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tedio invernale (della serie: non solo Moccia)
Dicono che s’impari molto di più da un libro scritto male che da uno scritto bene. Oggi so che s’impara molto anche da un libro che non ti lascia niente. Il libro di Fabio Volo non ti lascia niente.
Allora parlerò di cosa ho imparato.
Ho imparato che si può scrivere in scioltezza, per 170 pagine, affrontare duemila discorsi, raccontare la vita di un personaggio io - narrante schizofrenico, di circa sei personaggi descritti e raccontati con flashback da questo io - narrante, dare un senso logico ai pensieri, conferire un ritmo accettabile alla propria scrittura, scrivere tutto sommato bene e senza pecche, essere più o meno ironico qui e poco brillante là, isterico lì, paranoico qua, e non lasciare assolutamente niente al lettore!
Io, per esempio, sono quel lettore.
Il libro, l’autore mi perdoni, è un coacervo di frasi fatte, di rimandi stereotipati, di frasi stantie, di una narrativa che, data la dura scorza della cultura letteraria italiana, giunta a noi gravida di eroi, non riesce nemmeno a fare il solletico al termine romanzo.
Frasi come: “Perché una donna, quando si sente amata si apre e dà tutto il suo mondo” (e quel che segue a pag. 133) rischia di farti venire un attacco di diarrea.
L’incipit presenta un personaggio io - narrante psicolabile, ipocondrico, pieno di paure e quindi incapace di affrontare la vita di tutti i giorni. Ma a un certo punto della narrazione l’autore lascia il personaggio nevrotico per assumere, in insistiti flashback, quelle dello stereotipato giovinetto carismatico tipico dei nostri giorni, che di carismatico non ha un emerito nulla. Il racconto va infatti avanti a colpi di canne fatte tra amici, di inverosimili avventure amorose fatte occasionalmente con improbabile ragazze che ci stanno a un sol colpo di sguardo, di un’amicizia col personaggio Luca puerile, in cui ogni lettore può riscontare il classico migliore amico. Infatti, il romanzo è l’occasione dove ogni lettore può riconoscersi sia per lo standardizzare col reale dei vari personaggi, sia per l’eternità delle situazione raccontate. Nulla capita ai personaggi che non sia capitato a un qualsiasi lettore nella sua vita. E questa chiamasi noia. Anche se l’ingenuo lettore si farà certo catturare, perché convinto di carpire dal romanzo le facili conquiste amorose. Ma le conquiste amorose sono tutte minchiate, perché inverosimili nelle situazioni prospettate.
Qualche nota positiva.
L’ironia (anche quelli della Mondadori se ne sono accorti, ma in quarta di copertina hanno esagerato: umorismo, suvvia!). Ma è un’ironia che si coglie a tratti, inconscia, trascurata, che l’autore dovrebbe invece riprendere per farla sua, conscia, e ricamarla in tutta la scrittura. Basti pensare alla scena amorosa con Giada, con il cane impazzito che lecca i piedi al nostre eroe, o allo stesso personaggio Luca, l’amico del cuore, qui un po’ sdolcinato, là un po’ ironico. Troppo poco. Il continuo proliferare di una scrittura di superficie, che si parla addosso e dove le frasi dicono il necessario e senza cogliere in profondità, dove non si ha un freno con i pensieri puerili e bla bla, fa dimenticare ciò che di buono comunque c’è.
Anche la scrittura, asettica, è stereotipata: frasi brevi e col punto fermo. Ma ormai non se ne può più. Per favore, riutilizziamo il punto e virgola qualche volta e infiliamoci anche la virgola o il duepunti, dove è necessario. Il ritmo ne risente: perché in sottofondo di questo lungo racconto, leggendo nella tua testa, si sente come il ticchettio del telegrafista. Sì vabbè, leggendo ce la metti tu, lettore di una certa età, la punteggiatura. Ma uno scrittore giovane, che sconosce quasi totalmente l’uso del punto e virgola, che minchia leggerà? Mistero narrativo. Hemingway utilizzava il punto e virgola e pure le frasi lunghe. A chi si imita allora?
Un ultimo indizio è ancora in quanta di copertina: “Con 'E una vita che ti aspetto' Fabio Volo si conferma capace di esplorare con un linguaggio semplice il complesso mondo interiore di tutti e di ognuno”.
Potevo capire un linguaggio chiaro, ma un linguaggio semplice tradotto in narrativa significa scrittura sempliciotta. E qui si sta affermando la stessa cosa.
Non solo Moccia, quindi: laddove la frase di Volo a pag. 10 "...E io vorrei gridare: "Sono un uomo felice, grazie!" mi catapultano nell'incipit di Federico Moccia in "Ho voglia di te": "...Voglio morire. Questo è quello che ho pensato quando sono partito".
Del resto: narrativa simile e scontatella (stesso ritmo, stessa intonazione... stessa scrittura): tipo all'asso piglia tutto. Perché li leggo, allora? Un giorno dovrò pur testimoniare lassù.
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Saluti, faye.