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Elias Portolu
 
Elias Portolu 2024-07-08 21:26:58 Calderoni
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
Calderoni Opinione inserita da Calderoni    08 Luglio, 2024
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Un tormento che non conosce oblio

Come scrive la curatrice dell’edizione di Utopia del romanzo di Grazia Deledda intitolato Elias Portolu, «chiunque abbia desiderato ciò che non si può desiderare, e amato una persona che non si può amare, conosce il tormento di Elias Portolu». La grandezza dell’autrice sarda, premio Nobel per la letteratura nel 1926, sta nel rendere questo tormento nitido e potente come tutte le emozioni universali anche a distanza di un secolo. Il romanzo è del 1903, appena successivo a Cenere, e come Cenere risente ancora di una certa ridondanza stilistica e soprattutto in alcuni passaggi appare stucchevole il continuo parallelismo tra i protagonisti umani e il mondo animale, soprattutto quello dei pennuti (colombi e uccelli sono costanti termini di paragone). Dal punto di vista della pulizia di scrittura, in Elias Portolu siamo ancora lontani dal capolavoro di Canne al vento. Però, proprio come Cenere, è un libro nel quale le passioni divampano e la Deledda è un’abile pittrice in grado di mettere su tela le innumerevoli sfaccettature emotive del protagonista. Ne esce un lavoro davvero pregevole in grado di suscitare una certa vicinanza nei confronti di Elias, il cui dramma muove le fila del discorso. Eppure il lettore incontra Elias nel momento in cui sembra essersi salvato dalla disgrazia peggiore in assoluto: è appena stato scarcerato e torna nella sua Nuoro, in Sardegna, dopo aver scontato la pena in continente. Né il luogo della prigionia né i motivi della condanna sono esplicitati, restano piuttosto nebulosi perché l’intento dell’autrice non è quello di disvelarli. Elias torna nelle primissime pagine del primo capitolo (il romanzo ne conta dieci) e viene accolto dai familiari e dalla comunità nuorese con una frase che riletta al termine della narrazione stride enormemente; la frase in questione è «un’altra disgrazia simile fra cento anni». Come detto, la disavventura di Elias sembra finita, invece siamo soltanto all’inizio di un’ancor più ardua lotta contro se stesso.
La fotografia iniziale è molto semplice: Elias è figlio di zia Annedda e di zio Berte, ha due fratelli (Pietro il maggiore, contadino, e Mattia, pastore come il padre e lo stesso Elias) e vive a Nuoro. Al suo ritorno dal penitenziario in continente, è un ragazzo nuovo: non è più il ragazzo incauto che si era lasciato corrompere da amici e sconsiderati; ha riscoperto sé e anche il suo modo di presentarsi richiama alle tonalità chiare del candore, ben lontane da quelle ruvide, aspre e scure dei suoi fratelli e di suo padre, costretti alle fatiche della campagna. A rompere l’equilibrio che sembrava ritrovato ci pensa Maria Maddalena, promessa in sposa a Pietro. È stata consegnata da sua madre, vedova, a zio Berte Portolu che in cambio ha giurato massima protezione della figlia. Il matrimonio che ne scaturisce tra Pietro e Maria Maddalena è il classico matrimonio senza amore, mentre la scintilla amorosa scatta come un colpo di fulmine tra Elias e la ragazza. «Io mi sono innamorato di lei; perché me ne sono innamorato San Francesco mio?»: questa è la domanda che si pone Elias. Il protagonista è molto devoto a San Francesco, crede in Dio ed è atterrito dal demonio. Con l’ingresso di Maria Maddalena è il furor più che la ratio a dominare la scena, c’è la tentazione al massimo grado. La ragazza non può essere di Elias perché è già di suo fratello Pietro, eppure alla passione non si comanda ed ecco che comincia il calvario personale del protagonista, ancor più insidioso e profondo della carcerazione perché è a spirale e sembra continuare in eterno. La ricaduta è la parola chiave e ogni ricaduta si ripresenta diversa ma ugualmente divampante. E in una simile condizione non c’è voto che tenga («Pietro, fratello mio, anche se ella venisse a gettarmisi fra le braccia, io la respingerei»: il voto verrà contraddetto dallo scorrere della narrazione).
In questa discesa Elias Portolu cerca di ricevere consiglio da due persone agli antipodi: prete Porcheddu e zio Martinu, padre della selva, paragonato a un cinghiale per il suo sguardo. Ciò che ne ricava sono due pareri naturalmente opposti: da una parte l’ecclesiastico invita il protagonista a combattere le tentazioni, dall’altra zio Martinu invita alla confessione del suo amore perché «la tentazione si vince oggi, si vince domani, ma posdomani finisce col vincere lei». Zio Martinu pronuncia una frase che poi diventerà cardine nel pensiero della Deledda: «Uomini siamo, Elias, uomini fragili come canne». Il padre della selva, uomo che si è macchiato dei peggiori crimini ma ha avuto la forza di redimersi, non viene ascoltato da Elias e il rifuggire dalla tentazione al protagonista riesce ma, come pronosticato, non in eterno, sebbene ricerchi delle soluzioni che all’apparenza possono rimandare all’eternità; infatti, Elias in più circostanze dice di volersi fare prete perché, come detto, crede in Dio e perché vuole «vincere le tentazioni del mondo». La sua motivazione è per lungo tempo scarsa: vuole farsi prete per sé, non per gli altri, vuole farsi prete perché sentiva un ribelle desiderio di vita comoda, un bisogno di tregua, vedeva il suo unico scampo nel cambiare stato e zio Martinu lo ammonisce con parole inequivocabili, dicendogli che è «meglio essere uomo del mondo abile del bene, che uomo del Signore portato al male». Ma quello di Elias è un tira e molla tormentoso. Alla fine, il furor farà il suo corso e, durante i festeggiamenti carnevaleschi in maschera, il protagonista si troverà a ballare con Maria Maddalena in un concentrato di desideri folli animati dalla passione per la ragazza, dalla pietà per il fratello, dalla paura per le sue debolezze carnali, dal dolore inflitto alla sua famiglia per il tradimento e dal piacere per quel contatto con il corpo dell’amata. Al termine del sesto capitolo Elias cederà definitivamente alla tentazione: «Egli entrò e chiuse l’uscio: ed ella, che avrebbe potuto gridare e salvarsi, tacque e non si mosse». Il resto viene da sé, non servono altre parole e per questo la narratrice tronca il discorso con una forte ellissi. Nonostante il concretizzarsi del primo rapporto extraconiugale, quasi incestuoso, il tira e molla in Elias non si dirada, anzi se possibile si accentua tra tentativi di fuga dalla realtà (ritorna l’idea di farsi prete) e nuove cadute. Il nuovo colpo di scena al termine del settimo capitolo: Maria Maddalena è incinta non del violento marito Pietro, bensì dell’amante, di Elias.
È una notizia capovolgente per Elias: l’incendio della passione sembra smorzarsi, non può essere padre ma può avere un ruolo privilegiato da zio e decide davvero di farsi prete, seguendo i consigli di prete Porcheddu. Il nono capitolo si apre con un’altra ellissi, temporalmente forte: sono infatti trascorsi due anni e ormai nessuno si sorprende più nel vedere Elias Portolu con i panni del seminarista. Eppure, in fondo al cuore del giovane ecclesiastico il fuoco non si è spento e i fatti lo confermano. Pietro si ammala e muore, il primo pensiero di Elias è «se morrà, io potrò sposare Maddalena», un pensiero che poco si addice a un seminarista e a una persona in procinto di perdere il fratello. Lo sa anche lui che resterà sempre uomo e soggetto alle passioni: «no, la salvezza non è negli ostacoli fra noi ed il peccato, ma nella forza nostra e nella nostra volontà». E la benzina a rendere ancor più ardente il falò del furor è la gelosia, che subentra sul finire dell’opera quando in casa Portolu, dopo la morte di Pietro, subentra Jacu Farre, possessore di armenti, terre, cavalli e alveari; è lui che si mette a caccia di Maria Maddalena, è lui che si pone a protezione del figlio di Maria Maddalena (ed Elias). Il protagonista potrebbe ancora una volta, per l’ultima volta, invertire la sua storia, invece riceve gli ordini sacerdotali e rinuncia definitivamente a Maddalena e a suo figlio. Ci rinuncia nei fatti, non nei pensieri e non riesce ad accettare la vicinanza di Jacu Farre al suo bambino. Anche il pargolo si ammala e solo nel momento in cui muore prete Elias Portolu può avvicinarsi e stare solo con la creatura, nessuno più può toglierglielo, nessuno più può mettersi fra loro. E sul suo infinito accoramento sentiva calare un «tenue velo di pace e quasi di gioia perché l’anima sua si trovava finalmente sola, purificata dal dolore, sola e libera da ogni umana passione, davanti al Signore grande e misericordioso». La morte del figlioletto mai riconosciuto è il simbolo della redenzione umana, il cui tormento non conosce l’oblio nemmeno a cent’anni di distanza.

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Bella recensione.
Non ho letto questo libro, ma considero comunque la Deledda una grande scrittrice. E nitida e potente reputo la sua scrittura.
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