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Un ultimo poema d'amore alle città
“Che cos’è oggi la città per noi? Penso d’aver scritto qualcosa come un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città.”
Da una conferenza di Calvino tenuta a New York nel 1983
Il fantastico in Calvino è quanto di più ancorato alla realtà che ci possa essere. Per certi aspetti l’avveniristico nelle sue opere è un ritorno a un mondo più a misura d’uomo, un rientro nel perfetto ordine della natura da cui con il tempo ci siamo allontanati credendo di non essere sue semplici parti, ma dominatori. Del resto nel Barone rampante quella vita vissuta sugli alberi del bosco, anziché rinchiuso fra le quattro mura domestiche, è una metafora di un’evidente ritorno a una primigenia libertà che l’essere umano, nel tempo, ha sacrificato in funzione di un gretto principio di tornaconto, così come l’armatura che rinserra il Cavaliere inesistente richiama la spersonalizzazione dell’uomo che trascorre molto del suo tempo fra le lamiere di un automobile.
I primitivi all’inizio vivevano in una grotta, poi costruirono capanne, magari le une vicine alle altre per evidente difesa, ma conservando così quel principio di libertà che rende l’umano isolato quando vuole, senza togliergli la possibilità di contatto con i suoi simili. Le attuali città, fatte da condomini di molti appartamenti, finiscono invece con l’essere celle di un alveare in cui trascorrere il minor tempo possibile, forzatamente, e dentro rigide norme che, anziché regolamentare la convivenza, di fatto l’impediscono. Si conosce tutti e non si conosce nessuno; in strada c’è lo stesso scenario di una vita frenetica in cui le possibilità di contatto sono sporadiche, un saluto, per educazione, e via.
Quindi in Calvino il fantastico non è una società avveniristica e tecnologica, ma un ritorno al passato, un desiderio, forte, ma anche sussurrato, affinché l’uomo ritrovi la sua strada e la sua naturale collocazione.
Se poi vogliamo avere un esempio di scrittura del “fantastico” ai suoi massimi livelli occorre per forza di cose leggere Le città invisibili, un libro che è necessario quasi spiluccare come se i vari capitoli fossero gli acini di un grosso grappolo d’uva. Del resto l’intento dell’autore non è solo quello di darci una rappresentazione metafisica della realtà, ma anche di stimolare le nostre percezioni sensoriali affinché possiamo costruire un nostro libro sul suo libro partendo dalla base che ci viene offerta. Se il pretesto è un resoconto di Marco Polo all’imperatore Kublai Kan del regno che ha attraversato e delle città che ha visto e conosciuto, tutte identificate da nomi femminili vagamente classicheggianti, in effetti lo scopo è quello di far giungere il lettore in un’altra dimensione, in cui l’aggancio con la realtà si affievolisce per lasciare spazio allo sviluppo della fantasia secondo la volontà di ognuno.
Così è possibile leggere descrizioni di questi agglomerati urbani, completamente diversi l’uno dall’altro, perché diversi sono i loro abitanti, non coincidenti sono le loro necessità e i loro desideri.
Se già questo è molto, occorre considerare i dialoghi surreali fra Polo e l’imperatore all’inizio e alla fine di ogni descrizione, quasi una cornice del discorso che è il fulcro di tutta l’opera, vale a dire entrambi tendono ad avere una visione di questi abitati trascendentale, ben oltre l’aspetto materiale delle costruzioni, ma volto alla ricerca di un significato, che potremmo definire assoluto e divino pur in una dimensione umana, non solo delle città, ma anche dei suoi abitanti, e dell’uomo in generale.
La loro visione della città è funzionale agli uomini che ne fanno parte e al centro del tutto vi sono proprio essi, così che il grande agglomerato urbano non sia semplicemente uno stanco e depauperante dormitorio, destinato progressivamente a svuotarsi, ma uno spazio in cui, anziché relegare i suoi abitanti, li proietti verso una libertà sempre più ampia.
Il vivere comune non deve essere motivo di un isolamento individuale, perché in caso contrario la città muore e i suoi abitanti, già morti dentro, l’abbandonano. Ritorna quindi un tema caro a molti letterati, cioè quell’incomunicabilità a cui sembra destinata sempre di più l’umanità.
Il grande insegnamento di Calvino è però che è sempre possibile intraprendere o riallacciare un dialogo, lo stesso che Marco Polo e Kublai Kan intrecciano nel corso delle pagine, pur essendo due esseri del tutto isolati e prigionieri dei loro ruoli, il primo reduce da un deserto che non è solo quello che ha attraversato, ma che l’animo umano tende a costruire quando cozza contro la chiusura altrui, e il secondo, per la sua natura d’imperatore, ristretto nella gabbia d’oro della sua funzione.
Per quanto possa sembrar strano, Calvino, con la sua grandiosa fantasia, non avrebbe potuto descrivere meglio il tema della città in funzione degli uomini in contrapposizione di quella che, giorno dopo giorno, nonostante i proclami di politici ed architetti, diventa un luogo di dissociazione.
Le città invisibili finisce con l’essere, con il suo alone poetico, un atto d’amore, forse l’ultimo, per quell’agglomerato di case, di persone che vogliono vivere e non vegetare, e che noi chiamiamo genericamente città.