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L'arte della gioia
 
L'arte della gioia 2024-11-27 17:11:21 Miriam Di Miceli
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Miriam Di Miceli Opinione inserita da Miriam Di Miceli    27 Novembre, 2024
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Romanzi che sentono la necessità di morire giovani

Mi chiedo da giorni: come si può parlare di un personaggio letterario, se quel personaggio letterario uccide le convenzioni semantiche del linguaggio.
I lettori dovrebbero leggere questo romanzo, forse, consapevoli di dover accettare di possedere una misera porzione di libera interpretazione, che esaurisce il suo spazio nel momento in cui Modesta sigilla la scelta di trasformarsi in libera. Farebbe bene il lettore a riconoscere e abbracciare subito l’oracolo che viene pronunciato dentro il convento dal giardiniere Mimmo, che dichiara alla protagonista le seguenti parole: “principessa per capriccio di natura, che a volte si diverte a dare gambe storte a una principessa di sangue”.
In effetti, solo se si accoglie Modesta nei panni di una principessa, si entra perfettamente nel doppio inganno: l’uno appartenente all’arte del narrare, l’altro alla costruzione architettonica e sottile della protagonista.
La libertà, penso possa essere considerata, non solo il grande tema centrale del romanzo, non solo l’unico principio motore, capace di far avanzare la trama, ma anche il fine stesso della storia e, soprattutto, il senso ultimo della sua unità. Bisogna però prepararsi alla libertà che viene raccontata, perché non ha nulla a che fare con la libertà ideologica, la libertà di genere, la libertà individuale o parcellizzata in una qualche conquista e vittoria sociale.
Il romanzo si divide in quattro parti, eppure, dal mio punto di vista solo le prime due possono definirsi e vantarsi di una certa complessità, le rimanenti, invece, dal mio punto di vista, si reggono in un traballante equilibrio che vive di rendita.
La sottile creazione di un personaggio che crea se stesso a partire dall’infanzia fino alla giovinezza, si vuole forzatamente far entrare anche nella sfera adulta, attribuendole, addirittura, una sorta di modello sociale e politico. Ma ci sono romanzi che possono durare per una lunga vita e romanzi che sentono la necessità di morire giovani, e questo, sempre dal mio punto di vista, rientra in questa seconda categoria.
La rivendicazione politica e di lotta che viene attribuita al personaggio di Modesta, sinceramente rimane per me un breve accenno, raccontato come una sfumatura di cui se ne potrebbe fare a meno, e che, proprio per questa leggerezza, parrebbe un accidente ma non una categoria sostanziale, e invece questa rivendicazione diventa pilastro per attribuire a Modesta, la mastodontica virtù di coraggio per aver dato asilo politico e un riconoscimento tale da onorarla di una candidatura politica a Roma (che fortunatamente Modesta rifiuterà). L’unico “atto politico” che compie Modesta è un atto di vendetta, togliendo di mezzo, tramite l’aiuto del fidato Pietro, i tre assassini di Carlo. Non saranno di certo i finanziamenti segreti che invia al partito a renderla un’eroina (denominazione che fortunatamente Modesta rigetterà), ed una buona contraddizione a favore di questa tesi, secondo me doverosa, ma non so se voluta dall’autrice in questi termini, dal momento che sminuirebbe la sua protagonista, è la presenza e il personaggio di Nina, una donna del popolo che spicca per visibile contrasto accanto alla principessa e per cui il carcere si rivela nella sua crudele natura d’inferno, un luogo in cui gli interrogatori non si limitano ad essere logiche e funzionali chiacchierate, ma vere e proprie violenze e aggressioni fisiche.
Questo titolo da paladina di giustizia viene, dunque, inculcato a Modesta, attraverso l’arrivo di Joyce, psichiatra tedesca, che, per me, rimane un aleatorio mistero, non solo perchè non riesco a trovare la sua funzione all’interno della storia, ma rimane incerto anche ciò che porta con sé, come, per esempio, una conoscenza ben approfondita di Freud, di cui, in un primo momento, Modesta, è vero, rimane affascinata, ma successivamenta rigetta. Il suo rifiuto, però, come descritto dal romanzo, forse a ragione, forse a torto, non è incline ad una debolezza data dall’ammissione di non poter comprendere le sottili tesi psicologiche, insomma, non è una sana sconfitta da parte di Modesta e non è neanche una dispersione di dubbio personale, ma sono solo sporche chiacchiere di “un vecchio medico stanco, malato da anni di cancro alla bocca” che la protagonista riflette e condanna per intero come una debolezza intellettuale del personaggio di Joyce. Mi sono chiesta, allora, forzando un po’ la mano, se fosse possibile reinterpretare in un senso altro la presenza di Freud e, soprattutto, trovare un modo per giustificarla, in una qualche maniera, rispetto al testo. Sarebbe possibile vedere un appena percepibile foro della quarta parete in cui la scrittrice, consapevole di non poter addomesticare il suo personaggio, tenta segretamente di mettersi in contatto diretto con il lettore, fornendogli un suggerimento e una chiave di lettura psicoanalitica per l’intera vita di Modesta? All’interno del testo, sembra esserci, in effetti, un alterco continuo tra la scrittrice, Goliarda Sapienza e la protagonista Modesta. Goliarda sembra voler far rientrare il personaggio di Modesta in una dimensione più umana, nel momento in cui capisce di aver creato un “monstrum” e tenta, attraverso alcune scene sovrapposte tra passato e presente, con alcuni personaggi, quali Tuzzu o Mimmo, che le rimangono accanto e invisibili, come amici fidati e fantasmi con cui confrontarsi per tutta la vita, o alcune parole tattiche, come per esempio “nostalgia”, che si presenta, in realtà come un ricordo vuoto e quindi una nostalgia ancora più profonda, perché cerca ciò che non ha mai vissuto, o ancora la riproposizione di una domanda innocente che Modesta ripete fin da bambina (“come facevo a saperlo, se nessuno me lo diceva?”), (tenta) di riportare il personaggio verso un passato che Modesta ha deciso di eliminare. La scrittrice, sembra, quindi, ogni tanto vestire i panni di una madre disperata, colpevole dei propri errori, che prova a tenere il personaggio per le corde con i pochi e deboli nodi del flusso di coscienza, ma Modesta, che, fortunatamente, sfugge a quello che sarebbe un gravissimo errore, tenta di vivere la sua intera esistenza come personaggio epico, la cui vita è fatta di movimento, azione e mai vera introspezione, e questo lo si può notare non solo nella posizione frontale con cui Modesta accetta qualsiasi tipo di morte pur di riuscire nei suoi obiettivi, ma anche nel tono stilistico del dialogo, prepotente nel romanzo e che ha, per sua natura, la necessità di un fine immediato. Il difetto di Goliarda Sapienza, qui, come a molti scrittori può capitare, è quello di essere troppo innamorata del suo personaggio.
La complessità del testo comincia fin dal titolo, “l’arte della gioia”, che rappresenta, in realtà il punto d’arrivo di tutto un percorso concepito da un seme fertile d’odio, piantato come atto volontario, auto-erotico, da cui sboccia, con una forza propulsiva ed erculea, un corpo femminile nudo, in una pratica di esplorazione sensoriale, sessuale e corporea, che, a poco a poco, lungo tutto il romanzo, comincia ad oscillare da una dimensione strettamente fisica a un potente lavoro di astrazione, per cui non si potrà parlare unicamente di sesso, ma per la maggior parte del testo, si dovrà ragionare di sessualità, come se ci fosse un filtro, in grado di riflettere un potente effetto di straniamento, ciò è chiaro fin dalle prime pagine del romanzo, in cui verrà subito svelato che il primo e unico atto di fede nella vita di Modesta è la masturbazione.
Le prime pagine del romanzo sono tempestate dalla parola “urlo”. Ma che cos’è l’urlo? Nella seconda metà del ‘700, un filosofo tedesco Johann Herder, affrontò il tema dell’origine del linguaggio, sostenendo che per comprendere la progressione della lingua è bene fare un passo indietro e riallacciarsi alla dimensione primitiva dell’homo sapiens, una specie nomade che si misurava con i pericoli della foresta e dal quale tentava di proteggersi. La prima reazione di difesa da parte di questi uomini è rappresentata proprio dall’urlo, un suono che è l’effetto prodotto dal pericolo che viene incontro e anche una dichiarazione della propria esistenza. Una volta che il suono primordiale viene memorizzato e registrato nella mente degli individui come l’oggetto del pericolo, ecco che l’emissione sonora, nella sua forma originaria si trasforma in qualcosa di più raffinato che è rappresentato, per l’appunto, dal linguaggio. Nella dimensione del romanzo, l’urlo si presenta come l’unica espressione linguistica adottata nelle primissime pagine dell’infanzia del personaggio: la madre “o taceva o urlava”, la sorella Tina, affetta da disabilità, taceva inerme a contatto con la madre, la sua unica garanzia di sopravvivenza, mentre, quelle rare volte, che veniva sottratta alla sua compagnia, scatenava urla implacabili dietro la porta del bagno. Proprio la porta del bagno simboleggia un confine spaziale e nettamente divisorio tra le due sorelle, partorite dalla stessa madre, ma che si presentano come due figure estremamente antitetiche. Ciò che permette un collegamento tra questi due personaggi è proprio l’urlo, nella sua sensibilità primordiale, che denota per entrambe una rivendicazione d’esistenza, ma che viene connotato, però, in due poli totalmente opposti. Se l’urlo di Tina è un urlo che appartiene alla dimensione del dolore, l’urlo di Modesta si affaccia alla dimensione del piacere, ma non è un piacere di per sé, in quanto eccitato dall’urlo di Tina ed esposto alle fantasticherie nell’immaginare che la sorella, dietro la porta, si stia auto-infliggendo comportamenti violenti e pericolosi. Un urlo, quindi, quello di Modesta, introiettato come disprezzo impietoso. Un ansimare di piacere, questo, che si registrerà nella sua mente, inconsapevolmente, come una forma d’odio, ma che agirà consapevolmente, nel suo unico linguaggio ufficiale, come volontà ad odiare. Questo seme dell’odio, nutrito da un piacere scaturito dal dolore, si apre nella prima pagina del romanzo come un atto di nascita, per poi essere ripreso circolarmente nell’ultima pagine del testo, in cui Modesta, che è un personaggio, a mio avviso, epico, e dunque statico e irremovibile ai più profondi cambiamenti, appunto, immaginerà che anche la morte non sia altro che una manifestazione d’orgasmo puro, puro perchè crede illusoriamente, o deve credere per necessità, che questo piacere, ottenuto come una conquista, e questa volta, davvero rivendicato come un diritto dopo una visibile lotta, debba essere incontaminato.
Questa è la forma iniziale della complessità del personaggio di Modesta, che riflette, per l'appunto, un cammino di separazione dal gruppo familiare, in cui il primo nemico della sua vita è proprio la sorella Tina.
Ma che cos’è l’odio? Nelle prime pagine del racconto un istinto di sopravvivenza e di resistenza, subito dopo un fertilizzante, una linfa vitale di cui Modesta si nutre. E allora, si potrebbe pensare in maniera, forse, anche un po’ scontata, che l’odio, in quanto cibo quotidiano, consumi anche il personaggio stesso. Ma riguardo a questo dubbio, la risposta è negativa, perché il personaggio subisce uno sdoppiamento in una prima e in una terza persona, che per l’appunto, sono funzionali a cibarsi d’odio, ma non ad odiarsi.
Lo sdoppiamento del personaggio, causato da un trauma a seguito di una violenza subita, da parte di un uomo, che si rivelerà essere suo padre, diventa una spaccatura incolmabile che trova agio, nel momento in cui viene eliminata la possibilità di una qualsiasi rielaborazione e addirittura un obbligo, da parte di Madre Leonora, a dimenticare. Ma sarà proprio questa invocazione all’oblio a trasformare l’odio in un inno. E qual è, dunque, il concetto originario di questo stato di ambiguità che resterà immortale nella vita di Modesta? La sua piena consapevolezza di essere stata innocente. L’innocenza, diventa per Modesta, immacolata autorizzazione e garanzia di poter agire sempre secondo le proprie necessità finalistiche, adoperando, senza alcun discrimine, qualsiasi forma di potere, proprio perché sgravata dal peso di una qualsiasi forma di analisi interiore.
Il primo potere e il più forte strumento che utilizzerà è la libertà. Una libertà assolutamente non convenzionale, che Modesta educherà secondo i dettami di una rigorosissima disciplina, che, escludendo i tre ostacoli più grandi nella vita di ogni uomo: “paura, umiliazione e dolore”, riuscirà a raggiungere, come una principessa merita, ogni suo desiderio, attraverso un metodo selettivo, munito di “forza dell’odio”, considerato da lei come un “esercizio di salute”, e un’ “astuzia di prudenza”, un’attenta e controllante vigilanza rivestita di “un ammasso di nervi e vene”, grazie al quale “in virtù di queste conquiste ora sapevo la fragilità della mia natura e di tutte le nature”.
Nello schema narrativo, quindi, la terza persona, questo strumento di governo che agisce, muove la prima persona, che, al contrario, agisce subendo, al fine di assorbire tutti gli insegnamenti da parte di quei personaggi, di cui la protagonista prova sentimenti ambivalenti di odio e ammirazione, ma, che una volta derubati delle loro personalità, verranno eliminati anche fisicamente. Si attua in questo modo un meccanismo di associazione e identificazione con le persone più pericolose della sua esistenza: Tina, madre Leonora, Gaia, lo zio Jacopo e, infine, Carmine. A loro ruberà atteggiamenti e parole che imparerà ad esercitare come proprie, “cercando in me o negli altri la chiave per non soccombermi”, affinché possa costruire architettonicamente una propria armatura, un modo d’essere, un indole artificiale che non le appartiene, ma che a tutti i costi dovrà risultare originale per poter praticare, con una tecnica disciplina, l’arte della gioia.
Uno dei pochi momenti in cui Modesta vive il terrore, in quanto potrebbe rivelarsi fatale per la sua stessa esistenza, è il il momento del parto, che viene vissuto dalla madre, come un’altra forma di violenza che il corpo è costretto a subire, e una guerra che non finirà finché uno dei due non sarà sconfitto. Ma è proprio questa violenza che permette a Modesta, in quanto personaggio epico, di ammirare come l’individuo, per natura, sia geneticamente pronto ad uccidere, pur di risvegliarsi alla vita. Modesta prova una forte paura perché conosce quella violenta auto-affermazione di vita e sarà invidiosa di essere l’unica, tra i due guerrieri, a sapere dell’esistenza dell’altro, perché nella lotta tra la madre e il figlio, il tentativo di difesa da parte di Modesta si rivela essere una misera sopravvivenza, rispetto al bambino, che, invece, spietato e indifferente al grembo materno, lacererà il corpo e vivrà, attraverso l’atto della separazione, fin da subito come un essere libero e senza macchia, perché se vincitore o sconfitto, sarà comunque innocente. Sopravvissuta Modesta a questa ulteriore violenza, memorizzerà questo schema di nascita, separazione e libertà, tutte le volte che vorrà rinascere, partorita da se stessa, passando per una “grande onda del dolore carnale”.
Possedere questo tipo di libertà significa per Modesta decidere autonomamente quando ha inizio la vita, ma soprattutto quando comincia il passato, perché il destino “è una volontà inconsapevole di continuare, quella che per anni, ci hanno insinuato, imposto, ripetuto essere l’unica strada da seguire” e la vita non ha alcun valore se non educata alla libertà.
Un altro tema presente nel romanzo, è una totale distorsione dell’apparato sentimentale, un organo logorato e monopolizzato dall’istinto e dall’intenzione. Alla domanda “quante volte hai amato?”, Modesta risponde “tutte le volte che era necessario”, ma Modesta crescendo, impara di star sovrapponendo, in questa risposta, l’amore con il desiderio. Infatti, il concetto stesso di necessità, per sua natura, crea una prigione, una dipendenza che Modesta sa di subire con gli uomini e di esercitare con le donne. Che cosa c’è quindi di necessario nei suoi legami? La fama di essere desiderata e la fame di desiderare. Che cos’è il desiderio per Modesta? Un suo raffinatissimo oggetto di lavoro intellettuale, manipolato ad arte, che rallenta e indebolisce il reflusso del sangue, vissuto come un sogno, capace di risvegliare il corpo ai suoi cinque sensi. Ma Modesta rischia di subire un momento di sconfitta assoluta e di umiliazione, tramite il personaggio di Carmine, da cui subirà un inaspettato abbandono, vissuto da lei come un profondo pericolo e potenziale auto-annientamento, quando dirà che “le sue parole si sono impadronite di vivere senza il permesso della mia intelligenza”, proprio perché corre il rischio di sgretolare quel raffinatissimo oggetto di lavoro intellettuale, che assume la funzione erotica solo se partorito da un’affermazione mentale. Modesta impara con Carmine a godere dell’ atto sessuale, che seppur intenso, non è e non sarà mai un atto condiviso. Solo in questo caso, quindi, la dimensione astratta della sessualità diventa concreta e fisica, al punto che Modesta, nella sua fase di giovinezza, invece, non sa di scambiare e sovrapporre l’amore a questa profonda esperienza del corpo. Il desiderio di Modesta per Carmine è profondo tanto quanto “le fessure buie” della sorella Tina o il “pozzo” del convento dentro il quale voleva morire. Carmine è un personaggio negativo nella vita di Modesta, perchè da una parte, in un’inconsapevolezza che si risveglia dall’infanzia, avviene la riproposizione di un transfert che incolla sulle spalle di Carmine la figura del padre di Modesta, un chiarimento, questo, che puo’ forse legittimare questa tremenda debolezza che la donna non è in grado di controllare, dall’altro perché nella Modesta ventenne, Carmine incarna tutti i vecchi valori generazionali che lei detesta e cercherà di cancellare, dice di odiarlo, e lo odia veramente, ma quasi obbligandolo, gli chiederà di ripetergli più volte di amarla, perché, in una spiegazione molto complessa, qui resa spicciola, difficilmente un ideale, che pur si difende con ardore, con la vita e con la morte, potrà essere più forte di un durissimo trauma non ancora risolto.
Però esiste un momento, un solo momento d’amore nella vita di Modesta, e sarà tracciato da un filo che collegherà gli uomini della sua vita al mare, l’unico desiderio dolce e infantile, che la protagonista ha imparato dalle parole di Tuzzu e ha conosciuto e attraversato insieme a Carlo, l’unico ragazzo che, forse, non a caso, proponendole “nuove favole” da raccontare per far sorgere un nuovo mondo, sarebbe stato capace di accogliere quella parte bambina della protagonista; ma innamorarsi, significherebbe abbandonarsi all’amore, quindi allentare la presa del controllo e perdersi in un sé sconosciuto, un assoluto divieto che non è possibile permettersi.
Una domanda, però, a cui non so ancora rispondere è questa: ma in fin dei conti Modesta è colpevole o è innocente?

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