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L'isola di Arturo
 
L'isola di Arturo 2024-10-05 10:17:46 Miriam Di Miceli
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Miriam Di Miceli Opinione inserita da Miriam Di Miceli    05 Ottobre, 2024
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L'isola che non c'è

Una storia in frantumi ma senza lacrime. Elsa Morante è stupefacente nel lasciarci tra le mani un romanzo dal fiato spezzato, avviluppato in un terribile nodo alla gola che non si scioglie mai in pianto. Ha tutte le ragioni per farlo, perché l’età vissuta dal protagonista che mette in scena, si muove tra l’infanzia e l'adolescenza, un momento dell’esistenza che appartiene al sogno e si avvia, pian piano, al gioco sregolato dell’avere e del perdere di continuo, indirizzato verso una strada che parte da un bivio e irrimediabilmente arriva ad un altro bivio, in quanto ignorante, giovane e, di conseguenza, troppo indifferente ancora alla capacità autodeterminata nel prendere qualsiasi tipo di scelta. Inevitabilmente, nel percorso di Arturo Gerace, come il romanzo seguirà a raccontare, crescere significa diminuire la proporzione fantastica delle innumerevoli possibilità del mondo dell’infanzia, fino a ridurre la visione del reale ad un'inquadratura dolorosa e insopportabile, che chiede ostinatamente di sconfessare quelle “Certezze Assolute”, viste come i primi comandamenti di vita. Fin dall’inizio, il lettore è catapultato in un principio di favola. Arturo, detto il “moro”, grande avventuriero dalla mente affollata di terre lontane, profumi orientali, pirati all’arrembaggio, spedizioni nobili e lotte giuste, spera ben presto di partire per un meraviglioso viaggio al fianco del padre, Wilhelm Gerace, capitano fiero e superbo, che anima vivacemente la fantasia e l’amore del figlio.
Arturo vive come un selvaggio, solitario, nell’adorazione mitica di un padre, che ai suoi occhi si presenta come l’eroe più straordinario di qualsiasi leggenda mai raccontata.
Fino all’ultimo, e oltre la storia, Arturo, con il cuore ormai a pezzi, non riuscirà mai ad abbandonare quest’illusione mitica, che fin da bambino gli ha tenuto compagnia nei suoi giochi solitari. Dunque, solo come un bambino è capace di fare, Arturo costruisce ad arte, mistificando la realtà, il carattere egoista di Wilhelm, disperatamente malinconico, aggressivo e indifferente alla vita e alle cose, adattandolo ha un’enciclopedia mitica, portatrice di misteri profondi e nobili. Ogni vizio e difetto del padre si trasforma in un’inconoscibile e incontestabile virtù dell’eroe. Arturo, innamorato del prezioso mistero del padre, lo carica di magnificente santità, perché, nelle difficili contraddizioni del reale, è proprio l’assenza del padre e la leggenda del padre che costituiscono per lui la vera e unica figura paterna che adempie alle sue funzioni di paternità, dentro il godere di questo mondo fantastico.
Procida vive su una dimensione sospesa nel tempo, anch’essa affascinante protagonista di questa storia, non semplice sfondo, ma isola viva e parlante. Una Procida sempre al fianco di Arturo, che mostra i suoi segreti, i suoi spiazzi, le sue alte vedute, i suoi colori fiammeggianti, i suoi inverni superbi, le sue onde, a volte quiete, altre burrascose che si infrangono sugli stessi punti di quelle rocce consumate e antiche. Una Procida dal carattere contraddittorio, che mostra i suoi vicoli, gli ampi spazi e alcune curiose strade, che al principio del romanzo avanzano e ritornano di continuo, come figure familiari e che, durante la crescita di Arturo, arretrano e si nascondono alla vista, quasi venissero misteriosamente assorbite dall’isola stessa. Procida si rivela come un’amica sicura e, tuttavia, nasconde oscuri presagi, in una soporifera calma che, lunga tutto il tempo che Necessità richiede, attende la rivelazione e il compimento della profezia pronunciata alla nascita del protagonista. Arturo, infatti, più che vivere una vita, sembra camminare verso quell’unica via di destino profetizzata, miserabilmente distruttiva eppure unico agente identitario a cui sente di appartenere, come se al mondo esistesse un solo specchio capace di ricambiare il suo riflesso, e in questi pochi termini misterici e intraducibili si presenta l’intera furia tragica di questo romanzo.
Quell’Arturo che sembrava un’entità eterea e senza età, dalla pura essenza di un forte slancio verso forme di idealizzazione e trasfigurazione del reale, si avvia verso un cambiamento concreto, che si mostra immediatamente nella metamorfosi fisica di un corpo allungato, una voce irriconoscibile e che, una volta uscito dall’infanzia, porta gravosamente in cuore, all’improvviso e con terribile lucidità, tutto il peso dei suoi anni. La migrazione dal regno fantastico verso la via del reale, è segnata da un vento violento che lo spinge a far naufragio e lo costringe all’incontro con un nuovo, altro da sé, il quale assume le fattezze di una donna ancora acerba. La prima apparizione di questa figura femminile, si presenta come aliena e distante da Arturo, e quel pomeriggio d’inverno, attraccando a Procida, oltre a portare pochi bagagli con sé, conduce nel palazzo dei Gerace, con un vano tentativo di ripetizione, i racconti personali di un’intima esperienza familiare, la quale, al contrario, sembrava, fino ad allora, tenere severamente le distanze da Procida. In questa difficile esplorazione, in Arturo sfogano pulsioni conflittuali di gelosia, maternità e amore; tutte parole sconosciute, che danno vita a comportamenti istintivi, a cui il protagonista non riesce a dar nome. Il primo incontro tra Arturo e Nunziata è un ritrovarsi tra bambini, che sembra realizzarsi oltre un territorio fisico e localizzato, forse, ancora una volta un’isola, ma un’isola che non c’è, luogo in cui si produce innocenza, curiosità, dispetto, degnazione velata e scontro inarrestabile per la difesa delle cose più personali e a loro care.
L’incontro - scontro tra i due è simbolicamente rappresentato dalla condivisione di Wilhelm Gerace, uomo per lei, eroe per lui. La condivisione obbligata di questo essere, dapprincipio unico, porta Arturo ad un odio irrefrenabile nei confronti di quella che assume, per lui, il ruolo di “matrigna”, ma nello stesso tempo, agisce in lui con la forza propulsiva di un pendolo, che lo spinge, dall’altra parte, verso la curiosità di conoscere una natura femminile ancora inesplorata. La condizione tripartita di donna, nemica e madre sembra trovare risvolto nella notte del parto. Come un sogno impossibile da conservare, Arturo sovrappone alla figura della matrigna l’immagine di sua madre, in una notte che ha già vissuto ma non può ricordare. Proiettandosi nel passato, il protagonista, in quella notte annebbiata e terribile, correndo per portare soccorso alla donna, riavvolge il filo della propria esistenza e cerca di porre rimedio alla colpa originaria della sua nascita, la cui luce, ha portato in eterna ombra la sua giovane madre biologica.
La gelosia di Arturo si allarga ancora un po’ e sfocia in acque pure e incontaminate, il cui suono allo schiocco di baci, fino ad allora sconosciuti alla sua vita, ardono, adesso, di desiderio d’intimità e riconoscimento, come chi esige di appropriarsi di un onesto diritto di fronte alla giustizia per un'esistenza che chiede di esser degna di vivere.
Ma come può un essere umano destreggiarsi nelle cure e nelle attenzioni amorevoli di qualcuno, dopo aver abitato e vissuto una così grande solitudine? E’ una risposta difficile da dare, misteriosa, che aleggia in Arturo come un richiamo profondo di una voce estranea, che viene da chissà dove.
Questa voce interiore spinge il ragazzo a provare, per la prima volta, sentimenti palpabili, reali, mescolati nella confusione vorticosa del vuoto, del pozzo, metafora di un nulla che instilla in lui il nuovo desiderio di riempire e di colmare mancanze primigenie. Anche Arturo Gerace, come un valoroso eroe dell’epica, attraverso potenti farmakos, fa esperienza dell’al di là, nell’esplorazione di un regno inabissato che per lui non vale nulla, non ha significato alcuno, ma che gli è funzionale e di cui si mette al servizio, per cercare nel buio sotterraneo la strada dell’amore attraverso il mistero della morte.
In questo romanzo è presente uno dei baci più vertiginosi ed enigmatici della nostra letteratura. Queste labbra di fanciulli che si avvicinano, poi si incontrano e si premono fin dove la sazietà lo chiede, contiene il sapore dell’erba, dell’acqua del mare e del desiderio di vita. Lo si potrebbe definire un bacio colpevole? Ci sono tanti baci colpevoli nella letteratura, ma questo è forse uno tra quelli d’innocente colpevolezza, perché racchiude all’interno tutte le presenze dell’incontro con l’altro. E’ un bacio, infatti, travolto dalla forza materna e dalla pulsione erotica, due categorie impossibili da comprendere, se osservate come elementi separati, ma che agiscono in una forza complementare, quasi indistinta e mimetica, la cui reciprocità esplode in un’unica dinamo circolare, in cui il moto dell’una, trova all’interno la forza dell’altra. Un incontro tra la Madre e l’amante in un principio di contraddizione amorosa, inseparabile e folle.
Arturo, dunque, si separa dalle vaghezze di sogni lontani ed esplora le esperienze empiriche rivolte alla sessualità, al proprio dolore, al pianto altrui, al mistero della Madre e alla verità delittuosa del padre, le cui sembianze dell’uomo in carne ed ossa, visto e riconosciuto per quello che è, spinge Wilhelm Gerace ad uccidere, nell’unico duello epico che abbia mai combattuto in vita sua, quel doppio immaginifico, quell’eroe idilliaco, che il figlio aveva rivestito di un’armatura scintillante. La morte dell’eroe, spazzato via come un granello di sabbia, trasforma la favola di Arturo nel primo inganno originario, nella sua più potente tragedia. L’incapacità di Arturo di onorare e dare degna sepoltura a quell’eroe, da lui inventato, porta il suo cammino verso quel destino che Procida tanto attendeva, e che, come un Edipo accecato, con gli occhi nel buio, abbandona in un confine oltre la storia del romanzo stesso.

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