Dettagli Recensione
Retroscena della scena
«Se non ho mai scritto di mia madre, né ho mai avuto un pensiero su di lei, è perché per farlo va scorporata da mio padre. Il che comporta un’operazione delicata, richiede un’attitudine chirurgica specifica, una freddezza della mano. Richiede lentezza e precisione, un bisturi grammaticale. Cioè puntare le parole nelle porzioni non ancora compromesse. Individuarle, isolarle dal resto, e poi incidere, fare male con nettezza.»
Cosa si cela dietro l’apparente normalità? Cosa si cela dietro quel mondo casalingo e quotidiano dove tutto sembra andare perfettamente dal di fuori, limitandosi alla facciata?
Prima grande caratteristica del testo è quella della spersonalizzazione: ogni soggetto e io è individuato solo per mezzo del proprio ruolo di figlio, madre, padre, sorella, madre di mio padre etc; nessun volto ha però un nome e una definizione ideologica di caratterizzazione. Il protagonista e voce narrante del figlio si caratterizza per fare un qualcosa di estremamente lontano al nostro quotidiano vivere: abbandonare i genitori. Un abbandono che è vissuto senza rimorso, senza dubbi. Un abbandono che dopo dieci anni è ancora concepito come una liberazione. Perché quel legame che troviamo tra queste pagine e che Bajani recide per mezzo del suo personaggio è un legame tossico, non sano, non benefico. Siamo in una famiglia disfunzionale, un microcosmo logorante e dove a regnare è la brutalità esplicita e la violenza sottile e onnipervasiva di un padre su tutti gli altri soggetti. Da qui segue l’abnegazione di una madre, l’incapacità generale di rispondere a quelle prevaricazioni e a quegli abusi psicologici.
«Questa, fra tutte, credo che sia stata la più grande responsabilità di mio padre. Venne colpita a morte e sopravvisse lasciandosi morire. Il che, tra tante cose tristi che se ne possono dire, fu anche uno spreco.»
Ed ecco allora che osserviamo a nostra volta quel figlio che assiste impotente alla realtà di quel padre e di quella madre. Il padre è un uomo che mira all’affermazione del proprio io per mezzo di autoritarietà e irascibilità. È un uomo che nasconde un bisogno d’amore e che per mezzo di scenari violenti, tiene in scacco a famiglia. Il tutto tramite a una logica patriarcale per la quale la minaccia era la costante imprescindibile che si fondeva alla paura insita in noi.
La madre, di contro, non è tanto vittima quanto donna che sceglie di annullarsi, di vivere ai margini. Davanti alle violenze del marito cerca di sopravvivere con il suo essere servile così da portarlo a chiedere un perdono per venire “assolto”. Un rapporto contraddittorio, perverso, malsano in cui per la donna la morte finisce con l’essere un qualcosa che semplicemente accade così come vale per la vita. Come scorporare la figura della donna da quella dell’uomo? Come restituirle centralità?
«Questo, in generale, credo fu uno dei grandi fraintendimenti tra i miei genitori: lui voleva che lei fosse niente per potere, lui, essere qualcosa, e lei voleva essere niente perché essere niente era almeno qualcosa.»
Bajani non ha paura di toccare e minare una delle istituzioni più consolidate e intoccabili del nostro vivere; la famiglia. Non teme, ancora, di mostrare il male che può celarsi dietro alle apparenze.
“L’anniversario” di Andrea Bajani racconta una realtà fatta di apparenze normali, una realtà in verità carceraria e claustrofobica e vi riesce con l’ausilio di una penna asciutta, diretta, priva di fronzoli, che scava, entra dentro, taglia e incide come un bisturi. In sole 128 pagine sa essere evocativo, lirico ed ancora metafisico. Un testo forse piccolo nella mole ma non certo nel contenuto.
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