La ciociara La ciociara

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Calderoni Opinione inserita da Calderoni    14 Marzo, 2021
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Stupro doppio: collettivo ed individuale

La ciociara è uno dei romanzi più autobiografici di Alberto Moravia, sebbene il narratore interno, che è insieme protagonista e testimone, sia femminile e popolana. Moravia con la moglie Elsa Morante ha vissuto dal 12 settembre 1943 al 23 maggio 1944 a Sant’Agata presso Fondi per sfuggire dalla guerra. Sono tra l’altro per tutto il centro Italia i nove mesi più cruenti del secondo conflitto mondiale. Anche Cesira, con la giovane figlia Rosetta, abbandonerà Roma e si rifugerà in Ciociaria, la terra natale della protagonista. Si tratta, dunque, del romanzo sulla guerra di Moravia, ma a differenza di molti altri colleghi aspetta parecchi anni prima di completarlo e ciò lo rende differente rispetto a tutti gli altri libri di eguale tematica. È un romanzo meditato perché il tema bellico e l’esperienza umana vissuta in Ciociaria da Moravia meritano molte riflessioni. La Ciociara, alla fine, uscirà nel 1957, ben 12 anni dopo il termine della Seconda guerra mondiale. È la storia delle avventure e delle disavventure di due donne, Cesira e Rosetta. È la descrizione, inoltre, di due atti di violenza, uno collettivo (la guerra combattuta sul suolo italico che si trasformò in un rastrellamento da Sud a Nord) e l’altro individuale (il terribile stupro ai danni di Rosetta, paradossalmente a liberazione avvenuta). Si segue, perciò, il passaggio da uno stato di innocenza e di integrità ad un altro di amara e nuova consapevolezza. Si ragiona sull’esperienza umana di quella violenza profanatoria che è la guerra. Moravia lancia un messaggio che vale per ogni conflitto bellico riferendosi al popolo inerme costituito da donne, giovani ed anziani. L’analisi di Moravia è, dunque, razionale e travalica l’ambito della Seconda guerra mondiale, prendendo come riferimento ogni singolo conflitto in ogni epoca e in ogni latitudine. Oltre alle già citate Cesira e Rosetta, il terzo personaggio cardine della narrazione è l’intellettuale Michele. Andiamo con ordine. La coppia madre-figlia compie un viaggio di rinascita tra le macerie. Subiscono una metamorfosi irreparabile a causa della guerra. Rosetta, descritta nella sua giovinezza dalla madre come una figura pura e quasi santa, è vittima dello stupro da parte di un gruppo di marocchini, aggregati agli Alleati, presso una chiesa abbandonata sotto l’altare della Madonna. Discende negli inferi: perde la vergogna e diventa bestia. A causa di questo atto di inutile crudeltà conosce il sesso e si concede senza più ritegno, in primo luogo a Clorindo che le regala un reggicalze nero; perde ogni freno inibitore e si dichiara muta. Sulla strada del ritorno verso Roma, però, ritrova la parola: canta e piange e ciò restituisce la speranza. È completata la sua formazione, la sua conoscenza di sé. Come Cesira, torna a casa lacerata ma consapevole; non è più una santa, ma non è nemmeno una prostituta. È semplicemente una creatura umana che sa, è più autentica. Cesira evidenzia in ogni passo la propria identità linguistica, culturale e sociale. Il suo punto di vista porta costantemente ad un abbassamento. Questo rende limitata la sua attendibilità, non per malafede ma più che altro per ignoranza. Il suo status di “popolana” fa cadere linguisticamente all’interno del romanzo la distinzione tra scritto e parlato. Addirittura Cesira in alcuni passaggi non soltanto è “popolana” ma è addirittura burina. Cesira nasce nel romanzo quando comprende di essere sposata con un uomo cattivo ed infedele; si è legata a quest’uomo solo per andare a Roma a lavorare in un negozio di alimentari. Morto il marito, non si concede a nessun altro con amore. L’unico rapporto che avrà sarà con il carbonaio Giovanni, ma senza amore. Prova amore solamente per sua figlia, per Rosetta, chiamata a più riprese «figlia mia d’oro». Anche in tale espressione si può scorgere il suo istinto da bottegaia, il suo legame con il denaro e l’alto valore di scambio che Rosetta può possedere, anche se in realtà si trasformerà in una preda gratuita della guerra. Non deve sorprendere, inoltre, che Cesira quando parla di sé si sofferma sul godimento dell’avere piuttosto che sul principio dell’essere. Quando viene intaccato il suo unico amore, Cesira muore nell’assurdità del suo dolore. Riesce, però, ad accettare la verità della guerra e torna insieme alla figlia a camminare sinceramente nell’unica vita che le è riservata. Infine, c’è Michele che è un giovane intellettuale elevato dalle parole di Cesira allo status di autorità paterna. È un intellettuale più maturo rispetto a tanti altri di Moravia. Egli considera la guerra come un’apocalisse che coinvolge tutto e tutti, anche coloro che sono ancora vivi come i contadini e gli sfollati (emblematico il suo diverbio con il padre Filippo che si ritiene un furbo pensando solo alla «roba» e considera il figlio un «fesso» per le sue idee politiche). Michele rappresenta un’alterità maschile, poiché quasi tutti gli altri uomini del romanzo sono connotati dalla violenza, dalla meschinità, dalla distruzione. È anche il simbolo della castità, opposta allo stupro ai danni di Rosetta. Legge a Cesira e agli altri sfollati il passo del vangelo del Lazzaro, dove punta sulla sofferenza umana e prova ad insegnare in primo luogo a Cesira la compassione e l’autentica empatia. E Cesira si ricorderà della lettura avvenuta a Sant’Eufemia (Sant’Agata nella realtà) quando ormai è prossima a rientrare in Roma, a conferma della sua crescita personale.

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AriMonda Opinione inserita da AriMonda    21 Gennaio, 2020
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La guerra è dappertutto, in campagna come in città

“La ciociara” di Alberto Moravia racconta l’esperienza di due donne, madre e figlia, costrette a scappare da Roma durante la Seconda Guerra Mondiale per scampare ai bombardamenti e alla carestia che imperversava nella città. Ma, allargando il campo dell’obiettivo, ci si rende conto di trovarsi di fronte a qualcosa di molto più grande: al senso stesso della violenza e della forza distruttiva di un’esperienza profanatoria come quella della guerra.

Cesira, la protagonista, è una donna semplice, pragmatica e concreta, tutta volta alla pulizia della casa, al negozio e alla cura della figlia Rosetta. Una donna trapiantata a Roma dalla Ciociaria, contenta di aver abbandonato i campi della sua infanzia, nonostante rimanga forte l’attaccamento a quei luoghi e alla sua origine contadina, pronta per cominciare una vita completamente diversa, da abitante di città, nella casa dell’odiato marito. Se la guerra in un primo momento sembra essere una manna dal cielo per la donna, la quale attraverso la “borsa nera” riesce a intascarsi parecchi soldi facendo leva sulla penuria di viveri, alla fine la costringe ad abbandonare la casa amata, simbolo di una vita desiderata e poi afferrata con mano, coltivata e protetta dalle sue cure, ed ora strappatale via da una guerra che non capiva e non voleva.

Madre e figlia, a malincuore, partono per la campagna, con l’illusione di raggiungere la casa dei nonni e poter aspettare la fine delle guerra mangiando e riposandosi, come se si trattasse di una semplice vacanza. Scopriranno sulla loro pelle che la guerra non fa sconti, non va in vacanza e non risparmia la campagna, per quanto essa possa comunicare tranquillità e ristoro.
Non arriveranno mai alla casa dei genitori di Cesira, il treno pieno di nazisti non giunge a destinazione e costringe le due donne, sole, con le valigie caricate sulla testa a cercare riparo altrove.

“La ciociara” è la storia di una parte dell’Italia, quella costretta a scappare e cercare rifugio sui monti, lontano dai centri abitati, a fare provviste senza sapere per quanto tempo se le sarebbero dovute far bastare. Di uomini e donne costretti dalla necessità a sospettarsi l’un l’altro, ad aiutarsi solo per tornaconto personale, ad aspettare con ansia ora la vittoria degli Alleati ora quella dei tedeschi, purché mettessero fine alla miseria, alla fame e alla lontananza dai propri cari e dalle proprie case.

È la storia di due donne, sole, che si fanno forza l’un l’altra per cercare di sopravvivere alla fine della guerra, qualcosa di innaturale che sotto i loro occhi stava storpiando la natura dell’uomo. Cesira, per proteggere la figlia, pura come un angelo e perfetta nella sua “ignoranza”, trova la forza di andare avanti e non buttarsi giù di fronte agli intoppi che incontrano lungo il cammino. Riesce a provvedere ad entrambe, grazie al denaro della “borsa nera”, a garantirsi un tetto sopra la testa e provviste per l’intero periodo in montagna. Ma è proprio quando tutto sembra essere finito e risolto per il meglio che le cose precipitano. Gli Alleati sbarcano e sbaragliano le truppe tedesche conquistando terreno e permettendo agli sfollati di scendere a valle.

Qui, Cesira avrà modo di constatare come la guerra non tiri fuori il peggio delle persone, ma permetta agli uomini di sfogare la loro vera natura, di fare uscire, senza regole e senza paura delle conseguenze, la bestialità che si annida in fondo all'essere umano, senza tralasciare nessuno. L’egoismo e il tornaconto personale anestetizzano l’uomo e lo rendono indifferente alle disgrazie altrui, capaci di spostare un cadavere dalla strada e proseguire come se nulla fosse successo; di stuprare, rubare, vivere sulle spalle degli altri senza che nessuno venga punito, senza sensi di colpa, senza sentire il bisogno di redimersi.

Cesira assiste ad eventi tragici e drammatici, come donna e come madre, vede la figlia cambiare sotto i suoi occhi e sente su di sé il peso dell’impotenza di fronte alla sofferenza e al dolore di un essere così perfetto rovinato per sempre.
La guerra ha cambiato il volto dell’Italia e gli animi degli italiani, e quella donna che in gioventù era in grado di trasportare “sul cercine, in bilico sulla testa, […] fino a mezzo quintale”, si ritrova a dover sopportare sulle proprie spalle qualcosa di molto più pesante: la consapevolezza che tutto è cambiato, la guerra aveva segnato la “tomba di indifferenza e di malvagità”, mentre il dolore provato, sulla carne e nell'anima, le aveva salvate e restituite alla vita, una vita non felice e forse piena di oscurità, ma “la sola che dovessimo vivere”.

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leogaro Opinione inserita da leogaro    30 Giugno, 2019
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Esperienza immersiva nella violenza

Il romanzo è ambientato durante la seconda guerra mondiale, tra Roma e alcuni paesi della Ciociaria. Cesira, di origini ciociare, è rimasta vedova dopo un matrimonio infelice e gestisce un negozio nella capitale; vendendo al mercato nero, la donna riesce a tirare avanti insieme alla figlia Rosetta.

Settembre 1943: costretta dalla carestia e dai bombardamenti, Cesira lascia Roma per rifugiarsi a Vallecorsa, suo paese natale. Ma il viaggio si interrompe a Fondi: le rotaie sono state bombardate e il treno è bloccato. Ospitate dall’ambigua Concetta in una modesta casa di contadini, sono costrette a fuggire per l’eccesivo interesse di due giovani fascisti per Rosetta. Cesira chiede aiuto ad un negoziante suo conoscente, Tommasino Festa, che le conduce nel villaggio montano di Sant'Eufemia, dove vivono alcune famiglie di sfollati di Fondi. Tra essi, le donne conoscono l’idealista Michele. Con l’arrivo delle piogge autunnali, l'avanzata alleata si blocca e il fronte si stabilizza a sud di Sant'Eufemia: cominciano i bombardamenti su Fondi e gli sfollati passano dalla speranza alla disperazione. I tedeschi attuano feroci rastrellamenti di giovani: per sfuggirgli, Michele scappa in montagna, per tornare solo a sera a Sant'Eufemia, Cesira e Rosetta lo accompagnano. A Natale, giungono a Sant'Eufemia due inglesi: per paura delle rappresaglie tedesche, solo Rosetta si fa avanti per accoglierli e sfamarli.

Gennaio 1944: gli Alleati sbarcano ad Anzio, ma vengono presto bloccati: il tempo scorre lento, tra la quotidiana monotonia e i timori dei bombardamenti. Solo in primavera l’avanzata riprende: giungono così a Sant'Eufemia alcuni tedeschi fuggitivi, che prendono Michele come guida per risalire verso nord. Cesira e Rosetta lasciano Sant'Eufemia e scendono a Fondi, ove trovano solo una gran confusione: soldati angloamericani, sfollati, contadini… Saputo del trattamento di favore per chi ha aiutato gli Inglesi, Rosetta racconta l'episodio del Natale, ottenendo così un passaggio a Vallecorsa. Ma la gioia durerà poco, poiché le due donne giungono in un paese deserto, alla mercé dei soldati di passaggio. La violenza che incontrano non è solo quella dello stupro: l’esperienza della guerra muterà profondamente i comportamenti delle due, incrinando i loro rapporti, precipitandoli in una profonda incomunicabilità. Dopo ulteriori disavventure, quando infine giungeranno a rivedere all'orizzonte la cupola di S.Pietro, dalle lacrime sgorgherà la speranza del ritorno alla vita, dopo il logorio morale e materiale della guerra.

Stile asciutto e crudo, quello di Moravia, che usa un linguaggio diretto, decisamente poco aulico, per narrare vicende che, non dimentichiamolo, nascono da esperienze personali dell’autore stesso. La lettura è piuttosto snella, sebbene il ritmo non sia incalzante, anzi. Il romanzo, nel raccontare il susseguirsi degli eventi, prende un ritmo sonnolento che, gradualmente, scava nell’animo del lettore, lo costringe a riflettere, immedesimarsi. I personaggi sono ben delineati, impossibile non identificarsi nella fragile Rosetta, nella determinata Cesira o nell’idealista Michele… anche i personaggi “negativi”, come l’ambigua Concetta o il losco Clorindo, hanno un ruolo ben definito nel romanzo e la loro presenza è essenziale alla trama, come pure coerenti sono i loro comportamenti. La guerra è guerra, non c’è da scherzare; e Moravia ci scaraventa dentro, nelle giornate sonnolente d’attesa, nei quotidiani timori, nelle speranze vanificate, nell’universale dolore. E’ un libro che un po’ logora dentro, così come fa qualsiasi guerra. Perché la guerra non finisce con l’armistizio: i suoi strascichi, indelebilmente marchiati nell’animo dei superstiti, restano, come scorie radioattive impossibili da espellere. Un romanzo non sempre scorrevole, non certo una lettura d’evasione: è un classico da leggere, con la dovuta attenzione.

“Questo è certamente uno dei peggiori effetti della guerra: di rendere insensibili, di indurire il cuore, di ammazzare la pietà.”

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joannes88 Opinione inserita da joannes88    17 Ottobre, 2018
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Un libro sull'orrore della guerra

La guerra chiude gli uomini in una “tomba di indifferenza e di malvagità”, li deturpa nell’animo, rendendoli apatici, duri di cuore e privi di pietà verso le disgrazie altrui. Questa è l’idea principale che attraversa le pagine della Ciociara di Moravia, dove la triste storia di Cesira e di sua figlia Rosetta è l’emblema di un’Italia dilaniata e sfigurata dalle tragedie del secondo conflitto mondiale. Le disavventure delle due protagoniste – costrette ad abbandonare Roma nell’estate del 1943 per la paura dei bombardamenti e a rifugiarsi tra i monti della Ciociaria – fanno da tessuto narrativo ad una più ampia meditazione su un imbruttimento morale che non risparmia quasi nessuno. La carestia, i prezzi folli della borsa nera, la mancanza di un tetto dove trovare riparo e l‘imperscrutabile malignità degli occupanti mettono a durissima prova i malcapitati del tempo, costringendoli a una lotta per la sopravvivenza dove non c’è spazio per “le leggi e il rispetto degli altri e il timor di Dio” e i valori dell’epoca di pace sono irrimediabilmente capovolti.
Le uniche luci a brillare nello scenario cupo e miserevole descritto da Moravia sono quelle di due giovani ragazzi: Rosetta e Michele (uno studente sfollato con cui le protagoniste instaurano presto un rapporto di amicizia). Pur animati da opposti ideali – Rosetta è estremamente religiosa, mentre Michele crede ferventemente nel socialismo – questi due personaggi appaiono puri, genuini e sorprendentemente saldi in un mondo che continua a precipitare. Tuttavia, seppur in maniera diversa, la guerra non tarderà ad allungare le sue mani anche su di loro. La ciociara, per buona parte, è la storia di queste gioventù spezzate, di due promettenti vite che in un contesto differente avrebbero ottenuto ben altra sorte.
Dopo La romana, pubblicato nel 1947, questo romanzo conferma una volta di più l’estrema sensibilità di Alberto Moravia nella descrizione dei personaggi femminili, una sensibilità che trova pochi pari nella letteratura italiana contemporanea.
Tutta la vicenda è filtrata attraverso gli occhi di Cesira, una donna semplice e di umili origini. Il racconto è pertanto improntato a una semplicità di espressione che rende la lettura fluida e agevole. Chiunque può tranquillamente avvicinarsi a questo libro, senza quella sorta di timore reverenziale che tante volte rende titubanti davanti alla lettura di un classico.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    18 Settembre, 2017
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Fondi

«Così è la guerra, pensai: tutto sembra normale e invece, sotto sotto, il tarlo della guerra ha camminato e gli uomini hanno paura e scappano, mentre la campagna, lei, continua, indifferente, a buttar fuori frutta, grano, erba e piante come se nulla fosse»

Classe 1957, “La Ciociara” è il risultato dell’esperienza vissuta in prima persona da Moravia durante i nove mesi di permanenza in quel di Fondi, e più precisamente, del periodo intercorrente tra il settembre del 1943 ed il maggio del 1944.
Traendo spunto da un fatto realmente accaduto, l’autore introduce il personaggio di Cesira, contadina originaria della Ciociaria, trasferitasi a Roma a seguito del matrimonio con un pizzicagnolo, il quale venuto a mancare prematuramente le lascia in eredità non solo il negozio (a cui si somma un’attività di borsa nera sempre più promettente), non solo l’abitazione, ma anche, Rosetta, la figlia della coppia, giovane, ingenua, casta e pura.
A causa del sempre più costante e presente pericolo della guerra, la madre decide di abbandonare la capitale per tornare nella terra natia dai genitori. Sin dal principio il viaggio si dimostra essere ricco di rischi, minacce e azzardi, eppure, la donna non transige: a Roma non si torna, la campagna e, di poi, le montagne sono la sola destinazione, l’unico riparo a cui possono auspicare, e nulla e nessuno può farla desistere dal proposito.
Ma si sa, tutto ha un prezzo, tutto si paga e tutto il seminato pian piano ritorna. E’ così anche per Cesira e per Rosetta che tra quei monti tanto agognati, tra quei pastori tanto furbi e disperati, tra povertà ed ignoranza, cercano di sopravvivere, aggrappandosi, come tutti, alla speranza della liberazione, un giorno, e a quella della vittoria dei tedeschi, un altro.
Tra tutti, soltanto Michele, che è il personaggio chiave dell’opera, sembra essersi reso davvero conto di quel che significa la Guerra, di quel che questa realmente è e rappresenta. Perché quel che essa determina, lascia e comporta, non è soltanto la morte, ma anche e non di meno, una vera e propria devastazione dell’essere, un vero e proprio oltraggio alla cultura, alla tradizione, all’individuo, alla libertà, alla vita. Perché il conflitto colpisce l’onestà, la pietà, la ragione. E trasforma, muta, plasma a sua immagine e somiglianza sino a che non subentra la paura, un istinto primordiale che dall’interno consuma e divora ogni boccone di speranza, di buoni propositi, di futuro. Pochi si interrogano su quelle che sono le cause che hanno portato alle armi, l’unico pensiero è il cibo, sia quando c’è che quando non c’è, l’unico moto che spinge ad andare avanti è l’idea del domani. Siamo pedine in mano ad altri, alleati, nemici, presunti “amici”.

« ”Se tu sapessi di dover morire domani, parleresti di roba da mangiare?” “No”. “Ebbene, noi siamo in questa condizione. Domani o tra molti anni, non importa, moriremo. E dovremmo, dunque, in attesa della morte, parlare e occuparci di sciocchezze?” Io non capivo bene e insistetti: “Ma di che cosa dovremmo allora parlare?” Lui ci pensò ancora una volta e disse: ”Nella presente situazione in cui ci troviamo, per esempio, dovremmo parlare delle ragioni per cui siamo finiti qui.” “E quali sono queste ragioni?” Egli si mise a ridere e rispose: “Ciascuno di noi deve trovarle da sé, per conto suo”. Io dissi allora: ”Sarà, ma tuo padre parla di roba da mangiare appunto perché questa manca e si è, per così dire, costretti a pensarci per forza”. Lui concluse allora:” Può darsi. Il guaio si è, però, che mio padre parla sempre di roba da mangiare, anche quando c’è e non manca a nessuno”.»

Trascorrono i mesi e la tanto agognata liberazione si palesa. Giorni di festa sono quelli in cui gli americani distribuiscono le loro sicurezze effimere per, di poi, rilasciare nel baratro della disperazione gli sfollati e questi uomini e donne privati della loro quotidianità. E, allora, cosa può restare ora che anche il passaggio dei liberatori è giunto? Cosa aspettare, in cosa credere, adesso che questa aspettativa tramutata in attesa è venuta meno?
Attraverso un linguaggio forte, calato nei personaggi che nella loro semplicità sono concreti e tangibili, che nella loro genuinità dei modi e delle intuizioni si fanno amare ed odiare, abbracciare e consolare, che invitano chi legge ad entrare nel testo e spronare ad una reazione, ad una riflessione tra presente e passato, scelte ed ostinazioni, scelte ed altre scelte che avrebbero, chissà, forse potuto modificare gli avvenimenti, l’autore dà vita ad un romanzo che riesce pienamente a raggiungere il suo fine ultimo. E mediante questa penna rude che sa adattarsi alle origini di questa donna contadina ed umile, a questa madre che prima cerca di tutelare a trecentosessanta gradi la figlia per rendersi successivamente conto di esserne stata la rovina, tanto da cadere nella più profonda disperazione per quel colpo latente e profondo che colpisce al fianco, che conduce alla perdizione di sé, alla sventura, Moravia descrive il lascito di una guerra che non si ferma con il solo proclamo del “cessate le armi”, perché la guerra non è soltanto quel che è stato, la guerra è anche quel che è, ed una volta giunta al termine, si è perso in ogni caso, si è perso prima di tutto noi stessi, perché non sappiamo più chi siamo né chi eravamo.
E lo stupro, non è solo quello fisico, ma anche quello morale, di un paese privato della sua identità e che non può permettersi di non fare domande, di non cercare risposte….

«Si, lui, di certo, mi aveva spiegato in poche parole il senso della vita, che a noi vivi sfugge, ma per i morti deve essere, invece, chiaro e lampante; e la mia disgrazia aveva voluto che io non capissi quello che lui diceva, benché quel sogno fosse stato veramente una specie di miracolo; e i miracoli, si sa, sono miracoli appunto perché tutto vi può succedere, anche le cose più incredibili e rare. Il miracolo c’era stato, ma soltanto a metà: Michele mi era apparso e mi aveva impedito di uccidermi, era vero, ma io, per colpa mia di certo, perché non ne ero degna, non avevo inteso perché non avrei dovuto farlo. Così dovevo continuare a vivere; ma come prima, come sempre, non avrei mai saputo perché la vita era preferibile alla morte»

«Allora queste parole di Michele mi avevano lasciato incerta; adesso, invece, capivo che Michele aveva avuto ragione, e che per qualche tempo eravamo state morte anche noi due, Rosetta ed io, morte alla pietà che si deve agli altri e a sé stessi. Ma il dolore ci aveva salvate all’ultimo momento, e così, in certo modo, il passo di Lazzaro era buono anche per noi, poiché grazie al dolore, eravamo alla fine, uscite dalla guerra che ci chiudeva nella sua tomba di indifferenza e di malvagità ed avevamo ripreso a camminare nella nostra vita, la quale era forse una povera cosa piena di oscurità e di errore, ma purtuttavia la sola cosa che dovessimo vivere, come senza dubbio Michele ci avrebbe detto se fosse stato con noi»

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    03 Luglio, 2015
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Cronache di ordinaria follia

“La Ciociara” è un romanzo ambientato all’epoca dello sbarco alleato in Italia, con i tedeschi che ancora occupano metà della penisola fino a Roma e tentano di fermare in ogni modo l’avanzare degli alleati.
La protagonista, narratrice in prima persona, è Cesira, una “ciociara”.
In provincia di Roma con questo termine si intende in genere tutta l’agro pontino, una vasta zona agricola intorno a Latina, caratterizzata da un paesaggio collinare - montagnoso aspro e brullo, più propizio alla pastorizia che alla coltivazione dei campi: di qui il termine “ciocie”, vale a dire una tipica calzatura dei pastori locali, le stesse che ritroviamo ai piedi dei zampognari dei presepi, fatta di pelle di pecora, tanto comoda per i lunghi tragitti a piedi nella transumanza quanto povere e bruttine a vedersi, e certamente assai “burine”, vale a dire campagnole, cafone.
Cesira è una giovane donna originaria di quei luoghi, una povera contadina semianalfabeta, provinciale e sempliciotta sì, ma per nulla sciocca, sveglia, furba, arrivista, gran lavoratrice e determinata a migliorare la propria posizione sociale andando a vivere a Roma, dove si sposerà e avrà la sua unica figlia, Rosetta.
Rosetta diverrà il solo scopo di vita di Cesira, che questa figlia alleva e fa crescere con tutti gli agi, invogliandola a studiare e proteggendola e coccolandola come una leonessa con i suoi cuccioli, perché non le accada mai nulla di male che possa minimamente turbare l’animo buono e sensibile della bambina, ingenua, dolce, timida, così diversa d’animo e comportamento dalla madre.
Quando il marito muore, con l’avanzare della guerra e degli eventi collaterali, s’industria con sagacia e abilità; ma sempre più spesso Roma è bombardata dagli alleati, gli allarmi aerei si susseguono, così come le fughe nei rifugi.
Perciò Cesira decide di lasciare Roma con la figlia, almeno temporaneamente, fin quando la buriana non è passata, questione di mesi, come dicono tutti.
Lasciano Roma dirette nel cuore della Ciociaria, il “ventre della vacca”, i luoghi natali di Cesira, dove la donna ritiene saranno al sicuro dagli orrori della guerra.
Perché Cesira ha conservato la scaltrezza della contadina, sa benissimo che i beni di prima necessità che mancano in città sono di sicuro facile reperimento presso i contadini, naturalmente potendo pagare, e perciò per amore della figlia, volendo salvaguardarla a qualsiasi costo da ogni privazione, da qualsiasi trauma e orrore, si pone in viaggio. Cesira è convinta che la guerra sia un evento che non la riguarda e non può né deve toccarla, un evento transitorio al termine del quale potrà tornare a Roma. Questa guerra, invece, riguarda tutti, l’ultimo conflitto mondiale è quello che ha visto coinvolto direttamente in un modo o nell’altro non più le sole forze militari ma soprattutto i civili, malgrado tanti come Cesira trovino rifugio sui monti della Ciociara illudendosi di sfuggire alle conseguenze del conflitto. Come dice lei stessa, per vivere basta poco, farina e acqua per impastare e strutto per cuocere, e naturalmente i soldi per ottenerli: e lei li ha, e la guerra è solo un fastidio lontano, ormai da non temere oltre. Nel piccolo gruppo di sfollati spicca per indole un giovane, Michele, figlio di un rozzo bottegaio borsanerista, il quale si rivela un giovane istruito, colto, gentile, di animo sensibile e certamente assai diverso dagli altri membri della comunità di rifugiati, becera e ignorante, tra cui è costretto a vivere.
Il giovane, dichiaratamente antifascista, ha un animo timido e riservato ma fiero: è un ragazzo intelligente, anche se ritroso e a disagio con il genere femminile. La guerra purtroppo non risparmia né luoghi né persone, la guerra è un evento tanto improvviso quanto crudele, devastante e incisivo nella vita di chiunque. Gli alleati sfondano il fronte, e un gruppo di soldati tedeschi in rotta dispersi tra i monti, giunge tra gli sfollati, con la forza delle armi chiedono viveri per la fuga e si portano via Michele perché gli faccia da guida tra gli impervi sentieri montani portandoli in salvo.
Tutti rimangono muti, sbigottiti, straziati nell’anima da questo evento: la guerra da cui pensavano di essere scampati li ha raggiunti, una guerra che non li riguarda, che non capiscono e che neanche vogliono capire.
La partenza forzata di Michele sancisce la fine della permanenza tra i monti; ormai le notizie che giungono rivelano l’arrivo degli alleati a Roma liberata.
Così Cesira decide di ritornare nella capitale, certa che ormai non sussiste più alcun pericolo.
Compiuti i preparativi, le due donne si mettono in viaggio, e lungo il tragitto hanno modo di rassicurarsi ulteriormente assistendo al passaggio dei veicoli di trasporto delle truppe alleate: americani soprattutto, ma anche inglesi, francesi e i caratteristici goumiers con mantello e turbante, feroci e crudeli soldati di prima linea di nazionalità marocchina, incorporati nell'esercito francese.
Benché suggestioniate, le due donne si ritengono ormai al sicuro, dopotutto si tratta di truppe alleate, e ormai la guerra può dirsi conclusa; pertanto si apprestano a riposarsi trovando rifugio in una chiesa sconsacrata.
Ed è in questo luogo che esplode il dramma cruciale dell’intero racconto.
La guerra, quest’orrore, non è finita con l’arrivo di altri soldati, la guerra non finisce mai istantaneamente, lascia sempre strascico e dolore che colpiscono con costanza le vittime innocenti e le più deboli, le donne e le bambine.
Saranno anche soldati alleati, ma sono sempre uomini di guerra, feroci e crudeli, e come ebbe a dire Quasimodo, sono sempre uomini “…della fionda e della pietra” gli uomini del tempo di guerra: un gruppo di goumiers con mantello e turbante, quindi tra i più bestiali degli uomini, carne da cannone, feroci e crudeli soldati di nazionalità marocchina, incorporati nell'esercito francese, sorprendono le due donne e non esitano a farne brutalmente bottino di guerra, sottoponendole a forza ad un crudele violento e traumatico stupro di gruppo.
Il dopo…non esistono parole sufficienti a descrivere come si possono sentire le vittime di questo strazio, dopo.
In particolare quando ne è vittima una giovane illibata, ingenua, sensibile, inerme e indifesa come la giovane Rosetta, del tutto ignara di qualsiasi idea di sessualità.
Rosetta ne esce profondamente traumatizzata, a nulla valgono gli sforzi di Cesira di confortare la figlia o di chiedere giustizia per l’affronto subito.
E’ l’effetto deleterio della guerra: guasta gli animi, prima dei corpi, spegne le speranze, distrugge i sogni, sporca i sentimenti.
Solo un evento altrettanto traumatico può in qualche modo innescare una reazione di opposizione, di rabbia, di disperata ripresa nel credere che esista altro oltre l’orrore, che non si deve rassegnarsi al sentimento negativo che si sta impiantando nel cuore: e questo evento è l’arrivo della notizia della morte di Michele, fucilato dai tedeschi in fuga.
La morte del giovane rappresenta una catarsi, una purificazione, un chiodo scaccia chiodo, un dolore enorme che scuote le due donne e le spinge a lanciarsi in lacrime, scosse in un pianto disperato e di speranza insieme, l’una nelle braccia dell’altro, alla ricerca di un reciproco conforto, un giurarsi aiuto ed affetto l’un l’altra, nonostante e a dispetto dell’orrore subito.
Con “La Ciociara” Alberto Moravia, in definitiva, prendendo spunto con l’episodio dello stupro per opera dei goumiers, da un evento storico realmente avvenuto e che coinvolse centinaia di povere vittime esattamente nei luoghi citati, vuole denunciare la tragedia della guerra, la sua violenza, la sua crudeltà, e di come essa incide profondamente l’animo di chiunque, di modo che non siano più gli stessi. Per Moravia in guerra a essere stuprata è in realtà la speranza, i sogni, i sentimenti buoni e semplici, l’essenza stessa del vivere civile.
La rinascita, l’opposizione alla barbarie della guerra, sta nell’educazione, e perciò nella cultura, nel libro rappresentata nella figura di Michele.
L’allontanamento di Michele, la perdita della cultura si può dire, porta alla guerra, che in fondo non è altro che lo stupro della vita.
Mentre il recupero della cultura riporta con fatica l’uomo alla ragione….forse.
Solo forse: spesso l’uomo preferisce restare ancora quello della “…fionda e della pietra”.

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Moravia, Calvino, Pavese...e a chi odia la guerra.
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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    19 Dicembre, 2014
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Pane e cipolla

"La ciociara" di Moravia altro non e' che Cesira , che Rosetta, che l'Italia della Grande Guerra, che il popolo italiano occupato liberato affamato esasperato. 
E' la voce narrante di una madre di origini contadine, la bottega e la borsa nera, un appartamento piccino ma lustro come un brillante dal taglio raffinato. 
Tempi duri per tutti, la carestia incide gli scaffali del negozio ormai inutile, si compilano inventari e si lasciano le proprie cose nelle case sprangate, si cerca la salvezza sulle montagne tra le capannucce dei pastori, lontano dai punti strategici, lontano dal conflitto. E tutto si paga, ogni giorno piu' caro, in precario equilibrio sulle scarpe logore inseguendo la sopravvivenza su un suolo sassoso.
Eppure i pascoli non filtrano il potere devastante della guerra, che mille modi ha per infierire e oltraggiare , non solo per uccidere. Colpisce l'onesta', colpisce la pieta'. E poi la paura, che vorace sbrana i giorni e le notti e inghiotte speranza, boccone dopo boccone pare non concludersi mai, sembra non ci sia mai fine nel pozzo del peggio. Poi ci si abitua, eccolo il fondo, eccolo.

Non raffinato nello stile, la forma  e' semplicemente perfetta al suo fine. E' il mezzo che conduce al risultato, con quella penna che se deve essere di una donna semplice di umili origini lo e' fino in fondo, nella piu' intensa rappresentazione  popolare dell'amore materno e della disperazione di un essere umano morente, colpito suo malgrado dal morbo decadente della guerra in un bacino di appestati suoi simili.
Un libro dal passo lento che alla lettura mischia il sentimento, che non si limita alla vicenda principale ma inevitabilmente si sofferma anche su personaggi minori che nelle loro poche righe fremono e lasciano il bossolo a terra, come quei proiettili piovuti dal cielo.
Erano gli anni della Seconda Guerra mondiale, eravamo proprio qui, privi di tutto , messi peggio delle bestie. Perche' almeno le bestie potevano permettersi di non capire e di non fare domande, di morire di fame o di morte inferta senza il sovrapprezzo della coscienza.
Intenso, verace, umile e doloroso, buona lettura.

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Gloria Zoroddu Opinione inserita da Gloria Zoroddu    27 Ottobre, 2013
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Il male che diventa normalità

Un uomo brillante mi disse, qualche tempo fa, che ci sono diversi modi per imparare la storia. Il più ovvio di tutti è procurarsi un buon manuale e memorizzare date su date, nomi impronunciabili di generali e posti lontani. Un lavoro non sempre piacevole, ma utile e necessario. Ma i romanzi, mi disse, hanno un potere straordinario. Ti restituiscono la stessa disperazione, o gioia o confusione che l’umanità ha provato in quel determinato periodo. Per un attimo ci sentiamo simili a loro. Siamo loro. E’ questo il potere della letteratura. A quell’uomo brillante vorrei dire, dopo aver letto La Ciociara di Alberto Moravia, che ho capito cosa voleva dire. Lo scrittore romano ci consegna, con la sua consueta durezza un aspro dipinto della seconda guerra mondiale, filtrata attraverso gli occhi di una semplice contadina del Lazio, Cesira, trasferitasi a Roma dopo il matrimonio. La donna e sua figlia, come quasi tutto il popolo italiano, ignorano i reali motivi che scatenano la guerra e gli eventi successivi. Affidandosi al suo intuito decide di passare un po’ di tempo in campagna, a casa dei suoi genitori, ma ad attenderla troverà solitudine e devastazione, e passerà molti interminabili mesi nascosta tra le macere, in una valle, con gli altri sfollati. La sua confusione, il suo dolore, la sua logorante attesa, la sua rabbia, i suoi mille punti interrogativi sono gli stessi degli italiani di quegli anni. Italiani che vedono avvicinarsi alle loro porte un mostro pericoloso e violento. Ma non sanno chi è. Non sanno che nome abbia. Non sanno che bandiera porti. La ciociara come gli sfollati, come i contadini spiegano tutto questo con considerazioni inutili e ingenue. Solo il pungente sguardo di Michele, un giovane intellettuale dissidente, ha una visione delle cose più profonda. Ma nessuno, o quasi nessuno lo capisce, per cui spesso tiene le sue riflessioni per se stesso, arrabbiandosi con il mondo. Giorno dopo giorno la protagonista del romanzo assiste alla continua sparizione di persone con cui pochi momenti prima condivideva pasti e chiacchierate. Diventa normale non lavarsi, mangiare cibo raffermo, odiare senza un perché. Sopra i punti interrogativi di queste semplici persone si muovono, come farfalle in una interminabile primavera, i cacciabombardieri, che rompono i loro pasti, fanno tremare le ossa, abituano gli uomini al rombo dell’inferno come se fosse una cosa normale. Per Alberto Moravia guerra significa prima di tutto abituarsi al male. Gli equilibri del mondo non vengono solo sconvolti ma capovolti e il senso della pietà, conservatrice per eccellenza dell’equilibrio sociale, diventa un lontano ricordo. E tutto questo orrore prende vita in un posto bellissimo: le campagne italiane. Lo scrittore si ferma a più riprese a descrivere il bianco candore della neve invernale, l’acqua cristallina dei tanti ruscelli sparsi qua e la, la macchia mediterranea. Ma è una bellezza che in mezzo a quella turpe violenza appare finta, fuori luogo, canzonatoria. Non si è più liberi nemmeno di ammirare il bello. Moravia della guerra ci dice questo. E' una belva che inquina di nero le vene di tutti, italiani, inglesi e tedeschi. Prima di ogni cosa quest’inutile bestia ti cambia per sempre. La ciociara e la dolce figlia Rosetta sono il paradigma di questo avvenuto cambiamento e ci racconta la loro tragica esperienza.
Questo romanzo non può essere spiegato in poche righe perché è dotato di una ricchezza contenutistica particolare. La linea tra buoni e cattivi è labile, e solo fino a un certo punto si sa chi sia la vera vittima del conflitto. La sguardo ammonitore di Moravia colpisce tutti, senza esclusioni: i tedeschi che sembrano essere dotati di una natura animalesca; gli sfollati con la loro ottusa superbia e il loro attaccamento al cibo. l’ignoranza che condanna tutti eccetto Michele.
E' un libro da cui si possono ricavare informazioni dolorose ma vere. A volte nella lettura il romanzo risulta pesante. Ma forse deve essere così, perché si parla di un’esperienza statica, priva di movimento e questa pesantezza rende l’idea dell’attesa sfiancante a cui la protagonista è condannata.

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A chi ama il realismo, e le testimonianze storiche; e ovviamente a chi ha letto altri libri di Moravia.
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Nadiezda Opinione inserita da Nadiezda    10 Ottobre, 2013
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Cesira e Rosetta

La prima volta che lessi questo libro fu alle superiori, poi con gli anni lo rilessi un bel po’ di volte.
Venne pubblicato per la prima volta nel 1957 da Alberto Moravia, uno scrittore romano che in realtà si chiamava Alberto Pincherle.
Il suo romanzo nacque dopo gli avvenimenti dell’8 settembre 1943, quando si rifugiò con la moglie nella ciociaria.
Moravia attraverso le sue parole volle descrivere la situazione alquanto pietosa del territorio italiano devastato dalla Seconda Guerra Mondiale.

Passiamo alla trama del libro.

Cesira era una contadina della ciociaria e si era sposata con un negoziante di Roma.
Ora è una donna vedova e continua a gestire il piccolo negozio del defunto marito, ha una figlia di nome Rosetta, molto bella, un po’ ingenua e molto devota.
Vivono a Roma e cercano in tutti i modi di sopravvivere alle angherie della Seconda Guerra Mondiale.
Cesira appena scoprirà che l’esercito tedesco è pronto ad entrare a Roma metterà da parte le provviste e cucirà i suoi pochi averi nelle fodere dei vestiti ed insieme alla figlia adolescente scapperà nella ciociaria.
Sopporteranno: la fame, il freddo, la sporcizia per diversi mesi e nel frattempo attenderanno l’arrivo delle forze alleate.
La Liberazione però porterà con sé anche un altro amaro avvenimento.
Le due donne verranno sconvolte nel profondo e con il tempo cambieranno anche il loro modo di fare dopo questa tragedia.

Moravia con questo libro ha voluto far vedere al lettore che la guerra è una cosa atroce che colpisce tutti, che travolge chiunque facendo anche perdere la retta via.
Con la guerra non ci sono più regole valide, anche chi non ha mai commesso reati si ritrova a commetterne pur di sopravvivere.

Mi sento di consigliarlo.

Buona lettura!

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Ginseng666 Opinione inserita da Ginseng666    17 Mag, 2013
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Il dramma della guerra...

Un libro indimenticabile, di forte stampo verista...che ha ispirato anche l'omonimo film con Sofia Loren..
Una storia inserita nel periodo dell'ultima guerra, con una vicenda che può essere letta nell'ottica della violenza e del sopruso negli anni in cui gli individui, travolti da drammatiche circostanze, anche se sopravvivevano si portavano nell'anima e nel corpo..innumerevoli ferite, morali, fisiche spirituali..
Molti erano falciati e morivano...altri....non morivano ma ne erano comunque segnati a vita..
In questo clima si introduce la storia proposta da questo autore..
Cesira, una contadina proveniente dalla ciociaria...si trasferisce a Roma con la figlia Rosetta, durante la fuga.verso la Ciociaria..lei e la figlia vengono a contatto con la dura realtà della guerra...
La ragazzina verrà violata da un gruppo di marocchini feroci che scorrazzano in quelle zone.
Rosetta ne uscirà scioccata e sconvolta...mentre la madre, tenterà a lungo e invano di riportarla alla ragione.
La guerra....con le sue vittime, un tragico evento che ha sconvolto la vita di tante famiglie, portando lutti, distruzioni...e donne sacrificate alla violenta voluttà maschile..
Le "vittime bianche" le chiamo io...e adesso che la guerra è finita, qual'è il pretesto per il continuo femminicidio che incombe sinistro in Italia, anche oggi?
Qual'è la ragione di tanta tracotanza, in molti uomini della nostra nazione?
Come si vede questo libro è attuale, perchè parla di violenza, la violenza su due donne...
A quell'epoca c'era la guerra, un conflitto aperto, feroce, spietato...
Adesso...non c'è neanche quella scusante...lì...
Però le donne continuano a subire violenze e spesso anche a morire...
Ed io mi chiedo: Perchè?
Consigliato. Da leggere o da rileggere se qualcuno l'avesse già visionato.
Saluti.
Ginseng666

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    10 Mag, 2013
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Testimonianza di Gianna Cimino, nipote dello scrit

Su “La ciociara” Angelo Favaro mi ha fornito in esclusiva una splendida testimonianza proveniente dalla nipote di Alberto Moravia e riferita a “La ciociara a Fondi”, il convegno in programma il 10 maggio. Qui ripropongo la dichiarazione di Gianna Cimino sul rapporto tra romanzo e film che ne fu tratto:
“Sono felice che a Fondi, ormai per la terza volta, si possa tornare a parlare di questo romanzo che dovrebbe diventare un classico da leggere e studiare in tutte le scuole superiori italiane.
Del film di De Sica e Zavattini (ndr: lo zio) non ne parlava mai, non ne aveva mai nemmeno scritto nulla. Che dire? Forse non gli era piaciuto, forse gli era piaciuto soltanto in parte. Di ciò che non gli piaceva e non gli interessava non scriveva, non amava dire male di qualcosa o di qualcuno. Faceva soltanto critiche che fossero costruttive, ma dal momento che un film una volta che è stato girato è stato girato, e non si torna indietro, è inutile farne critiche negative o distruttive. Invece si era molto divertito sul set, e soprattutto nelle conversazioni con il cast e con la Loren in particolare. Aveva trovato quella donna affascinante e bellissima fisicamente. L'aveva anche intervistata.
Ecco, se mio zio fosse qui, vorrei proprio chiedergli, oggi, dal momento che non aveva detto mai né scritto nulla, cosa pensa del film La ciociara. Credo che mi risponderebbe che il regista e lo sceneggiatore non hanno osato abbastanza, cioè sono stati troppo fedeli al romanzo, invece secondo zio Alberto un film è un’opera d’arte con la stessa dignità e libertà di un’opera narrativa. Infatti, amava molto Le mépris di Godard tratto dal suo romanzo Il disprezzo proprio perché infedele e originale rispetto al romanzo stesso.”
Una posizione originale quella dello scrittore, per nulla egocentrica: se consideriamo che spesso i romanzieri rinnegano le trasposizioni cinematografiche in quanto troppo libere e infedeli…

Bruno Elpis

Nel mio sito www.brunoelpis.it la testimonianza di Gianna Cimino è riportata in versione integrale

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... opere del neorealismo italiano
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Rosaliaa Opinione inserita da Rosaliaa    27 Mag, 2011
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La Storia

Grande testimonianza storica leggermente autobiografica (durante la guerra Moravia si rifugiò a Fondi con E. Morante per qualche mese). L'onnipresente narratore femminile dell'opera di Moravia è, questa volta, Cesira, una donna ciociara, integerrima macchietta contadina di fine saggezza popolare, a cui l'autore affida il gravoso compito di narrara il dramma della guerra. Non posso poi che rimandare alla meravigliosa trasposizione di De Sica, con una perfetta Loren e un fine Belmondo. I personaggi: Cesira appartiene al filone di Adriana (La Romana): come lei è una donna semplice, bella, forte e integra. Michele è come Mino (sempre La Romana): eroe idealista e un po' fesso, disposto a sacrificarsi, ingenuamente, per le proprie idee. Rosetta è il dramma e l'orfana, che la guerra cambierà per sempre.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    16 Settembre, 2010
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La ciociara

Premetto che mi sono avvicinata a questa lettura non avendo mai visto il film che ne fu tratto ed è stata una scoperta veramente sorprendente.
Come la maggior parte saprà, le vicende narrate sono ambientate durante la seconda guerra mondiale, allorchè una madre e la di lei figlia, fuggono da Roma per nascondersi sulle montagne della Ciociaria, con la speranza di essere risparmiate dalle violenze del conflitto, in attesa della liberazione.
Il racconto è struggente e realmente drammatico; vengono scandagliati alla perfezione i sentimenti delle protagoniste, due donne sole in balia delle atrocità della guerra, ma con tanta forza d'animo.
Sicuramente lo colloco tra i migliori libri di Moravia, per contenuto e stile di scrittura.
E' un libro forte, pieno di umanità e denso di pathos.
Da leggere.


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