regnare se essa non alberga nel cuore dell’uomo.

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Opinione inserita da Vito Lorenzo    15 Febbraio, 2012

Un libro, un'epoca

Libro meraviglioso che ti resta nel cuore... Storia di guerra che non se ne va e di un animo bello in un'epoca che non sa di bellezza. Il dramma del protagonista è il dramma dell'uomo moderno, scegliere. Perché scegliere fa paura, significa volare senza avere necessariamente qualcuno al fianco, significa vivere. Eppure si vola e si cammina sempre perché qualcuno ce lo ha insegnato. Qui sta tutto Pavese in questo capolavoro di altri tempi ma senza tempo! Bravo Cesare!

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Assolutamente consigliato a chi ha letto Tolstoj e Dostoevskij o Verga o Pasolini...
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isabella82 Opinione inserita da isabella82    01 Febbraio, 2012
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Il senso di Pavese per la terra

Anguilla è tornato al suo paese, dopo un lungo periodo trascorso in America. Lì ritrova lo stesso sapore della sua infanzia, gli stessi odori e colori e l'amico di sempre, Nuto. La terra con le sue amarezze e gli abbandoni gli ricorda che il cuore dell'uomo è girovago ma ha sempre bisogno di un posto in cui tornare. lì apprende la storia della sua gente, conosce i drammi intercorsi durante la sua assenza e conosce il piccolo Cinto, al quale si affeziona, proprio per via di un'assonanza, una somiglianza di sorte. E' un romanzo fatto di miti ancestrali, legato al corso della natura (la luna e i falò si riferiscono alla ciclica vita della terra e dell'uomo), e potente perché scava a fondo nelle ragioni di un'esistenza, indaga le conseguenze delle azioni umane, nell'insensato bisogno di morte che si genera dall'odio. Viaggiando su due tempi, il passato che per Anguilla è ancora attuale e il presente del ritorno, il narratore sospende il giudizio sul destino dei protagonisti, una sorte che non è chiara, ma fragilmente custodita nell'infanzia di Cinto. Lo sfondo sono sempre le Langhe, la terra bruciata dal sole e dai falò estivi o dagli incendi che in una notte distruggono vite intere. La terra e la natura circondano l'uomo, lo condizionano, ne esaltano istinti primordiali e sottopongono al narratore il ricordo dell'infanzia, identificata con la spensieratezza, ma il ritorno non è possibile perchè il passato nella sua imperscrutabile laconicità è irrecuperabile.

Un messaggio forte, un'ultima perla di un grande scrittore.

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Pratolini, tutta la produzione di Pavese, Steinbeck,
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