Dettagli Recensione
Tempus fugit
«[…] Tutta quella vita facile ed elegante ormai non gli apparteneva più, cose gravi e sconosciute lo attendevano. Il suo cavallo e quello di Francesco – gli pareva – avevano già un passo diverso, uno scalpitare, il suo, meno leggero e vivace, come un fondo di ansia e fatica, come se anche la bestia sentisse che la vita stava per cambiare.»
Quando si è giovani la prospettiva verso il futuro è fatta di speranze, desideri e perché no, gloria. Si pensa di poter cambiare il mondo, si crede di poter fare la differenza, si cerca la carriera, si alimentano e accrescono i sogni con quella linfa di buoni propositi e illusioni che spesso vengono minati da quel che poi di fatto la vita si rivela nei suoi mille ostacoli e nei suoi mille e più percorsi tortuosi. E spesso quelle speranze, quei sogni e quelle illusioni si perdono nel tempo, lasciando spazio ad altro, ad una nuova consapevolezza, ad una nuova maturità. Ed è un po’ questo quel che succede a Giovanni Drogo che, fresco di nomina e glorioso di aspettative per una carriera in divenire, parte per la sua prima nomina presso la Fortezza Bastiani. Si aspetta momenti di battaglia e strategia dove sconfiggere il nemico e vincere di onore e coraggio e si ritrova, al contrario, in un luogo atemporale e aspaziale, dove a regnare è il silenzio, dove a governare è l’idea di un nemico che un giorno arriverà ma che sembra, in verità, non arrivare mai. E tutti, nessuno escluso, sembrano essersi dimenticati del mondo di fuori perché assuefatti a quella realtà di lande desolate, paesaggi interminabili, muri umidi e marce ininterrotte.
«I muri nudi ed umidi, il silenzio, lo squallore delle luci: tutti là dentro parevano essersi dimenticati che in qualche parte del mondo esistevano fiori, donne ridenti, case allegre e ospitali. Tutto là dentro era una rinuncia, ma per chi, per quale misterioso bene?»
Davanti il deserto. Un unico paesaggio, un unico scenario. Gli viene proposto di trattenersi pochi mesi, solo quattro, e poi tornare a casa. Gli viene prospettato di restare un paio d’anni che alla Fortezza si acquista merito più rapidamente e il servizio vale di più. Passano i giorni, passano le speranze, vengono meno i sogni di gloria. L’unica cosa che manda avanti i soldati è la prospettiva di quel nemico così atteso e così bramato, così desiderato e così auspicato ma che proprio non vuol saperne di arrivare. È questa la “benzina” che alimenta le giornate, che le fa scorrere in un caleidoscopio di monotonia, che le rende meritevoli di essere vissute e vinte in quel del nulla accadere. Ogni minimo presunto avvistamento è un motivo per ripagare di quell’attesa interminabile. Quando Drogo avrà la prima licenza, è ancora in tempo per salvarsi, ma vive ormai in una “terra di mezzo”. Non appartiene più a casa sua, non si sente più parte del mondo che prima era fatto di motivazione e vita, non appartiene ancora totalmente alla Fortezza ma in quel luogo si sente padrone del silenzio, mosso da un motivo e una ragione per vivere e andare avanti. Si trova ad essere parte di quell'ingranaggio che non si può interrompere e che porta a rimandare il possibile cambiamento, la svolta della propria esistenza.
«[…] Ora sentiva perfino un’ombra di opaca amarezza, come quando le gravi ore del destino ci passano vicine senza toccarci e il loro rombo si perde lontano mentre noi rimaniamo soli, fra gorghi di foglie secche, a rimpianger la terribile ma grande occasione perduta.»
Scegliere. Farsi trasferire. Restare. Scoprire che altri se ne sono andati. Il tempo sembra non scorrere mai, eppure il suo defluire non risparmia nessuno, ancor meno Giovanni Drogo. Sono ormai passati quasi tre decenni e per Giovanni ha inizio l’ultima vera sfida. Chissà se quei Tartari sono arrivati davvero, ma per lui adesso il nemico è un altro. La sua vita è trascorsa nell’attesa, senza affetti, senza più sogni e speranze, senza nulla costruire. Ed ora cosa gli resta se non affrontare la morte in solitudine, nella più unica dignità e nella consapevolezza che ha vinto l’ultimo e vero grande nemico e cioè la paura di morire?
«[…] Avanzava infatti contro Giovanni Drogo l’ultimo nemico. Non uomini simili a lui, ma tormentati come lui da desideri e dolori, di carne da poter ferire, con facce da poter guardare, ma un essere onnipotente e maligno; non c’era da combattere sulla sommità delle mura, fra rombi e grida esaltanti, sotto un azzurro cielo di primavera, non amici al fianco la cui vista rianimi il cuore, non l’acre odore di polvere e fucilate, né promesse di gloria. Tutto succederà nella stanza di una locanda ignota, al lume di una candela, nella più nuda solitudine. Non si combatte per tornare coronati di fiori, in un mattino di sole, fra sorrisi di giovani donne. Non c’è nessuno che guardi, nessuno che gli dirà bravo.»
“Il deserto dei Tartari” è un testo elegante, dalla prosa magnetica, dal contenuto composto e corposo. È un libro che ricorda ai lettori l’importanza del tempo, il difficile convivere con la monotonia. Ed è anche un libro che ci invita a riflettere sulla nostra esistenza, sul nostro essere, sui nostri sogni, le nostre disillusioni, le nostre speranze, le nostre verità, le nostre amarezze. L’idea venne a Buzzati quando si trovò in un periodo di profonda monotonia nella sua vita e questa consapevolezza del tempo che scorre arriva tutta proprio nel suo non scorrere (che intrappola).
Il lettore è come trasportato in una dimensione di non temporalità, in una dimensione parallela dove i ritmi del vivere sono diversi e costruiti su nuovi presupposti. Non è un romanzo per tutti, è un libro che richiede tempo, che chiede di essere capito e che ripaga per quel che chiede con il messaggio che offre e lascia. Il ritmo è ben cadenzato, la sensazione è quella di essere con Drogo in ogni istante, anche nell’epilogo affatto lieto. Scuote, non lascia indifferenti, resta. Un classico del nostro panorama letterario da non perdere.